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La pena in più: intervista postuma a Zulma Paggi
Una Città – rotocalco culturale in Forlì. n° 128 - aprile 2005
Intervista postuma a Zulma Paggi, che abbiamo ricordato nel n. 125 di Una Città. Negli ultimi anni aveva dedicato molto del suo tempo a fare volontariato nel carcere di San Vittore. Pubblichiamo qui l’intervista che ci aveva rilasciato sulla sua esperienza coi detenuti.
Come ho fatto ad avvicinarmi al carcere? Ho fatto un percorso. Ho cominciato facendo un po’ di volontariato in una cooperativa presso la quale lavorava anche un detenuto in semilibertà, non ricordo se un ex Br o Prima Linea. Di giorno lavorava e la sera rientrava in carcere, la solita storia. E quando il lavoro con questa cooperativa è finito, ho deciso di presentare la domanda per fare volontariato in carcere. Mi hanno fatto un colloquio, dopodiché è passato quasi un anno in cui non ho saputo più nulla. Poi, quando ormai non ci pensavo neanche più, è arrivata la convocazione, e con questa la tessera. E credo che in questo lasso di tempo, dal parroco alla polizia, abbiano fatto indagini anche sul mio bisnonno; d’altronde è giusto, e anche comprensibile, che ci sia un filtro. Perché poi la tessera che mi hanno concesso, in base all’art. 378, mi permetteva di vedere chiunque. Ci sono due formule per fare volontariato in carcere, una prevede che tu entri per fare dei corsi, ed è un permesso che va rinnovato ogni anno -ha la cadenza dell’anno scolastico- e ti permette di vedere solo i detenuti che partecipano a tali corsi. Il mio tipo di permesso, invece, mi permetteva di avere colloqui con chiunque ne facesse richiesta, era sufficiente che il detenuto facesse una domanda scritta, la classica "domandina", che poteva essere nominativa o generica, a seconda se voleva vedere un volontario in particolare o chiedeva genericamente di parlare con qualcuno.
Ecco, ci sono arrivata così, e all’inizio è stato molto pesante. Uscivo e andavo in pasticceria, tornavo a casa e sfogliavo dei giornali femminili, Elle, robe del genere. Dopo subentra l’adattamento, però quella montagna di sofferenza e d’ingiustizia era veramente qualche cosa di spaventoso... gli errori giudiziari, i fascicoli che si perdevano, le visite specialistiche che non arrivavano mai… Quello è stato lo choc.
Io avevo il mio elenco di nomi, quelli da cui bisognava andare subito, quelli che invece andavano chiamati ogni quindici giorni; e le richieste erano dettate soprattutto da necessità pratiche, contingenti, "per cortesia, ho bisogno di una tuta", oppure "devo rifare gli occhiali perché mi si sono rotti". Però spesso questi erano anche motivi di "copertura", che in realtà nascondevano semplicemente il bisogno di parlare. L’aspetto "quotidiano" del lavoro comunque non va sottovalutato, se ti si rompono gli occhiali come fai? Sei allo sbaraglio. Allora, si cominciava così, che magari gli facevi rifare gli occhiali, ovviamente tutto in regola, seguendo l’iter, chiedendo il permesso, ecc. (poi noi come associazione avevamo un po’ di soldi -pochi in verità- per cui magari gli occhiali nuovi li facevamo avere gratis) dopodiché, su quello si cominciava a costruire un rapporto. Che non è sempre facile, anche perché i trasferimenti sono continui, San Vittore è un posteggio, un andirivieni continuo, per cui magari tu segui una persona, fai un lavoro con lei, stabilisci un rapporto, la chiami regolarmente, dopodiché vieni a sapere che l’hanno trasferito. Invece per costruire qualcosa occorre tempo. Il pomeriggio, poi, c’erano da fare le telefonate, all’avvocato d’ufficio perché andasse a visitare il detenuto, alla madre che erano anni che non andava a trovare il figlio… Ogni tanto mi pigliavo due giorni e non volevo saperne più niente, dovevo liberarmi la testa.
