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Fuggire dai pericoli dell’illusione repressiva
Liberazione 12 dicembre 1999
In Italia, il sistema della politica ha assunto il tema della sicurezza solo ora, o da non più di due anni. Mentre per la maggior parte dei paesi europei questo è un classico degli anni Ottanta, come ad esempio in Francia, Inghilterra e parte degli Stati Uniti. L'individuazione di quest’area temporale rivela un aspetto evidente: le politiche di sicurezza sono nate con i governi di destra. È stato sempre così, lo dimostra il caso del governo tatcheriano, del governo reaganiano e via dicendo. Solo verso la fine degli anni Ottanta o con i primi anni Novanta la sinistra affronta, andando al governo in molti paesi, il tema della sicurezza. A questo punto è lecito chiedersi: la sinistra reinterpreta il problema sicuritario per come è stato declinato dai governi di destra e lo ritraduce nel proprio linguaggio? La risposta che all'estero viene normalmente data è che semplicemente lo scippi alla destra. Nel senso cioè che i governi di sinistra propongono esattamente le stesse ricette fornite dai governi di destra. Si può dire che non c'è una politica di sinistra sulla sicurezza in Europa.
Il ritardo italiano
Altro punto interessante nella discussione politica è domandarsi: perché l'Italia arriva così in ritardo rispetto al resto d'Europa? Non certo perché l'Italia arriva sempre in ritardo: noi non abbiamo un’analisi dell'andamento della criminalità predatoria o opportunistica di strada. Solo quest’anno l'Istat ha compiuto una ricerca ampia e quindi soltanto per il '97 abbiamo dei confronti tra dati di delittuosità. Comunque, se ci fermiamo alle sole cifre di delittuosità in Italia, l'aumento enorme della criminalità predatoria opportunistica di strada si è avuto fra l'80 e il '92, poi è leggermente diminuita e si è assestata. L'Italia, quindi non solo affronta in ritardo il tema sicurezza ma anche quando il fenomeno criminalità si è già assestato. Individuo due ragioni di questo ritardo. La prima è che il tema della sicurezza non aveva trovato accoglimento nel linguaggio tradizionale della politica. Soprattutto di quella politica con un vocabolario fortemente ideologico, che non è che non affronti anche i temi inerenti alla sicurezza, ma li taglia in un modo da non riconoscerne un’autonomia. Solo in un secondo momento, quando entra in crisi il linguaggio che parla di trasformazione della società, di lotta alla disuguaglianza e per la democrazia, allora i temi della sicurezza diventano orfani e vengono assunti da un altro linguaggio: quello sicuritario. Questo è un punto delicatissimo della questione. Il tema della sicurezza è un tema che non attiene ai processi trasformativi della fenomenologia criminale, quanto alla crisi del linguaggio della politica. E quindi l'Italia è il paese che arriva ultimo a decantare l'obsolescenza del vecchio linguaggio della politica. L'altro motivo è quello che in Italia i cosiddetti legami sociali orizzontali - il territorio, l'identità culturale - sono tradizionalmente molto più forti che in altri contesti europei. Questo vale per il passato, mentre temo che per il presente non valga più: ragione ulteriore dell'emergere del tema sicurezza. Quando in Italia il tema della sicurezza compare nell'agenda, esso vi entra controvoglia per il sistema della politica. Da parte della cultura di sinistra c'è stato un tentativo di negare legittimità a questo tema. Poi, ad un certo momento, la forza di questo tema è sembrata quasi irresistibile, per cui il sistema della politica l'ha dovuto assumere. Va detto inoltre che l'Italia soffre di un'altra particolarità: il tema sicuritario non è stato mai gestito dalla destra. Ed è un po' una colpa della sinistra quella di aver demonizzato la destra come capace di cavalcare le campagne legge-ordine. Non sapete neanche cosa sono le campagne legge-ordine nei paesi in cui la destra le ha sapute fare. La sinistra, intendo la sinistra nell'arco più generale, ha stentato ad assumere il tema della sicurezza e quando l'ha assunto, spesso lo ha fatto acriticamente. Così alcune volte ha minimizzato il problema, altre volte invece è stata oggetto-preda di rigurgiti repressivi, vedi il pacchetto giustizia varato dal governo. Ma non siamo all'anno zero: abbiamo cominciato a leggere ciò che da 15 anni viene detto negli