Il
Difensore civico delle persone private della libertà personale
di
Franco Della Casa
In un Convegno dedicato all'opportunità di istituire un nuovo organo di
controllo in ambito penitenziario, s'impone come logicamente preliminare
l'interrogativo concernente l'oggetto di tale controllo. Dopo di che, per
scongiurare il rischio di una superflua moltiplicazione di enti, risulta a sua
volta obbligato l'ulteriore quesito relativo al funzionamento, più o meno
soddisfacente, degli attuali meccanismi di controllo.
Queste due domande sono peraltro correlate al carcere, ad un'istituzione cioè
appositamente creata per "separare". La separatezza del carcere
costituisce notoriamente uno dei suoi connotati distintivi, anche se le
legislazioni più avanzate, tra le quali va inserita a buon diritto quella del
nostro Paese, si sforzano di attenuare o di controbilanciare - fin dove è
possibile - questo dato genetico. A tale proposito risulta indubbiamente
felice la similitudine operata da chi ha paragonato il carcere ad un'ostrica
che si apre con molta prudenza durante il giorno, consentendo, ad esempio,
l'accesso dei difensori e dei parenti dei detenuti, per poi chiudersi
totalmente nelle ore notturne, allorché ritrova la sua più genuina
dimensione l'universo binario dei custodi e dei custoditi1. Resta da
aggiungere che un risvolto, pressoché ineluttabile, della separatezza è
quello dell'assenza di trasparenza o, se si preferisce, di una tendenziale
refrattarietà dell'istituzione carceraria ai controlli provenienti
dall'esterno.
Terminato il censimento dei punti cardine del nostro discorso, si può fornire
una risposta alla prima delle due domande iniziali, asserendo che la creazione
del difensore civico penitenziario risponde ad un'esigenza, tutto sommato,
elementare. Che è quella di avere un organo - esterno e indipendente rispetto
all'apparato carcerario - incaricato di vigilare affinché l'esecuzione della
pena detentiva sia conforme, nella sostanza, al dettato costituzionale e
risulti quindi depurata di ogni afflittività aggiuntiva rispetto a quella, già
così devastante, che le è propria2.
In una storica sentenza del 1974, la Corte Suprema degli Stati Uniti ebbe modo
di affermare che non deve esserci una «cortina di ferro» tra le carceri e le
garanzie scritte nella Carta costituzionale3. Questo stesso concetto è stato
ripreso e puntualizzato in più occasioni dal nostro Giudice delle leggi, il
quale, a partire dalla sentenza n.114 del 1979, ha affermato che «la
restrizione della libertà personale ... non comporta affatto una capitis
deminutio di fronte alla discrezionalità dell'autorità preposta alla sua
esecuzione». Per poi aggiungere, più di recente (sentenza n.26/1999), che,
nel concreto operare dell'ordinamento, la duplice statuizione contenuta
nell'art.27 c. 3 Cost. si traduce «non soltanto in norme e direttive
obbligatorie rivolte all'organizzazione e all'azione delle istituzioni
penitenziarie, ma anche in diritti di quanti si trovino in esse ristrette».
Non potrebbe essere altrimenti: riesce infatti difficile pensare ad una pena
che, avendo come stella polare la categoria della rieducazione, venga eseguita
in modo tale da sancire un'illimitata supremazia dell'interlocutore che in
quel momento si trova in una posizione di forza, presentando così una
singolare simmetria con i ruoli rispettivamente incarnati da chi commette un
determinato reato e da chi ne è vittima.
Non ci sono pertanto più dubbi sul fatto che la permanenza in un istituto
carcerario, pur comprimendo la libertà di circolazione e quegli altri diritti
la cui limitazione è strettamente collegata all'esecuzione della pena
detentiva4, lascia sussistere in capo al soggetto detenuto una molteplicità
di situazioni soggettive attive che possono essere raggruppate in due
sottoinsiemi. Il primo è costituito da quei diritti di cui il medesimo è
titolare come essere umano, e che non sono intaccati dalla vicenda detentiva
(basterà citare, per tutti, il diritto alla salute), il secondo da quegli
interessi e da quei diritti soggettivi ricollegabili alla specificità del suo
status: volendo esemplificare, si può far riferimento - per quanto concerne
gli interessi - alla disposizione che, in tema di trasferimenti, indica come
criterio-guida quello della prossimità alla residenza della famiglia (art.42,
c. 2 ord.penit.), e - per quanto concerne i diritti - al diritto alla c.d. ora
d'aria (art.10, c. 1 ord.penit.) o, se si tratta di imputati, al diritto al
colloquio con il difensore, sancito dall'art.104 c.p.p.