La regolarità è importantissima: se dici a una persona che al 10 del mese lo chiamerai a colloquio, lo devi fare assolutamente, perché poi il detenuto si mette in attesa. Magari al primo colloquio si presenta malvestito, sporco, con la barba lunga, poi però, alla fine chiede: "Signora quando torna?". E dalla seconda volta è già più pulito, comincia a prepararsi con cura, a lavarsi, a radersi, a vestirsi bene, quello è il segno che aspetta il colloquio, che si è stabilito il rapporto. I motivi tu non riesci a decifrarli perfettamente, però è successo. E questo gli serve anche per avere un motivo per farsi una doccia o mettersi un indumento pulito anche se non ne ha voglia. Lo vedi da queste cose: se si è fatto la barba, vuol dire che è andata bene. Una cosa che non si domanda mai direttamente (almeno io non l’ho mai chiesta), ma che è importante sapere, è che tipo di reato hanno compiuto, se uno deve scontare tre mesi o trent’anni, perché in quel caso cambia completamente il tipo di intervento. Se uno ha una pena lunga ciò che bisogna fare è dare senso alla sua vita in carcere, ad esempio fornirgli la possibilità di svolgere qualche attività, un lavoro interno, perché poi la questione del lavoro è cruciale, c’è un sacco di gente che lavorerebbe anche gratis, pulirebbe i pavimenti, qualsiasi cosa, pur di uscire di cella. Bisogna poi fare molta attenzione ai propri comportamenti perché la carcerazione, specie se lunga, rende ipersensibili, soprattutto a causa dello spazio ristretto e della mancanza di stimoli. Ad esempio un gesto, che a te può essere sfuggito, per loro diventa invece estremamente significativo; se io parlo con te e nel frattempo mi volto un attimo dall’altra parte, ecco per loro questo diventa un messaggio negativo. Ancora: è molto importante dare del lei e non del tu. Al tu magari ci arrivi dopo, soprattutto con una persona giovane. Ci vuole molto rispetto. E poi occorre un’altra qualità, che però si forma da sola, col tempo, ed è l’attenzione. Un’attenzione fortissima alla persona che hai davanti, che corrisponde in genere all’attenzione che ha lui verso di te. Ed è un’attenzione non solo alla parola ma soprattutto al linguaggio del corpo, alla gestualità, al tono di voce. E ricordo che certe volte, uscendo e parlando coi miei amici io mi riposavo. Rispetto alla tensione che avevo accumulato là dentro, all’attenzione che prestavo alla persona che avevo di fronte, stare fuori e parlare con gli altri era una gioia, una festa, una cosa molto lieve.
In carcere gli orologi sono tutti fermi. Ce n’è uno grande, a muro, proprio all’entrata di San Vittore, rotto da anni ma nessuno lo fa aggiustare. E così in ogni raggio, c’è sempre un orologio a muro regolarmente rotto. E questo, secondo me, parla, manda un messaggio molto preciso, dice qui il tempo è fermo, sospeso… Il carcere è veramente un mondo a parte, il luogo dell’assurdo, dove neanche gli orologi funzionano più… Ed è nello stesso tempo un luogo totalmente mondano, perché contiene tutte le contraddizioni del mondo. Una volta un agente mi disse: "Ma signora, perché non va all’ospedale ad aiutare i malati? Cosa viene a fare qua?". In realtà io non andrei mai a fare volontariato in ospedale, perché non riesco ad agire il faccia a faccia con la malattia, con la morte, con la natura. Lì invece il faccia a faccia è col mondo e con le sue contraddizioni. E’ un luogo insieme politico e mondano, stracarico di realtà, di cui costituisce in qualche modo l’altra faccia. Però quella dell’agente era una domanda ammissibile. Perché il carcere, effettivamente, è molto duro da sostenere, più duro che non appunto l’ospedale, dove puoi sempre accettare le regole della natura, del destino. Col tempo, poi, ti accorgi che la realtà del reato non corrisponde alla realtà della persona. C’è in mezzo un gap, un vuoto, ed è proprio in quel gap che tu puoi lavorare, stabilire un’alleanza. E direi che, tranne in casi estremi di patologia criminale vera e propria, c’è per tutti questa possibilità. Inoltre c’è un altro elemento che ti spinge a restare, ed è il lavoro di opposizione alla struttura carceraria. Tu finisci per sentirti in una posizione un po’ bizzarra: in fondo hai la tessera e il permesso del Ministero, però, nello stesso tempo, non ne fai parte e il lavoro, tranne poche eccezioni, è un lavoro di opposizione all’istituzione, ai danni che produce. (Considerando anche il fatto che poi, in realtà, a San Vittore c’è un ottimo direttore).