altri paesi europei e abbiamo iniziato a compiere una serie di ricerche. L'insicurezza oggettiva Comunque vi è un punto fermo. Occorre distinguere con quali criteri misuriamo l'insicurezza oggettiva e con quali criteri misuriamo invece il senso di insicurezza soggettiva, due cose completamente diverse. Non c’è una dipendenza causale della seconda dalla prima: i sentimenti di insicurezza soggettiva, infatti, sono parzialmente o assolutamente irrelati ai parametri con i quali si misura il criterio di insicurezza oggettiva. Di volta in volta bisogna distinguere quando c'è una coincidenza o meno. Le variabili per quantificare il rischio effettivo da criminalità sono molte, ma alcune decisive: in primo luogo dove si vive, ad esempio, se in una grande o piccola città di provincia e in quale quartiere. E poi lo stile di vita che si conduce, nonché età, sesso e reddito. Così il rischio da criminalità di chi vive nel Lazio è tra i più alti nelle medie regionali italiane, solo perché nel Lazio c'è Roma, mentre per i laziali che non risiedono nella capitale è dato vivere una vita relativamente più tranquilla del cittadino italiano medio. Dobbiamo stigmatizzare che a fronte della elevata disomogeneità territoriale della insicurezza oggettiva pare ragionevole contrapporre un’altrettanto diversificata politica di produzione della sicurezza. È di tutta evidenza, ad esempio, che le politiche di produzione della sicurezza a Rimini o Bologna non dovrebbero essere le medesime di quelle messe in campo a Forlì o Ferrara. Questa necessità imposta dalla sola osservazione dei fenomeni profondamente collide con una cultura della sicurezza come ancora si esprime nel nostro paese, ove a fronte del diffondersi dell'idea di una crescita generalizzata della criminalità di massa, si vaneggia di una possibile soluzione altrettanto generale dei problemi facendo ricorso allo strumento per eccellenza "universale" quanto "astratto" della risorsa penale. Se l'insicurezza è "situazionale", le politiche di sicurezza debbono essere altrettanto "situazionali": certo un'ovvietà, ma non per questo da trascurare. E questo è per noi un altro punto fermo da raccomandare a chi ha responsabilità di governo della sicurezza, sia a livello nazionale che locale. Prestiamo attenzione alla variabile delle disuguaglianze sociali - purtroppo colta da un dato in sé sicuro ma solo sintomatico della situazione sociale complessiva come è il titolo di studio - rispetto al rischio di essere vittime di determinati reati. Già a livello nazionale la ricerca di vittimizzazione ha avuto modo di cogliere una circostanza di una qualche originalità rispetto ad analoghe ricerche condotte negli Stati Uniti e in Inghilterra, vale a dire che il rischio nel nostro paese di subire un reato di strada (scippo borseggio, rapina e furto senza contatto) è tanto maggiore quanto è più elevata la classe sociale di appartenenza. Così apprendiamo anche che per la donna il rischio di essere vittimizzata - da un reato di natura predatoria e/o contro la persona più di una volta nell'arco di tempo considerato - raddoppia rispetto al rischio, già più elevato rispetto all'uomo, di esserlo una sola volta. Un'ulteriore conferma di come il sesso femminile sia una variabile decisa per la valutazione dell'insicurezza oggettiva da criminalità. L'età, invece, accentua la maggiore vulnerabilità al rischio di vittimizzazione multipla solo per i più anziani i quali pertanto sono mediamente meno esposti al rischio di subire alcuni reati, ma lo sono di più di subirli più volte, e sotto quest'ottica mostrano quindi una accentuata vulnerabilità. Estremamente significativo è il peso della condizione sociale: apprendiamo così che gli stranieri hanno una probabilità più che doppia della popolazione autoctona regionale di rimanere coinvolti in diversi reati contro la persona; e così pure coloro che si dichiarano disoccupati rispetto a quelli che invece hanno un lavoro. L’illusione del penale Sempre restando al caso Emilia Romagna, la preoccupazione in astratto per la criminalità è in deciso aumento nel tempo, in particolare nei confronti della micro-criminalità. Certo ancora distanti e nel tempo divaricanti gli indici che segnano la preoccupazione dal crimine dalla paura di potere essere vittima di un delitto, ma anche questo secondo sentimento di panico sta aumentando. Complessivamente