Quella appena raggiunta è una conclusione di indubbia importanza. Che non
dispensa tuttavia dal chiederci se nella legge penitenziaria del 1975 e nei
successivi interventi che periodicamente hanno riformato quel corpus normativo
il tema delle posizioni soggettive del condannato ha goduto della dovuta
attenzione del legislatore. Pur senza dimenticare che il problema principale
non è quello della titolarità delle posizioni soggettive, ma piuttosto
quello della loro effettività5, bisogna riconoscere che il legislatore
avrebbe potuto fare di più. In occasione della riforma del 1975 c'è stata
infatti una notevole prudenza nel delineare delle situazioni soggettive
perfette che ponessero chiari obblighi in capo all'amministrazione
penitenziaria6. Se si tiene conto del suo processo formativo, può essere
considerata paradigmatica la formulazione dell'art.15, c. 2 ord.penit.,
inerente all'assegnazione del lavoro ai condannati e agli internati: mentre in
uno stadio intermedio dei lavori preparatori (testo approvato dal Senato in
data 10 marzo 1971) era prevalsa una dizione che configurava un vero e proprio
diritto all'assegnazione del lavoro7, nella versione definitivamente approvata
si legge che il lavoro è assicurato «salvo casi d'impossibilità». Come si
è anticipato, il tema delle posizioni soggettive del soggetto detenuto e -
possiamo aggiungere - quello della loro tutela è rimasto in ombra anche nel
non breve periodo successivo al varo della legge del 1975, nonostante i
ripetuti interventi del legislatore nel settore penitenziario. Il fatto è che
tali interventi, da un lato, sono stati determinati il più delle volte da una
situazione di emergenza - si pensi ai decreti legge n.152 del 1991 e n.306 del
19928 - dall'altro, hanno segnato, come nel caso della legge Gozzini
(l.663/1986), l'inaugurazione di un fase post-emergenziale. Con la conseguenza
che, nella prima circostanza, ci si è ovviamente preoccupati di attuare un
efficace "giro di vite", mentre, nella seconda, ci si è
unilateralmente orientati verso una sempre più accentuata utilizzazione delle
misure alternative, senza dedicare la necessaria attenzione alla condizione di
chi rimane sottoposto al regime intramurario.
2.
Resta comunque intatta l'importanza del dato di fondo precedentemente
segnalato: dalla Costituzione - sinora si è menzionato l'art.27, c. 3, ma
vanno tenuti presenti anche l'art.2, l'art.3 c. 1 e 2, l'art.13 c. 3 Cost. - e
dalla normativa penitenziaria si ricava l'esistenza in capo al detenuto di una
molteplicità di situazioni soggettive attive. Sennonché, soprattutto alla
luce di quanto già osservato circa la separatezza del carcere, ci si rende
conto che la conclusione raggiunta va completata esaminando il funzionamento
degli organi ai quali il detenuto si può rivolgere nell'ipotesi in cui i suoi
diritti e i suoi interessi vengano lesi dall'apparato amministrativo preposto
all'esecuzione della pena detentiva.
Non essendo consentita in questa sede un'analisi a tutto campo, è inevitabile
concentrare l'attenzione sulla figura del magistrato di sorveglianza, quale
prioritario punto di riferimento per i detenuti che lamentino
"patologie" nell'operato dell'amministrazione penitenziaria9. Ciò
non significa - è il caso di puntualizzare - che si sottovalutano altri
importanti meccanismi di controllo; significa piuttosto che, per un motivo o
per l'altro, li si considera extra ordinem e, quindi, ai fini del nostro
discorso, secondari rispetto al controllo esercitato in via continuativa dal
magistrato di sorveglianza: si sta alludendo alle visite delle autorità
elencate nell'art.67 ord.penit.10, al ricorso alla Corte di Strasburgo
nell'ipotesi in cui si denunci la violazione di una norma della Convenzione
europea, alle visite e alle conseguenti relazioni del Comitato europeo per la
prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti11.