San Vittore non è un carcere, è tante carceri insieme. C’è ad esempio il primo raggio, comunemente denominato il penale, dove ci sono tutti detenuti con condanne definitive e pene abbastanza lunghe, e lì effettivamente non c’è quasi niente da criticare, le celle sono spaziose, dotate di armadi, sedie, tavolini, un bagno decente, tende alle finestre. Al massimo si è in due, e c’è la possibilità di farsi da mangiare in modo degno. Certo che c’è la reclusione, però le celle di giorno sono aperte, nel corridoio ci sono tavoli per giocare a carte, e fuori c’è un campetto per giocare a calcio e una specie di piccolo tennis. E’ qualche cosa di umano. Poi ci sono i raggi non ristrutturati, cioè la maggior parte, dove si sta in quattro-cinque in nove metri quadrati, cesso e cucina compresi, con i letti a castello, una specie di tavolinetto con uno sgabello, dove devi sedere a turno, e nient’altro. E uno spazio laterale dove si trova il lavandino, il cesso (ovvero la turca, magari intasata, o comunque da dove di notte escono i topi e gli scarafaggi) e il fornello. Ed è in queste condizioni igieniche schifose, dove sei costretto a far amicizia con i topi e magari a prenderti la scabbia, (o a ringraziare Iddio se non te la sei presa), che questa povera gente si deve far da mangiare. Ecco, se la turca è accanto al fornello, è fatta, si è compiuta la distruzione della persona. Perché è un segno di indegnità, di mancanza di rispetto, sono quelle che vengono definite "pene aggiuntive", che nella sentenza di condanna non ci sono, ma distruggono da dentro, sono dei passi verso la rovina. E secondo me costituiscono il primo gradino per avere delle recidive, perché a un certo punto ti viene un tale odio verso il mondo che deve trovare un agito da qualche parte. Per non parlare della mancanza di rispetto nei confronti dei parenti. Difficoltà che raggiungono il massimo quando si deve portare un pacco (che tra l’altro non dev’essere più di cinque chili e dev’essere confezionato in un certo modo). A me è capitato di farlo, col permesso della direzione, per delle madri che, ormai vecchie, non ce la facevano più: ore di fila in piedi per consegnarlo all’ufficio pacchi, dove deve essere esaminato e controllato, con code che a volte arrivano anche fuori dall’ufficio. Da svenire, da sentirsi male. E i colloqui, anche lì ore in piedi e attese lunghissime.
Questo è un lavoro in cui non devi assolutamente aspettarti nulla, non devi andare lì sperando di salvare qualcuno. E devi assolutamente evitare di cadere nel tranello della crisi di onnipotenza: vado lì e lo redimo. Invece non redimi nessuno. E se quello esce e fa un’altra rapina non devi stupirti, non è un tuo fallimento. Bisogna accettarlo, altrimenti diventi matto. Magari può accadere qualcosa, ma tu non te lo devi aspettare. Perché forse succederà tra cinque anni che una cosa detta o fatta da te, quel rapporto che sei riuscita a instaurare, sortisca il suo effetto, fiorisca, ma tu non lo saprai mai. Perché poi quel detenuto verrà trasferito e tu non lo vedrai più, non ne saprai più niente. Un’altra cosa importante è non fare mai le prediche. Perché è inutile, ne hanno avute tante. Mentre si può dare, anche in modo molto indiretto, la sensazione che esiste un altro modo di vivere. Che esiste una vita più tranquilla. Una vita buona. Oppure che è possibile stabilire un rapporto con una persona che non appartiene alla malavita, può bastare questo. Le cose contro cui combatti sono talmente importanti, forti, sono storie di anni, che non puoi pensare che arrivi tu con la tua buona volontà e metti tutto a posto. Bisogna accettare il limite, altrimenti non ce la puoi fare. Perché vedi una persona una volta poi la rivedi, dopodiché questa inizia un’escalation criminale, che spesso è dovuta proprio alla carcerazione. Per me non è stata un’esperienza di servizio, nel senso che io non ho sentito quest’idea del servizio. E’ stato più uno scambio, anche se piuttosto asimmetrico. Perché poi queste persone, che sono così diverse, così lontane, forse proprio per questo diventano anche degli interlocutori.