queste due tendenze mostrano comunque di essere meno accentuate nell'opinione pubblica emiliano-romagnola che nel resto del paese, offrendo un primo elemento per una revisione critica del pre-giudizio che vorrebbe le rappresentazioni sociali in tema di criminalità come unicamente determinate da atteggiamenti irrazionalistici. Riconoscere invece che i sentimenti di insicurezza sono determinati da una pluralità di fattori, di cui l'esposizione al rischio oggettivo di criminalità costituisce solo un possibile fattore di determinazione con altri concorrenti, comporta accettare anche l'eventualità che l'opinione pubblica possa manifestare rappresentazioni sufficientemente realistiche. Piuttosto temiamo che siano a volte inquinate da emotività irrazionale le soluzioni che a questi sentimenti sociali vengono proposte dal sistema politico. Se è quindi impossibile trovare una relazione diretta tra aumento del panico sociale e maggiore esposizione al rischio oggettivo di essere vittima di un delitto di micro-criminalità, è pur sempre un dato di realtà inconfutabile che all'aumento nel tempo della insicurezza soggettiva nel nostro territorio regionale fa fronte un aumento del tasso di vittimizzazione in questi cinque anni superiore al 20%. Ma all'aumento della preoccupazione per la criminalità e della paura della criminalità nel tempo, non fa riscontro un corrispondente aumento dei comportamenti e delle misure autoprotettive, che anzi in diverse forme risultano decrescenti; né fa riscontro un incremento dei sentimenti di punitività. Anzi, sotto certi aspetti, si assiste ad un ridimensionamento dei favori nei confronti della richiesta di pene più severe e nei confronti della stessa pena di morte. È un profilo quest'ultimo di notevole interesse. Constatare che la gente si dice sempre più preoccupata e che manifesta di avere sempre più timore del crimine - soprattutto quello di strada - non significa affatto che essa invochi maggiore repressione. Ci sembra, al contrario, che l'opinione pubblica manifesti sentimenti più razionali di chi si illude di ottenere consenso proponendo immagini di rassicurazione fondate sull'aumento della punitività. Nel dettaglio: l'universo sociale da noi nel tempo interrotto, si mostra sempre più aperto a soluzioni alternative al carcere per quanto concerne i reati contro la proprietà e in favore di modalità sanzionatorie a contenuto restitutorio, con buona pace di chi crede di dovere sacrificare le riforme Gozzini e Simeone-Saraceni per placare i sentimenti giustizialistici di masse in preda al panico sicuritario. Quello che invece emerge sempre più chiaramente nel tempo è una domanda di maggiore tutela dal crimine, che è tutt'altra cosa dall'invocare più carcere: la popolazione emiliano-romagnola pretende infatti più coordinamento tra le forze di polizia; chiede che la polizia di stato operi con più efficienza e professionalità e che si controlli effettivamente coloro che si sono resi responsabili di reati e che risultano pericolosi; vuole che la polizia municipale si adoperi ad aiutare le persone in difficoltà e a controllare meglio il territorio, piuttosto che a limitarsi ad elevare contravvenzioni per sosta vietata. Insomma, pretende - e a ragione - più difesa sociale dal delitto e dai fenomeni di degrado sociale e non più repressione penale. Il perseguimento di questo obiettivo è stato raggiunto privilegiando un percorso a più tappe: in primo luogo dare il senso della complessità al tema della sicurezza contro la semplificazione qualunquista o forcaiola della destra; e in secondo luogo collocare il tema della sicurezza cittadina come espressione matura ed avanzata di governo complessivo delle città. E in ciò operando, il versante percorso è stato quello della integrazione tra azione politica di governo e conoscenza dei problemi. Da un lato si è operato per indicare le ragioni forti di un'assunzione del tema del governo della sicurezza nelle mani dei sindaci; dall'altro lato si è cercato di socializzare i dati di conoscenza indispensabili per potere amministrativamente agire. E questo è stato fatto e - con una punta di soddisfazione - riconosco che è stato fatto decisamente bene. Poi le "cose sono andate... come sono andate e come stanno tuttora andando". Nel senso che i governi delle città - passato il Rubicone dell'assunzione di responsabilità nel governo della