Bisogna dunque interrogarsi sul funzionamento del magistrato di sorveglianza,
trattandosi di questione pregiudiziale rispetto a quella relativa
all'opportunità di creare il difensore civico penitenziario. Se è consentito
anticipare il "dispositivo" rispetto alla "motivazione",
si può affermare che, in conformità con la valutazione espressa da
autorevoli esponenti della categoria interessata12, il giudizio sull'ormai
quasi trentennale esperienza del giudice di sorveglianza quale organo di
garanzia non può essere del tutto positivo.
Vale la pena di indicare i principali fattori che inducono a formulare tale
conclusione, cominciando a menzionare la diradata presenza del magistrato di
sorveglianza all'interno degli istituti di pena13. Può essere che il fenomeno
sia da imputare, in parte, al ridotto organico della magistratura di
sorveglianza: come è stato efficacemente sottolineato, l'attività ispettiva
sta all'attività giurisdizionale del magistrato di sorveglianza negli stessi
termini in cui una componente "gassosa", e quindi comprimibile, sta
ad un nucleo "solido"14. Con la conseguenza che, quando il carico di
lavoro aumenta, l'attività ispettiva è quella che per prima si presta ad
essere sacrificata.
La carenza di organico fornisce però una spiegazione soltanto parziale:
bisogna infatti riconoscere che l'allontanamento dalle incandescenti dinamiche
carcerarie è in una certa misura anche il risultato di una scelta
consapevole, effettuata da molti magistrati di sorveglianza desiderosi di
salvaguardare al massimo la loro terzietà di giudici15, e di poter così
rafforzare il senso di appartenenza ad un apparato che, in linea di massima,
tende ad isolarli16. Oltre tutto, tale scelta è in sintonia - al punto che
taluni vi colgono una correlazione - con le crescenti attribuzioni che il
legislatore ha devoluto al giudice monocratico nel settore delle misure
alternative17.
Per completezza, va altresì ricordato che, secondo un'opinione abbastanza
diffusa tra quanti hanno preferito ritirarsi nel loro «guscio corazzato di
giurisdizionalità»18, l'accesso al carcere del magistrato di sorveglianza si
ridurrebbe ad una vuota liturgia, posto che i detenuti utilizzano di regola
l'incontro con il giudice "penitenziario" solo per chiedere
informazioni circa la futura concessione di un permesso o di una misura
alternativa19. A voler seguire sino in fondo questo ragionamento, si dovrebbe
concludere che gli stessi detenuti dimostrano di non avvertire l'esigenza di
meccanismi di controllo, esterni all'istituzione penitenziaria: si tratterebbe
peraltro di una conclusione semplicistica e decisamente contrastante con gli
sforzi che il singolo detenuto e la collettività carceraria, nel suo
complesso, effettuano per informare l'opinione pubblica sull'afflittività
extra o contra legem che non di rado caratterizza l'esecuzione della sanzione
detentiva.
Vero è piuttosto che, se si pensa al ruolo classico del giudice quale
risolutore di controversie, e si cerca di adattare tale ruolo al magistrato di
sorveglianza nella sua veste di organo di garanzia, emergono corpose distonie.