Una grande differenza, rispetto al modo di vivere la carcerazione, è costituita dalla possibilità di seguire dei corsi e di lavorare. In questo caso il detenuto sta nella sezione dei lavoranti, che è un po’ più decente, guadagna qualche lira e, soprattutto, esce di cella. Infatti io ho ricevuto molte richieste per lavorare gratis, ovvero quella che viene chiamata ergoterapia, che consiste in tutti quei lavoretti interni al carcere, come spazzare o distribuire il cibo. Ma il lavoro interno è per pochi, talmente pochi che si fa a rotazione, due mesi per uno. Immaginiamo che miseria che è. A proposito del lavoro ci sarebbe un altro discorso da fare, che riguarda i sindacati: da tempo il lavoro esterno non entra più, e questo da quando i sindacati hanno avuto una pensata secondo me malefica: hanno richiesto l’applicazione severa dei minimi sindacali, mentre prima si poteva scendere, mi pare, di un 20%. A quel punto il lavoro è sparito. A mio parere è stata veramente una stupidaggine, prima di tutto perché il lavoro che viene svolto lì ha delle imperfezioni, magari uno ha avuto il processo che gli è andato male, è stato condannato, e quel giorno mette il bottone all’incontrario. Poi perché il datore di lavoro ha delle difficoltà in più: il lavoro va portato a domicilio, e si perde tempo perché va controllato minuziosamente sia in entrata che in uscita. Invece i sindacati hanno visto soltanto la questione denaro, non hanno capito che l’importanza dell’esperienza andava oltre. Perché, sì, il denaro è fondamentale, ma ancora di più lo è uscire di cella e fare qualcosa. Un altro progetto molto bello è quello della "Nave", un raggio ristrutturato in cui ci sono trenta-quaranta persone, con le quali si è introdotta l’idea della contrattualità. Le celle sono accoglienti, tutti fanno delle cose, ci sono un sacco di attività, ma il tutto secondo un contratto che viene definito: devi saperci stare. Il limite di queste operazioni -a San Vittore come in tutti gli altri carceri italiani- è il fatto che costituiscono sempre delle operazioni sperimentali che riguardano una percentuale quasi irrilevante di persone. L’esperimento, per definizione, dovrebbe essere un momento che in seguito, se funziona, viene allargato a una percentuale più ampia di persone, invece in carcere tutto si ferma a questa fase. Quindi non è che manchi il pensiero, è che poi si realizza in una forma eternamente sperimentale.
In carcere ho incontrato anche delle persone di valore, per cui certe recidive inutili non sono mai riuscita a spiegarmele. Perché se una persona fa una rapina da un miliardo dico che è un disgraziato, che sbaglia prospettiva, ma non certo che è pazzo, perché c’è un rapporto tra fini e mezzi. Ma quando vedi uno che, dopo aver trovato lavoro ed essersi quasi sistemato, butta tutto all’aria per la rapinetta da cinquecento euro, allora capisci che sotto c’è qualcosa d’altro, c’è un’autodistruzione, una sorta di scelta di campo che definire asociale non basta. Forse è "controsociale", è contro tutti, anche contro le persone care, perché poi, alla fine, sono le mogli che diventano matte. In realtà, il carcere funziona perfettamente, basta capovolgere lo scopo. Perché così com’è, è solo criminogeno. Se diciamo che il carcere non serve a redimere le persone ma a rovinarle, allora è perfetto. Così come esistono le scuole per fabbri e carpentieri, quella è una scuola criminale. E c’è una sordità totale da parte di quelli che avrebbero il compito di sviluppare un pensiero a proposito. Tutti i direttori lo sanno che il tempo passato lì dentro non porta assolutamente a nulla. Può portare al suicidio, o al tentato suicidio -il che è piuttosto frequente- oppure ai cosiddetti "atti anticonservativi" (così definiti dalla formula ufficiale), ovvero ai fenomeni di autolesionismo, piuttosto frequenti in carcere anche se poco risaputi. Vedi questi ragazzi che si tagliano con la lametta, che si fanno del male... Molti tentativi vengono sventati dagli agenti, e qui bisogna dire che da parte loro c’è una certa attenzione: quando vedono che una persona sta male, cercano di dargli un occhio in più. Però, anche il personale… Io per gli agenti ho il massimo rispetto, tranne qualche figuro, che c’è, perché se uno ha una tendenza sadica, va lì e la soddisfa. Ma tutti gli altri, sono ragazzi meridionali che nella loro città non trovano lavoro, magari sono anche laureati, allora fanno domanda e vengono catapultati a Milano, in un’istituzione che li sconvolge, li spaventa, e oltretutto guadagnano anche poco. Ad esempio, in un corridoio del sesto raggio c’è un cartello che dice: "Per fare questo lavoro non occorre essere matti ma aiuta". L’hanno messo gli agenti. In quel raggio c’è di tutto, ci sono i detenuti che hanno parlato, per cui non possono stare con gli altri, oppure hanno fatto del male a un bambino, e per certi reati c’è il linciaggio. Poi ci sono i travestiti, altro mondo particolarissimo, queste donne stupende che vanno in giro mezze nude, sculettando, e magari ti si strofinano contro e ti urlano qualsiasi insulto. E lì, nel corridoio, sotto questo cartello, c’è un tavolo dove stanno gli agenti, con una pazienza infinita. Beh, quel cartello ti aiuta a capire quanto possa essere contraddittorio il loro rapporto con l’istituzione. Perché anche loro, in fondo, si sentono fregati. Poi ci sono i matti, e il rumore, gli urli, sono quasi continui, di giorno e di notte. Non è un luogo silenzioso il carcere.
