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Un volontario non accetta le critiche a don Vatta
Nessuno ha il diritto di offendere chi ha il coraggio di denunciare i disagi patiti dentro il carcere
In questi anni, sebbene più volte sollecitato da
detenuti incontrati in carcere, ho quasi sempre cercato di evitare di dare
spazio alle loro lamentele sulla vita carceraria invitandoli a rivolgersi alle
autorità competenti. Ora sono sempre più consapevole che per i detenuti è molto
difficile – se non praticamente impossibile – cercare di far valere quei loro
diritti che ritengono calpestati. Ciò, in particolare, quando i responsabili si
possono individuare nella stessa organizzazione carceraria e, quindi, qualsiasi
reclamo rischia di peggiorare la vita in carcere. Anche per me, volontario, non
è facile intervenire perché il carcere è un mondo che poco gradisce le
intrusioni degli estranei e, quindi, per poter continuare a entrare e a operare
in favore dei detenuti sono costretto a muovermi con estrema delicatezza e
diplomazia accompagnate da tanta – ma proprio tanta – pazienza. Essendo venuto a
conoscenza di alcune situazioni e avendo colto un certo malessere per il non
sempre corretto funzionamento del carcere, per farmi chiarezza ho sentito il
bisogno di raccogliere in un promemoria alcuni episodi e certe inosservanze – o
da me ritenute tali – di quanto previsto dal "Regolamento recante norme
sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della
libertà". Dal suddetto promemoria, don Mario Vatta, come sempre estremamente
sensibile ai problemi degli "ultimi", ha tratto materiale per parlare al
convegno dal titolo "La città sconosciuta: povertà e disuguaglianza a Trieste"
ritenendo che anche il carcere sia parte della città sconosciuta e che i
detenuti, specialmente quelli coinvolti in disservizi, rappresentino una forma
di povertà estrema.
A mio avviso, non tutto ciò che non funziona può
essere imputato a "gravi carenze di risorse economiche e di personale" e tra gli
episodi segnalati forse alcuni sono sporadici ma i disservizi, specialmente per
il detenuto che li subisce possono essere pesanti. Si può chiamare "modesto
disservizio" il caso – spero unico – di quel detenuto semi-libero che a causa di
un incidente stradale accadutogli mentre si recava al lavoro rimaneva chiuso al
Coroneo e per la mancata denuncia alla ditta e all’Inail veniva licenziato e non
gli veniva riconosciuta l’indennità di infortunio? Il non essere in grado di
provvedere al sostentamento dei figli si può chiamare "modesto disservizio"? "Diritti calpestati: facile dirlo, facile indicare i cattivi, facile giudicare", afferma il direttore. Io, invece, dico che è ancora più facile star zitti, più facile lasciar perdere, più facile farsi gli affari propri. Però, se un giorno don Vatta – io o altra persona – descrive episodi di disagi patiti dai detenuti, capisco che con lui si possa dissentire e che certi fatti possano essere smentiti ma assolutamente non ritengo che don Mario, o chiunque altro, debba venir offeso. Perché voler far diventare un problema politico quello che è soltanto un discorso tecnico? Reputo particolarmente offensivo e fuori luogo – come invece insinua il direttore – voler far diventare le osservazioni fatte da don Vatta un mezzo per "rafforzare quei sentimenti di odio che ambienti della politica, estremistica e non, da anni alimentano verso chiunque sia a servizio dello Stato e indossi, semmai, un’uniforme o debba comunque assicurare l’ordine o la sicurezza pubblica". Perché offendere in modo così pesante e gratuito? Mi sento proprio offeso, offeso nel più profondo. Non importa. Fondamentale è che i detenuti non debbano subire ripercussioni negative da questa diatriba ma – auspico sinceramente – possano veder diminuire anche gli "episodi sporadici di temporanei e modesti disservizi". Per quanto mi riguarda cercherò di trovare ancora pazienza, tanta pazienza, consapevole di non essere solo perché – citazione del direttore – "Dio infatti è con i pazienti".
Paolo Scalamela, vicepresidente della Comunità S. Martino al Campo
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