Due aspetti, in particolare, meritano di essere ricordati:
1) di fronte alla violazione di un diritto del detenuto o dell'internato, solo
in pochi casi è consentito attivare un procedimento giurisdizionale che
culmini nella pronuncia di un provvedimento decisorio dotato della forza
necessaria per imporsi all'amministrazione penitenziaria. Si tratta, come è
noto, della questione esaminata dalla Corte costituzionale nella sentenza
n.26/1999, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità degli art.35 e 69
ord.penit., nella parte in cui tali disposizioni non prevedono una tutela
giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria
lesivi dei diritti del detenuto. Avendo però il Giudice delle leggi optato,
in tale circostanza, per una sentenza additiva di principio20 - anziché per
un'additiva tout-court - e non avendo ancora il legislatore sanato il vizio
denunciato dalla Corte, si versa in uno stato di attesa: tale è la perentoria
(anche se opinabile) conclusione a cui è pervenuta la Suprema Corte, la
quale, in alcune recenti pronunce21, ha affermato che tutt'oggi l'area della
giurisdizionalizzazione deve ritenersi circoscritta ai reclami inerenti alle
due materie (lavoro e disciplina) tassativamente considerate dall'art.69 c. 6
ord.penit. Come dire che in tutti gli altri casi, il magistrato, accertata la
fondatezza del reclamo, dovrà limitarsi a prospettare la situazione ai
vertici dell'amministrazione penitenziaria (art.69 c. 1 e 2 ord.penit.), la
quale - stando a quanto lamentano i magistrati di sorveglianza22 - si è
dimostrata in questi anni un interlocutore alquanto disattento;
2) anche quando il legislatore avrà dato concreta traduzione alle direttive
scaturenti dalla sentenza costituzionale n.26/1999, non tutti i reclami dei
detenuti attiveranno un procedimento giurisdizionale. Resterà in ogni caso
invariato lo status quo antea - con la conseguenza che al magistrato di
sorveglianza rimarrà soltanto il "binario morto" della
prospettazione - in tutte le ipotesi in cui il comportamento lesivo
dell'apparato carcerario vada ad incidere su una situazione soggettiva che non
sia qualificabile come un vero e proprio diritto. Ecco che riaffiora, quindi,
la questione dell'eccessiva prudenza del legislatore penitenziario nella
configurazione delle posizioni soggettive del detenuto. A prescindere da
questa notazione, è appena il caso di rilevare che alla distinzione tra
diritti e interessi non corrisponde necessariamente dal punto di vista
sostanziale una simmetrica graduatoria: è difficile negare, ad esempio, che
il trasferimento del detenuto in una struttura lontana dal luogo di residenza
dei suoi familiari possiede una carica di afflittività ben maggiore della
mancata corresponsione della «mercede» relativa ad un giorno di lavoro.
3.
Il significato dei dati che stanno emergendo può essere avvalorato da
un'analisi suppletiva di più ampio raggio che, accostando l'esperienza
italiana a quella di altri ordinamenti, consente di evidenziare i limiti - per
così dire, ontologici - del controllo giurisdizionale sull'operato
dell'amministrazione penitenziaria.
Risulta rispondente allo scopo uno scritto di Johannes Feest23, nel quale
l'Autore esamina come funziona in concreto il ricorso all'autorità
giudiziaria (Strafvollstreckungskammer), esperibile dal detenuto ai sensi dei
§§ 109 e 110 della legge penitenziaria tedesca (Strafvollzugsgesetz).
Estrapolando da tale scritto le considerazioni maggiormente inerenti al nostro
discorso, emergono i seguenti rilievi critici:
1) il tempo che il giudice "penitenziario" impiega per decidere il
reclamo del detenuto nei confronti di un atto dell'amministrazione carceraria
non è - anche a causa del rispetto delle forme imposto dal contesto
giurisdizionale - sufficientemente contenuto. Ciò in molti casi fa sì che,
pure nelle ipotesi in cui il reclamo viene accolto, la "vittoria"
del detenuto risulti puramente simbolica, in quanto nel frattempo è venuta
meno la ragione del contendere (basti pensare al trasferimento del ricorrente
in un altro istituto o, prima ancora, alla sua dimissione);
2) un reclamo che venga deciso da un giudice in esito ad un procedimento
giurisdizionale presuppone il rispetto delle ordinarie regole in cui si
articola il diritto delle prove. A tale proposito, va però osservato che
l'amministrazione si trova in una posizione di vantaggio rispetto al detenuto
che, proprio a causa del suo stato di soggezione nei confronti della
controparte, può incontrare non poche difficoltà nel procurarsi i necessari
elementi di prova24;
3) talune perplessità sono riconducibili al fatto che vi possa essere
coincidenza di persona fisica tra il giudice che decide i reclami contro
l'amministrazione penitenziaria e il giudice competente a concedere i permessi
e le misure alternative. Infatti la proposizione dei reclami potrebbe
comportare l'etichetta di detenuto "protestatario", che non è il
miglior viatico per il conseguimento di un beneficio penitenziario.
Muovendo da queste considerazioni - estensibili senza forzature alla procedura
di reclamo davanti al magistrato di sorveglianza (art.69 c.6 ord.penit.) -
l'Autore prospetta l'opportunità di un meccanismo che permetta di evitare gli
inconvenienti appena menzionati. In quest'ottica viene evocata una figura
istituzionale diversa dal giudice, la quale, forte della sua assidua presenza
all'interno della struttura carceraria, potrebbe operare per la risoluzione
del conflitto ispirandosi alla logica e ai canoni della mediazione.
4.