Da tutto questo che cosa possiamo dedurre? Che bisogna assolutamente metterci le mani. Io non sono contro l’abolizione del carcere, perché ho incontrato anche persone di altissima pericolosità sociale, ma sono poche, credo che arriviamo a fatica a un 10%, ovvero 5000 persone in tutta Italia. E le altre? Poi c’è anche il costo di questa struttura, perché il discorso economico è rivelatore, ti fa vedere le assurdità. Un detenuto costa allo Stato circa duecento euro al giorno, considerando l’organizzazione carceraria nella sua globalità. E tu pensi che con quella cifra dovrebbero almeno mangiare bene, avere un letto vero. Invece stanno malissimo, allora dove vanno questi soldi? Chiediamocelo! Certo, c’è il personale ma non basta a spiegare l’entità della cifra. Senza tener conto di quello che costa costruire nuovi carceri. Perché adesso tutti continuano a chiedere nuovi carceri, ma io so che ogni nuovo posto letto costa 200.000 euro. Quindi i soldi che girano sono moltissimi, e sono assolutamente a fondo perduto. Allora mi chiedo: in una società avanzata, con tutti gli psicologi e i criminologi a disposizione, con tutta la struttura di sapere che abbiamo, è ammissibile, e accettabile, spendere tanti soldi per niente? Quante cose potremmo farci con quei soldi? Ad esempio potremmo lavorare sul reinserimento, per fare in modo che quando escono non siano allo sbando, ma abbiano un posto dove andare a dormire e un posto di lavoro. E poi rivediamo le formule, anche sotto il profilo giuridico, facciamole più flessibili, meno rigide. Non è possibile che non esista altro tipo di intervento al di fuori del carcere. Parlo soprattutto per i piccoli reati, quelli definiti "bagattellari", ovvero quelli che contemplano pene inferiori a tre anni, e sono più del 90%. Di cui, poi, una percentuale consistente è addirittura sotto l’anno di pena. Sono tutti piccoli reati di "disagio" -adesso viene definito così- causati soprattutto dalla tossicodipendenza. Almeno un 30% di detenuti è dentro per reati connessi alla droga; di questi almeno il 25% è costituito da tossicodipendenti che fanno anche piccolo spaccio, cioè tutti quelli che vengono presi con il grammo di eroina, che poi va a sapere se era per spaccio o per uso personale. Perciò, secondo me, bisogna rivedere la legislazione sull’uso di droghe. Adesso, l’unica soluzione alternativa al carcere è la comunità, sulla quale nutro molti dubbi. Tra l’altro ho letto i risultati di uno studio compiuto negli Usa, dai quali emergeva che la percentuale di persone uscite dalla droga grazie alla comunità, verificata a distanza di cinque anni, è uguale a quella per remissione spontanea, ovvero a tutte quelle persone che ad un certo punto della loro vita, magari perché gli è capitato qualcosa di positivo, decidono spontaneamente di uscire dalla droga e ce la fanno con le loro forze. In Italia invece non abbiamo nessun studio in proposito, le comunità si limitano a dire che uno ha compiuto il programma terapeutico ma non fanno verifiche a distanza di tempo. Insomma, la comunità va bene perché non c’è altro ma è un posteggio. Anch’io ho fatto in modo che delle persone potessero andarci, talvolta però mi sono anche tornate indietro, hanno preferito il carcere. E mi hanno fatto dei racconti allucinanti sui metodi impiegati, che sfioravano forme di sadismo: bisognava finire la pasta, non potevi lasciare niente nel piatto, oppure dovevi contare i sassolini. Fai una montagna di sassi, li conti -secondo loro questo forgia il carattere- e poi quando hai finito, ricominci con un’altra montagna. E alla fine sai che i sassi sono 17.348. E, poi, secondo la mia esperienza, le condanne dei tossici spesso sono assolutamente casuali: il fatto che una persona abbia collezionato nell’insieme tre anni di condanne o cinque e mezzo è un caso, non vuole dire assolutamente niente rispetto alla sua mentalità delinquenziale. Così com’è casuale che una volta vengano presi e un’altra no, che il reato sia valutato in un modo oppure in un altro. Parlo dei piccoli spacciatori: se tirassimo a sorte le loro sentenze non saremmo né più giusti né più ingiusti, perché quello che succede è assolutamente aleatorio. Io mi ricordo di un ragazzo tossicodipendente al quale ero piuttosto affezionata (che poi è morto di overdose), che rubava le biciclette. E si faceva prendere con una certa facilità. Subì una serie di processi, di condanne, venti giorni, trenta giorni, col risultato che mancava il tempo necessario per predisporre un percorso: arrivava e usciva. Se invece delle biciclette avesse portato via automobili o fosse andato a rubare in un appartamento, forse, chissà, a quest’ora sarebbe ancora vivo. Invece, proprio l’esiguità delle condanne -chissà, probabilmente l’avvocato non se n’è preso cura- ha fatto sì che non si potesse attuare un vero intervento da parte dell’istituzione carceraria.
