L'opinione dei giuristi

 

Per una giustizia tempestiva e di qualità

non basta la sola ricetta dell’efficienza

di Mario Chiavario, Ordinario di Diritto processuale Penale 

presso l’Università di Torino

   

(Guida al diritto, 11 agosto 2001) 

 

Innegabilmente, un programma di vaste ambizioni, quello esposto dal ministro Castelli nella sua prima presa di contatto ufficiale con i nuovi organismi parlamentari. Basti pensare all’enunciazione del proposito - a dire il vero, già anticipato in campagna elettorale da chi ha oggi la massima responsabilità di Governo - di procedere, prima della scadenza del quinquennio, alla riscrittura di tutti e quattro i codici fondamentali.

La laconicità del riferimento e la mancanza di dettagli su metodi e criteri per l’attuazione di un tale progetto (a dir poco gigantesco, anche se per tanti versi necessario) hanno peraltro indotto i cronisti e i primi commentatori a sorvolare quasi sempre sul punto, per dare maggior rilievo - oltre che alla smentita delle ricorrenti voci di amnistia e a ulteriori prese di posizione di carattere palesemente “politico” - ad altre, più “mirate”, indicazioni, di cui pure è stata ricca l’esposizione del ministro e, soprattutto, a quelle inserite nel “pacchetto” degli interventi definiti “più urgenti”.

E ciò vale, in particolare, per i progetti di riforma del sistema di elezione dei membri togati del CSM e, soprattutto, per ciò che concerne la patata bollente delle carriere dei magistrati. Non a caso, tra le reazioni, sembrano prevalere le critiche, anche se spesso tra loro antitetiche, in quanto vi è chi scorge, nelle linee di azione disegnate dal Guardasigil1i, i sintomi di un.eccessiva timidezza e la propensione al compromesso non risolutore, mentre altri vi avvertono il preannuncio di un terremoto punitivo per l’intera categoria.

È un’ulteriore conferma dell’estrema delicatezza del problema. Ci sia comunque consentito ricordare che, ferma restando l’opportunità di segnare qualche “paletto” in più, rispetto alla situazione attuale, a limitazione di una “libertà di passaggi di ruolo” oggi davvero troppo estesa, non sono soltanto i magistrati a temere che una rigida separazione di carriere, oltre a compromettere la comune partecipazione a una salutare “cultura della giurisdizione”, potrebbe finire col rendere periglioso, o addirittura impossibile, un esercizio responsabilmente libero dei loro doveri.

Quali parti essenziali del “programma dei cento giorni” tratteggiato dal ministro della Giustizia, figurano anche taluni progetti di riforma del diritto sostanziale, a loro volta assai controversi: nuovo diritto societario e abolizione dei reati d’opinione.

Sotto il primo profilo, il confronto è ormai a uno stadio avanzato sul piano parlamentare, con un’opposizione assai decisa nel contestare le radicali modifiche apportate al “testo Mirone”, e con un’altrettanto evidente risolutezza della maggioranza nel proseguire lungo la sua strada. Quanto al secondo, quasi tutto appare, invece, ancora da definire; e rimane compito primario del ministero fornire, con un disegno di legge ad hoc, la base testuale per l’avvio di una discussione davvero adeguata.

D’altronde, se sono legittime le divergenze nelle valutazioni sulla priorità di questa riforma, rispetto a tutta un’altra serie di possibili iniziative nel quadro delle più generali prospettive di revisione del codice penale, è invece difficile negare che parecchie potature specifiche siano, prima o poi, da operare nel campo specifico (eloquente è anche l’ultimo segnale venuto recentissimamente dalla Corte costituzionale). Dispiace, semmai, che su quest’argomento, così come su quello della riforma del falso in bilancio, gravino le ombre della connessione con vicende giudiziarie particolari; e non c’è dubbio che nascerebbe male una riforma che potesse essere interpretata anche, se non soprattutto, come una sorta di regolamento di conti con la magistratura o con una parte di essa.

Qualche parola, infine, sull’approccio marcatamente “efficientistico” del ministro all’insieme dei problemi da affrontare. Intendiamoci: pure i più recenti predecessori del ministro Castelli hanno spesso posto l’accento sull’efficienza come esigenza essenziale da restaurare, in un’amministrazione giudiziaria tra le più deficitarie sotto questo profilo; e il binomio «garanzie ed efficienza» è ormai divenuto uno slogan fatto proprio dalle sedi più diverse, assumendo un significato particolarmente impegnativo anche in ripetuti moniti del Capo dello Stato.

Peraltro, lo slogan riceve un suono tutto particolare quando si accompagna all’inedito di un ingegnere a capo di un dicastero, che è stato quasi sempre appannaggio di uomini di formazione strettamente giuridica: avvocati, magistrati, professori di diritto...

Potrebbe venirne uno scossone, globalmente salutare, soprattutto in rapporto alla politica dei “servizi”, vale a dire per quanto attiene a quella predisposizione di strumenti materiali e a quell’organizzazione del personale ausiliario, che costituiscono attribuzioni costituzionalmente incontestabili del ministero (articolo 110 della Carta fondamentale). Tuttavia, non si ripeterà mai abbastanza che, là dove si deve rispondere alla “domanda di giustizia” della collettività e dei singoli, l’efficienza assume una fisionomia tutta sua, in quanto funzionale a obiettivi per la cui individuazione e il cui perseguimento devono avere un’importanza essenziale il rispetto e la valorizzazione di ogni persona umana, e che al tempo stesso devono fare i conti con un universo di relazioni umane tra le più difficili da comprendere e da armonizzare.

Insomma, non si vuol negare che, sotto certi profili, l’efficienza possa e debba misurarsi anche qui in termini di produttività, di adeguatezza di tempi, di rifiuto di sprechi di risorse, per cui il ministro non fa male a rivendicare una pragmatica positività della mentalità “da ingegnere”. Qui, però, nel conto dell’efficienza, si deve mettere, anche e soprattutto, la capacità di perseguire, ai livelli più alti possibili, il rispetto di alcuni postulati, finalizzati a scopi non monetizzabili, che la Costituzione del 1948 ha il merito di aver indicato come fondamentali.

Tanto per dire: l’effettività della difesa processuale, anche per i non abbienti (e non ci si culli nell’illusione che bastino i ritocchi egli aggiustamenti recentemente apportati alla normativa del 1990...) , o il rifiuto della mera afflittività delle pene, che non solo non possono essere contrarie al senso di umanità ma devono tendere alla rieducazione del condannato e non all’annichilimento della sua personalità (e di ciò - sembra quasi superfluo rammentarlo - non potranno non tener conto neppure gli sviluppi del programma di piena rivalutazione del fattore-lavoro nel trattamento dei detenuti, preannunciato dal ministro: sarebbe certo fargli un torto pensare che si abbia in mente il ripristino, in versione riveduta e corretta, della vecchia pena dei lavori forzati…).

 

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