sicurezza - hanno prodotto - quando hanno prodotto - una cultura politica-amministrativa della sicurezza sovente lontano da quella che "Città sicure" aveva espresso o auspicato. Nel contempo, a livello di politiche nazionali, ben poco di nuovo si è visto, e quel poco, si colloca nella vecchia tradizione del ricorso all'uso del diritto penale: insomma si evoca il tema della sicurezza dei cittadini come un tema nuovo, ma a questo si cerca di dare una risposta attraverso gli strumenti contenuti nella vecchia scatola di attrezzi. Il rischio che il tema del governo della sicurezza diventi semplicemente una retorica per legittimare le consuete strategie di ordine pubblico nei confronti di nuovi attori del disordine sociale (immigrati in primis) effettivamente è oggi presente. Mala tempora currunt Per altro il panorama europeo - dei governi nazionali laburisti e di sinistra - non induce sempre all'ottimismo. Certo con più organicità e riflessione di quanto siano in grado di esprimere in Italia - in ragione di una lunga tradizione politico-culturale con i temi del governo dei disordini metropolitani - l'indicazione che emerge forte è però quella di una maggiore severità, di una riduzione dei livelli di tolleranza, di un controllo sociale formale meno rispettoso dei diritti di libertà; eccetera. Mala tempora currunt, ci sentiamo di dire nell'osservare preoccupati la progressiva deriva nelle democrazie d'opinione - sia pure con governi di sinistra o forse anche proprio perché governate da sinistra - verso soluzioni tanto demagogiche, quanto nei fatti inefficaci, nelle politiche di governo della sicurezza cittadina di questo fine millennio. Il "pacchetto giustizia" messo in cantiere da questo governo è per noi una testimonianza purtroppo eloquente. E poi - circostanza quanto mai rilevatrice - nell'acceso dibattito a livello nazionale di questo ultimo anno che ha portato il tema della sicurezza dei cittadini dalla criminalità a scalare rapidamente l'ordine di priorità fino al punto di essere dichiarato come la prima urgenza, ben pochi hanno sentito il bisogno di contattarci, di sentire la nostra opinione. Eppure il progetto "Città sicure" è stata la prima esperienza scientifica e politica a livello nazionale nata in epoca non sospetta. Porre, ad esempio, quale obiettivo qualificante il tema della effettività delle pene anche se non soprattutto nei confronti dei fenomeni di criminalità di massa significa prescindere dal dato di realtà che ci insegna come la stragrande maggioranza della criminalità diffusa sia in Italia ed ovunque comunque impunita e soprattutto impunibile. Confidare che sanzionando lo scippo come rapina ovvero il furto in appartamento come delitto contro la persona ed elevandone la punibilità in concreto oltre la soglia dei quattro anni sia possibile contrastare più efficacemente il fenomeno è scientificamente illusorio, a meno appunto che non si voglia essere seriamente conseguenti e raddoppiare in poco tempo la popolazione detenuta, il che è per altri versi assolutamente improponibile. Di fatto, esistono verifiche scientifiche, che ci insegnano come i tassi medi della penalità e della incarcerizzazione non possano nei tempi medi superare determinati livelli, per altro nel nostro paese raggiunti. E gli esempi potrebbero abbondantemente continuare. Il primato della politica La domanda sociale di maggiore tutela dal delitto rischia seriamente di essere orientata politicamente verso una pretesa di maggiore produttività del sistema repressivo, cioè di essere orientata verso una più elevata repressione penale di condotte che in ragione della loro dimensione quantitativa non possono comunque essere effettivamente represse e nel contempo non sembra possibile convenire "democraticamente" di non reprimere. E l'effetto "tabulistico" della sola proibizione in astratto - senza più riscontro alcuno nell'effettività della sanzione - non sembra neppure più soddisfare le necessità di prevenzione generale integratrice. Il processo di civilizzazione ha determinato un irreversibile fenomeno di "esteriorizzazione delle norme" contro il controllo etico operato dalla società civile: nel processo di separazione della legge dalla morale - a profitto della legge - lo stato moderno ha definitivamente minato la funzione dei sistemi di controllo sociale endogeno. Nel contempo ha finito per trasformare i consociati in soli fruitori di prestazioni e servizi. Quando lo stato non è più in grado di produrre, proporzionalmente alla crescita della domanda sociale, rapporti sociali di solidarietà, si produce e diffonde l'insicurezza sociale, che è insicurezza tanto oggettiva che soggettiva. In effetti si viola di più e a livello di massa le norme nella misura in cui le agenzie della democrazia rappresentativa hanno elevato progressivamente il livello di civiltà dei costumi in astratto, fino appunto a quello di censurare attraverso la criminalizzazione quanto è avvertito anche solo come "incivile" ed "immorale" dai più. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, alla criminalizzazione delle condotte connesse al mercato delle droghe illegali, per eccellenza un universo quantitativamente incalcolabile di illeciti di massa tanto artificiali quanto criminologicamente senza vittime. Dall'altro lato si diffonde insicurezza soggettiva perché socialmente si percepisce che questa moralità virtuale, "normata" su vincoli di solidarietà "trasversale" non può essere garantita. In questo processo di autoreferenzialità, il solo esito possibile sembrerebbe quello di una infruttuosa rincorsa da parte dello stato sulla via della riassicurazione autoritaria attraverso lo strumento penale - rassicurazione mai effettiva (nel senso che non tutela) ma progressivamente anche sempre meno simbolica, perché sempre meno socialmente percepita come capace di tutelare. E questa situazione paradossale indicherebbe anche le ragioni profonde dei fallimenti di ogni invocato ed auspicato processo di depenalizzazione. Come se ogni possibile processo di riforma del sistema penale dovesse alla fine limitarsi a porre solo un po' di ordine sulle sole cose che contano poco o non contano. Per cogliere questo limite strutturale al processo di riforma basta porre l'attenzione sulla insensatezza politica di una proposta tanto tecnicamente realistica quanto oggettivamente conservatrice: perché non attestare i livelli di criminalizzazione in astratto su quelli della criminalizzazione materiale empiricamente quantificabile in un determinato periodo storico? Se ad esempio oggi in Italia la penalità media effettiva per chi è condannato alla pena dell'ergastolo è di una pena detentiva di 15 anni, perché non fissare per legge la pena massima a 15 anni? Se "di fatto" uno scippo è punito con una pena inferiore ai due anni, perché non sanzionare nella norma che lo scippo è punito con una pena di due anni? Se lo spaccio di piccole quantità di stupefacente di fatto non è punito, perché non depenalizzare questo reato? Questa inversione funzionale per cui il dover essere delle norme si ritaglia sull'essere funzionale ed empiricamente osservabile delle stesse - e quindi in ultima istanza si calibra sulle capacità materiali di dare ad esse effettività - appare una provocazione proprio perché nel suo realismo tecnocratico finisce per ignorare le "altre" ragione del punire, sia pure solo virtualmente. La sola possibile soluzione alternativa - possibile, non probabile - è nel senso "democratico" di investire nella produzione di vincoli sociali orizzontali e non più mediati verticalmente dallo stato, cioè di ri-portare nel sociale alcune funzioni di controllo e disciplina. Sono gli orizzonti della delegalizzazione, della deprofessionalizzazione del controllo sociale, della giustizia informale, come un po' ovunque sperimentalmente messi in campo attraverso la mediazione penale e sociale, la giustizia di prossimità, eccetera. Insomma quella che con troppa sufficienza sovente viene indicata come la retorica della community. Prospettiva difficile, che sovente ove tentata ha conosciuto esiti fallimentari: è impossibile a volte rifeudalizzare i rapporti e i vincoli sociali; il sociale in effetti, ove venga investito da questa delega disciplinare, finisce sovente per ereditare una domanda di disciplina già "costituita" dal sistema formale stesso e quindi è costretto ad operare - e neppure con le garanzie offerte delle agenzie professionalizzate - con i medesimi strumenti. Eppure, a ben vedere, questa strategia sembra alla fin fine obbligata, una volta che si voglia sfuggire ai pericoli che comporta l'illusione repressiva. Eppure, nonostante tutto, in questa alternativa siamo costretti a confidare.
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