Sull’altro versante, quando invece la pena è stata un po’ lunga, cinque o sei anni, è importante intervenire sul momento dell’uscita, perché è un momento delicatissimo. Escono e non capiscono più niente, hanno alterazioni della percezione spazio-temporale, fanno fatica a salire sul tram, non riconoscono più il denaro perché per tanto tempo non l’hanno maneggiato -chissà cosa succederà adesso con l’euro. Quindi un’azione di "accompagnamento" è assolutamente necessaria. Ad esempio, se non hanno più famiglia sarebbe importante prevedere un volontario che li vada a prendere, li accompagni in una struttura tipo casa-famiglia, dove stare un po’ di tempo, li aiuti a trovare un lavoro. Anche perché poi, con il problema dei trasferimenti, un sardo può essere dismesso a Milano, dove non conosce nessuno. Invece c’è una forte sensazione di abbandono, di rifiuto di occuparsene (o di far finta di occuparsene, il che è ancora peggio): in carcere ci sono degli esseri umani completamente abbandonati, molto spesso colpevoli, a volte anche innocenti. Con gli immigrati è ancora peggio. Non hanno famiglia, hanno difficoltà con la lingua, i consolati sono dei muri di gomma… A me è capitato di dovermici rivolgere per una verifica di identità e ho trovato appunto questo muro. Sembrerebbe la cosa più semplice di questo mondo, col computer si fa in dieci minuti, verifichi se la tal persona ha la residenza nella tal città (ed era Fez, non una città sperduta del Bangladesh) perché il computer ormai c’è dappertutto, anche a Fez. Ebbene, la questione è andata avanti per dei mesi. E così il detenuto, che secondo la legge dovendo scontare una pena piccola aveva diritto a essere estradato nel suo paese di origine, ha dovuto attendere inutilmente. Ecco, lì veramente si batte la testa contro l’assurdo: cose che dovrebbero essere semplici, normali, consuete, improvvisamente diventano difficilissime da superare. Una situazione di abbandono totale e assoluto l’ho vista con le persone dell’Africa subsahariana. Sono i più disperati, non capiscono niente di quello che sta succedendo, spesso non hanno nemmeno un riferimento ai concetti di Stato, di legge, perché vengono da una cultura in cui le leggi sono clanistiche, di gruppo, e non riescono a capire il concetto di codice penale: "Vendevo una polverina bianca che a voi bianchi piace tanto. Che cosa c’è di male?". E poi magari si pigliano dieci anni perché la polverina era tanta. Spesso non possono nemmeno scrivere a casa, perché non vogliono far capire che sono in carcere. Dobbiamo tener conto che rispetto alle famiglie, quando partono, partono per una vittoria. Casomai hanno ricevuto i soldi da tutto il clan e vanno a vincere qualche cosa. Mi è capitato di vedere persone che provavano a scrivere a casa mentendo, continuando a sostenere fino alla fine quest’idea della vittoria. Ecco, lì c’è una montagna di dolore, una disperazione assoluta, per lenire la quale tu non riesci a fare altro che prendere la mano, cercare di dare una presenza fisica… Gli immigrati, poi, hanno un problema grossissimo con gli avvocati, perché non è contemplato l’interprete durante i colloqui, per cui l’avvocato non capisce niente. E non è contemplato perché costa. Non solo, la mia associazione qualche volta si è offerta di intervenire per coprire la spesa ma non c’è stato niente da fare, la cosa è piuttosto macchinosa: gli interpreti devono essere tutti iscritti a particolari elenchi verificati dal Ministero. Così, di fatto, la persona immigrata non ha nessun colloquio con l’avvocato, e il risultato è che al processo l’avvocato finisce quasi sempre per chiedere il patteggiamento. Allora il Pm chiede tre anni, l’avvocato difensore, con l’accordo del giudice, dice uno, e alla fine la pena diventa un anno e mezzo e non se ne parla più. E magari qualcuno è innocente. O perlomeno non colpevole in quella misura. Perché poi, attenzione, l’innocenza tout court è abbastanza rara, è invece molto diffusa una sorta di "innocenza relativa" che consiste nel fatto che il reato che hai commesso è inferiore a quello per il quale ti hanno condannato. Io, quando ho incominciato, mi sono presa lo sfizio di andare in tribunale per vedere come funzionava. Ebbene, è stata una cosa agghiacciante. Il processo è un rito autoreferenziale dove quello che conta è essere in accordo col pensiero giuridico. Però tu hai davanti delle persone vive, col loro corpo, non hai delle metafore. Perché con questo tipo di situazione carceraria, cosa significa una pena di sei anni? Quanta sofferenza costa? In teoria tu per sei anni perdi la libertà, nella realtà può significare che per sei anni non ti potrai lavare i denti o i capelli perché non hai i soldi per lo shampoo o il dentifricio, o non potrai pulire la cella perché i detersivi te li devi pagare. Allora, cos’è una pena e cos’è una condanna? Dovremmo chiedercelo. Perché in carcere ci sono delle pene gravissime, come quella di stare seduti a turno, perché non c’è lo spazio o c’è un solo sgabello. Ebbene, questo nella sentenza non c’è scritto, ma è questo che fa la qualità della pena. Per cui se la pena fosse modulata rispetto alla sofferenza inflitta, potremmo dire che sei anni al primo raggio equivalgono a un anno al sesto raggio, secondo piano. Allora diciamo a chiare lettere che il carcere è punitivo in quanto infligge sofferenza.
