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Volontari dietro le sbarre
Il
carcere è sempre stato un luogo chiuso e lo è tuttora. Al di là del dettato
costituzionale e di quanto è previsto nell'ordinamento penitenziario
relativamente al fatto che la detenzione deve tendere alla rieducazione e al
reinserimento del condannato, la custodia è stata ed è ancora l'obiettivo
principale delle politiche penitenziarie. Bisogna,
comunque, prendere atto che il carcere, pur restando fedele a se stesso e al
compito per il quale è stato istituito e costruito, cioè di contenitore dei
“mali” della società, va progressivamente mutando e in maniera
considerevole. Ed è indubbio che, soprattutto in quest'ultimo decennio, la
presenza dei volontariato ha contribuito molto a questo cambiamento. Anche
se bisogna in ogni caso distinguere tra le tante carceri, e perciò tra le
regioni della nostra Italia, nelle quali la presenza della comunità esterna
si differenzia enormemente. Si passa infatti da istituti con oltre
quattrocento volontari ad altri dove questa disponibilità è frustrata o
peggio ancora rifiutata completamente, per condizioni culturali sfavorevoli
o per la cecità dei direttori ai quali l'attuale ordinamento dà la
discrezionalità su molteplici aspetti della gestione, e questo succede al
sud come al nord, al centro come nelle isole. Dalla
ricerca condotta nell'ottobre scorso dalla Conferenza Nazionale Volontariato
Giustizia, la prima con dati effettivi, risulta che in Italia, sui 206
istituti per adulti, in 76 il volontariato è quasi praticamente inesistente
(in 15 carceri su 72 al nord, in 19 su 55 al centro, in 21 su 42 al sud e in
21 su 37 nelle isole). La lettura che può essere data a questa ricerca e
alle risultanze della stessa, è complessa e variegata, proprio per la
diversità dei territori e delle problematiche ad essi ricondotte. Nel
cercare di comprendere le motivazioni che sono all'origine della mancata
presenza del volontariato, partiamo dalla meno banale e forse più importante
rilevazione: la poca o frammentaria formazione che connota una parte di
questo volontariato in alcuni casi, è alla base del mancato riconoscimento
dello stesso. Un
ulteriore fattore, che troviamo quasi esclusivamente al sud e crea
difficoltà al volontariato è che, essendoci una grossa presenza nelle
carceri di ristretti appartenenti alla criminalità organizzata, aumenta la
diffidenza e cautela delle direzioni e spesso la comunità esterna che entra
viene tollerata quasi esclusivamente a supporto delle pratiche religiose e
comunque alla sequela dei cappellano, ma non è autorizzata ad esercitare
appieno il proprio ruolo. In
questa ricerca, peraltro lievemente inquinata nella lettura del numero reale
dei volontari che a qualsiasi titolo entrano in carcere dalla presenza del
privato sociale, operatori di cooperative e imprese sociali, si evidenzia un
fatto che leggerei in maniera positiva: il ridursi al lumicino della
presenza di volontari non appartenenti ad associazioni e gruppi, oramai meno
del 20%, considerato che anche suore e religiosi hanno alle spalle un
convento o una congregazione. Anche
la “tipologia” dei volontari assume un aspetto determinante. Da una
fotografia che possiamo scattare in base alle attività prodotte e alla
provenienza certa si evidenzia che il 20% sono religiosi/e; il 45% sono di
estrazione cattolica; il 20% sono di estrazione laica e di sinistra; il 15%
sono di estrazione diversa (non schierati, testimoni di Geova, stranieri,
etc.). A
margine di questa analisi essenziale, è da evidenziare come i direttori
degli istituti condizionino pesantemente, nel bene e nel male, la presenza
del volontariato. Infatti, dove il direttore è persona culturalmente aperta
e capace, il volontariato si dispiega in mille iniziative, è presente
massicciamente e porta avanti iniziative di qualità. Al contrario, dove il
direttore è persona chiusa, ostile e refrattaria al coinvolgimento esterno,
il volontariato è quasi del tutto assente o mantiene una presenza di
“frontiera”, non tanto operativa ma di “resistenza”. Un dato emblematico e assoluto che esce dalla ricerca della Conferenza è il fallimento dell'accesso dei volontariato nei Centri di servizio sociale per adulti. Infatti a fronte di 55 centri presenti su tutto il territorio nazionale, i volontari che vi operano, in possesso dell'autorizzazione ex art. 78 legge 354/75, sono solo 35 (20 volontari in 19 centri al nord, 10 in 24 al centro, 0 in 12 al sud e 5 in 10 nelle isole). Le cause di questo fallimento sono da ricercarsi in due fondamentali ostacoli: il rapporto conflittuale e, spesso, sospettoso da parte degli assistenti sociali nei confronti dei volontariato, non ritenuto da questi ultimi professionale ed anzi quasi in antitesi, ha fatto sì che si sia creata una enorme distanza che ha allontanato le possibili ipotesi di collaborazione; in secondo luogo, le proposte di fare attività presso i centri offerte ai volontari, hanno posto dei paletti di pseudo-appartenenza che non hanno mai aiutato l'accesso dei volontari, i quali si sono sentiti condizionati e non a proprio agio, con la perdita di fatto di una parte fondamentale della propria identità. Il volontariato delle carceri si è sempre più trasformato, con il passare degli anni, in un volontariato impegnato nella giustizia e questo ha prodotto un suo sdoganamento culturale. Soprattutto, ha coinciso con un maggiore impegno realizzato sul territorio assumendo una visibilità e peso sociale che solo pochi anni addietro sarebbero stati impensabili. Esempi lampanti sono stati gli ultimi protocolli d'intesa siglati dal Ministero della Giustizia con alcune regioni (es.: Marche, Liguria), in occasione dei quali il volontariato ha avuto un ruolo attivo nell'elaborazione del documento, e si è visto riconoscere, in diversi articoli dei protocolli stessi, dei ruoli importanti. Possiamo chiederci se il volontariato sia un reale interlocutore nel ponte ideale che dovrebbe collegare la città reclusa e quella libera. La risposta, pur nella sua difformità evidente tra territorio e territorio, è negativa! Perché può sicuramente fungere da “ponte”, ma il suo eventuale esserlo è attualmente strumentale e funzionale ai bisogni contingenti degli istituti o degli enti locali: non è ancora il soggetto di “mediazione riconosciuto” tra il carcere e la comunità esterna. Questo evidenzia ancora di più l'incompiutezza di un percorso iniziato, ma non concluso. Si rende ancora necessario un passaggio culturale forte: da un volontariato assistenziale e circoscritto al carcere, ad un volontariato organizzato e coinvolto sul territorio.
Livio Ferrari - Responsabile Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia
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