"Da grande? Lavorerò in carcere"

 

"Da grande? Lavorerò in carcere"

di Marta Todeschini

 

L’Eco di Bergamo, 3 aprile 2004

 

La scelta di Michela, attratta dal mestiere dell'educatore: andrò in via Gleno

E Alessandra, dopo una tesi su San Vittore, tenta il concorso del ministero

In un libro in primo piano l'esperienza degli educatori in carcere

 

Non per tutti il carcere rappresenta un luogo chiuso e oscuro da cui tenersi dovutamente alla larga. Alcuni, in galera, desiderano entrarci. E non si tratta di criminali. Tra i ragazzi che hanno curato la pubblicazione "Educazione, colpa e riscatto" presentata ieri nella sede dell'Università in Sant'Agostino, c'erano anche due giovani studentesse che da grandi vogliono fare l'educatore. In carcere, appunto. Vedere per credere, è il loro motto. E loro la realtà di chi vive per dieci giorni o dieci anni dietro le sbarre l'hanno vista con i loro occhi. Alessandra Zenoni al penitenziario di San Vittore, nel centro di Milano. Michela Colosio nella Casa circondariale di Bergamo.

Entrambe hanno scelto questo tipo di struttura per il loro tirocinio. Studentesse 24enni alla facoltà di Scienze dell'Educazione a Bergamo, le separano solo pochi mesi: Alessandra ha già la laurea in tasca, con una tesi – manco a dirlo – sulla sua esperienza in prigione (un estratto è contenuto nel volume curato da Mauro Minervini e Brunella Sarnataro, frutto del seminario che una trentina di studenti ha svolto tra carcere e aule di università), e parteciperà al concorso del ministero di Giustizia per l'assunzione di 50 educatori. Michela ha maturato questa stessa scelta lavorativa e di vita all'inizio dell'università: la scintilla è scattata con il seminario di Psicologia dinamica sull'argomento carcere, poi le lezioni del professor Ivo Lizzola (Pedagogia sociale), che anche ieri ha ribadito che "recuperare il senso della giustizia significa ripartire dalla dignità umana di chi è recluso, donne e uomini non perfetti, non "puri" nei gesti, non del tutto limpidi nelle intenzioni. Vulnerabili", le sue lezioni hanno fatto il resto.

Fatto sta che, nell'estate 2002, da luglio a settembre, l'aspirante formatrice ha fatto la spola da Tavernola a via Gleno, tutti i giorni. Michela era l'ombra delle tre educatrici che operano nel carcere cittadino. Dall'incontro con loro, con i dirigenti e i detenuti è emerso che in una realtà come quella della Casa circondariale di Bergamo è molto difficile riuscire a instaurare dei legami, soprattutto a causa del sovraffollamento. Gli educatori infatti sono numericamente molto inferiori ai detenuti: si è perciò costretti a scegliere i soggetti con cui dialogare in base ai bisogni, alle urgenze e al tempo di permanenza nell'istituto. Va da sé che gli spazi insufficienti rendono troppo spesso vane le buone intenzioni di "umanizzare la pena", impegno che, spiega don Virgilio Balducchi, cappellano in via Gleno, è necessario "per ricomporre la conflittualità, fare riconciliazione e produrre relazioni più giuste". Un'esperienza che ha lasciato il segno, quella dell'estate 2002.

Tant'è che Michela in carcere c'è tornata. Ora segue, due volte la settimana, il laboratorio teatrale nella sezione maschile. Ieri erano una decina in tutto i reclusi alle prese con il copione provvisorio, scritto dai due registi che li assistono. Italiani e stranieri, ragazzi e meno giovani, pronti a mettersi in gioco nei panni di un signor qualcuno che non è mai così diverso da tutti noi. "Quelle due ore sono l'occasione per sperimentarsi, per riuscire a scoprire che anche tu hai qualcosa da dire e da dare all'altro – spiega Michela

Il teatro è davvero un'occasione per una nuova nascita e comunque, nell'ipotesi meno romantica e ottimistica, resta sempre un modo per rompere la monotonia della giornata e uscire di cella".Con una parte da rappresentare ci si scopre anche meno isolati e soli, si riesce a fare gruppo e, interpretando una nuova identità, si può ritrovare anche la propria. Non c'entra essere attori veri: non lo sono i detenuti, non lo è Michela. Ciò che conta, in fondo, è ritrovare fiducia in sé, fare qualcosa e farlo bene, anche una scena di qualche secondo. Durerà invece parecchi anni, concorsi e assunzioni permettendo, l'impegno di Michela nel carcere. Difficile smuoverla dal suo sogno, anche se lei stessa, nel suo contributo pubblicato in "Educazione, colpa e riscatto", su questo mestiere più che luci delinea rischi e ombre. Anzitutto i disagi dovuti all'inadeguatezza delle strutture e la difficoltà di favorire il recupero dei detenuti per la mancanza di tempo materiale e di forze, basti pensare che in via Gleno gli educatori sono tre su quasi 450 reclusi. Ma la formula "questo è un lavoro che può darti tanto a livello umano" in questo caso vince. Sognare non fa mai male. Se poi fa bene all'intera società, aiuta.

 

 

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