Il mio sentimento più forte in tutti questi anni è stata la rabbia. Una rabbia e una vergogna, proprio come cittadina: l’istituzione -anzi le istituzioni, perché ad un certo punto ti viene una diffidenza generale verso tutte le istituzioni- ha perso la maschera. Solo che questa maschera mi è caduta addosso e mi ha fatto male. Non è stata una sofferenza da poco vedere le tue ultime fiducie illuministe andare a farsi friggere. E non solo per quello che riguarda il carcere ma anche per il tribunale, visto come luogo dell’arbitrio totale. Mi viene in mente quel genio di Toqueville che quando si recò in America andò a visitare le carceri perché riteneva che il trattamento riservato ai detenuti fosse una misura della democrazia e della civiltà di un paese. Ecco, secondo me noi non passeremmo l’esame. La finzione è illuminante: è come se l’umiliazione a cui queste persone sono continuamente sottoposte potesse in qualche modo redimerle. Ma l’umiliazione non redime nessuno, anzi, crea rabbia, aumenta la difficoltà, il disagio (questo termine inadeguato che si usa adesso), che queste persone hanno nei confronti del mondo. Ho finito per capire chi nutrisse sentimenti di vendetta contro la società: si era fatto di tutto affinché questo accadesse.
Ho smesso nel ’99, quando ho cominciato ad aver problemi di salute. La rottura ha coinciso con l’arrivo a San Vittore di una fiumana di slavi. Io con gli slavi non funzionavo, non sopportavo il loro tipo di reato, lo sfruttamento delle donne, dei bambini, e anche il loro comportamento verso di me, la loro l’arroganza, il disprezzo, la strumentalizzazione. Sono problemi di cui non mi vanto, forse c’è anche qualcosa di sbagliato in me, forse una persona cattolica praticante non avrebbe queste remore, però io non sopportavo il loro tipo di delinquenza. E di dieci domandine che trovavo nella cartella, cinque erano di slavi. Chiedevano sempre aiuti di ogni tipo, qualche volta anche in modo sgangherato, irritante, sembrava volessero veramente farti fessa. "Signora, domani telefoni a Tirana!". E si arrabbiavano se tu non lo facevi. Ma anche in questo tipo di relazione ci dev’essere un minimo di simpatia. A me è capitato di rifiutare delle persone, al massimo tre o quattro in otto anni, passandole gentilmente a un’altra volontaria con una scusa. Le persone cattoliche invece non hanno questi problemi, perché fanno riferimento a qualche cosa di più grande. Io invece sì. Un’altra categoria di detenuti che non sopportavo erano gli usurai, quelli che vanno a minacciare la vecchietta col piccolo negozio di salumeria, e la fanno chiudere. Ne ho incontrati solo due ma li ho trovati rivoltanti. Perché lì la questione del denaro non ha nessuna mediazione: "Mo’ ti frego io, adesso mi paghi". Tutti ricciolini, una cura del corpo e dell’immagine assolutamente insopportabile. E una cattiveria nei confronti degli altri detenuti: mai che offrissero una sigaretta al compagno di cella, nonostante avessero abbastanza soldi, perché qualcuno glieli mandava da fuori. Però anche con i serbi ci sono state delle eccezioni, soprattutto quando ho avuto il tempo necessario a conoscerli. Perché coi serbi era il solito mordi e fuggi, li vedevo due volte poi venivano trasferiti, quindi saltava fuori il peggio. E quella volta è stato veramente un lavoro a due, in cui lui un po’ per volta ha allentato la sua arroganza e io la mia diffidenza. In un certo senso ci siamo aiutati. Tra l’altro il processo gli è andato male e ha avuto una depressione. Perché poi queste figure così arroganti, così sicure, quando vanno in depressione possono anche tentare il suicidio. Però, a parte gli slavi, che hanno un atteggiamento culturale autoritario nei confronti della donna, essere donna aiuta. Mentre nei reparti femminili forse è meglio che vada un uomo. Io, poi, ho scelto di lavorare in una sezione maschile non solo perché c’era molto più bisogno, ma perché altre situazioni mi facevano male. Alcune volte mi sono trovata per caso nella sezione femminile e ho visto che con le donne soffrivo, scattavano dei processi di identificazione. Ti può capitare di parlare con una donna che ha commesso dei reati familiari, che ha cercato di ammazzare il marito che la picchiava, e ha dei bambini, e questo ti crea dei turbamenti che non hai col ladro d’appartamenti. Io mi sentivo troppo coinvolta. Lei mi chiedeva: "Hai dei bambini? Parlami di loro". E io cosa le avrei dovuto rispondere, che mio figlio stava bene ed era sempre vissuto con me? Ecco, con gli uomini c’è un distacco in più, che aiuta a non identificarsi. Con una donna, una storia, qualche piccolo particolare che ti unisce a lei, li ritrovi sempre.
In questi otto anni ho vissuto, si può dire, in maniera schizofrenica, ho visto quasi seicento persone, alcune a fondo, altre superficialmente, con alcune di loro ho fatto un lavoro, ho conosciuto le loro famiglie, e però non riuscivo a parlare di questo mondo con nessuno. I miei amici non ne volevano sapere. C’era un disinteresse, una rimozione, un rifiuto totali. E parlo di gente di sinistra, anche impegnata. Per fortuna avevo altre persone con cui parlare, spesso generose di consigli, in primis gli altri volontari, talvolta anche degli agenti, perché ci sono anche -non sono molti- degli agenti intelligenti e bravi. E poi gli educatori e le educatrici, persone spesso molto valide e interessanti, e che secondo me rappresentano il nuovo proletariato. Perché è un servizio malpagato, di nessuna rilevanza sociale, valutato pochissimo e fatto soprattutto da donne, malpagate e coi nervi a pezzi. E però con una responsabilità enorme, perché devono dare i pareri su cui poi ci si basa per concedere, ad esempio, le pene alternative. E tu sei schiacciato da questa responsabilità, perché non puoi prevedere tutto, magari quello esce e fa una strage. Il margine di imprevedibilità è abbastanza alto e va accettato, solo che i nervi saltano. Invece qualche difficoltà l’ho avuta con le assistenti sociali. Le assistenti sociali secondo me sono una genia particolare, che meriterebbe un poco di attenzione, perché siamo nella pseudo-scienza, vale a dire che i loro pareri hanno valore scientifico, magari non vincolante, ma di cui tiene conto anche il magistrato. E secondo me, in genere, sono impreparate -poi, ovvio, ci sono anche quelle brave- con una grande spocchia e con una mentalità burocratica molto accentuata, anche nel linguaggio, nel modo di esprimersi. E poi c’è stata la mia maestra, una suora con una grande esperienza, di grandissima intelligenza e con una grande capacità di capire la mentalità criminale. Lei mi ha trasmesso la consapevolezza che il messaggio evangelico, che le persone possono cambiare, è da cogliere a piene mani.
Il volontariato in carcere è una cosa che non consiglierei assolutamente a una persona troppo giovane. Secondo me è un lavoro che si può fare dai quarant’anni in avanti, non prima. Non solo perché si può rimanere turbati, ma anche perché occorre aver fatto molto, letto molto, e viaggiato. Sì, il fatto di avere viaggiato in Medioriente, in Tunisia, Egitto, Palestina e Israele, per me è stato di grandissimo aiuto. E poi il fatto di aver letto tanti romanzi nel corso della vita. Una volta ho incontrato uno che sembrava l’incarnazione di Michael Kohlhaas, il protagonista dell’omonimo bellissimo romanzo di Von Kleist. Era una persona che aveva subito un torto, era stato licenziato ingiustamente, e in nome di un’esigenza di giustizia ne aveva combinate di tutti i colori, così come a Michael Kohlhaas rubano i cavalli e va a finire che diventa un brigante e viene condannato a morte. Perché la giustizia, come qualsiasi altro principio, se portato all’estremo, ti rovina. In fondo, fa parte dell’umano anche subire il torto, senza pensare di mettere a posto tutto in nome di un luogo perfetto. E questa persona, in nome di un luogo che doveva essere perfetto, ha rovinato sé e la sua famiglia. In fondo, leggere è vivere altre vite.
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