Sulla base di quanto sinora appurato esistono contesti (l'ambiente carcerario)
e aree (quella ricomprendente le posizioni meno "forti" del diritto
soggettivo) che sono sottratti al controllo continuativo di un organo esterno
all'amministrazione penitenziaria. Inoltre, anche con riferimento a quei
settori nei quali tale controllo ha invece modo di operare, non risulta per ciò
stesso esclusa l'opportunità di un'ulteriore forma di tutela che abbia
caratteristiche ovviamente diverse da quella giurisdizionale, così da porsi
rispetto ad essa in un rapporto di complementarietà. Sembrano dunque
sussistere le premesse per l'introduzione nel nostro ordinamento del difensore
civico penitenziario, la cui fisionomia può essere in larga misura
tratteggiata proprio tenendo presenti - secondo una logica di giustapposizione
- i punti deboli del nostro attuale sistema.
Al pari del magistrato di sorveglianza, l'organismo di cui ci si sta occupando
deve essere "terzo" rispetto all'amministrazione penitenziaria,
fermo restando però che l'ufficio dovrebbe essere strutturato in modo tale -
quanto a risorse ed organico - da consentire un'assidua presenza del difensore
civico all'interno degli istituti penitenziari. Grazie ad alcune autorevoli
testimonianze25, la constatazione che i giudici "penitenziari" sono
riluttanti ad assicurare la loro presenza in carcere, lungi dal riguardare
esclusivamente la situazione italiana, si presta ad essere generalizzata, e
questo dato consente di formulare l'ipotesi secondo cui si tratta di una
resistenza, per così dire, culturale: l'immagine che il giudice ha di se
stesso collide con quella di diretto osservatore della quotidianità
carceraria26. Proprio con riferimento all'ombudsman penitenziario si è per
contro evidenziato che, quanto più esso è presente in carcere, tanto più
agevole è per il detenuto lamentare eventuali irregolarità - magari ancora
allo stadio iniziale e, quindi, più facilmente correggibili - e tanto più
contenuto risulta il timore di eventuali ritorsioni27. Ovviamente, al diritto
incondizionato di accesso si deve accompagnare un penetrante potere ispettivo,
non inferiore a quello che l'art.5 reg. esec. conferisce al magistrato di
sorveglianza.
Quanto alla latitudine del controllo, non ci si deve più cimentare con
astratte categorie giuridiche. Tutto ciò che si ponga in contrasto con la
normativa penitenziaria, o che comunque sia suscettibile di arrecare al
detenuto un'afflittività aggiuntiva rispetto a quella scaturente dalla
corretta esecuzione della pena, ricade sotto il raggio di azione
dell'organismo in esame. In altre parole, è tipico dell'ombudsman
penitenziario un controllo diffuso, di talché quando in certi ordinamenti -
come in Inghilterra - si vuole escludere uno specifico settore, lo si indica
esplicitamente28. Gli spazi di intervento sono perciò molto ampi, vuoi con
riferimento alle situazioni di carattere individuale - si faccia l'ipotesi di
un reclamo concernente la mancata autorizzazione ad avere un colloquio con
persona diversa dai congiunti e dai conviventi (art.37 c. 1 reg.esec.) - vuoi
con riferimento a situazioni che chiamano in causa più direttamente i vertici
dell'amministrazione penitenziaria, quali, ad esempio, la situazione di
sovraffollamento o il contrasto di una circolare con le previsioni della legge
del 1975.
Resta da parlare del modus operandi del difensore civico penitenziario e degli
strumenti sanzionatori che gli dovrebbero essere attribuiti: due versanti
rispetto ai quali non ci si può non uniformare alle tradizionali
caratteristiche dell'ombudsman. Per quanto concerne il primo aspetto, la
peculiarità consiste nel modo di procedere snello e informale, che consente
di esaurire la trattazione del caso in tempi solitamente alquanto ristretti, e
di raggiungere quindi un risultato sicuramente importante per il contenimento
delle endemiche tensioni che deteriorano l'ambiente carcerario. Come si
accennava, non meno degno di nota è il fatto che l'organismo in esame
proceda, anche ex officio, del tutto informalmente, raccogliendo dalle fonti
più disparate e senza dover osservare un determinato regime probatorio - si
pensi ad una dichiarazione anonima sorretta da solidi riscontri - gli elementi
che gli permettano di maturare un determinato convincimento sulla questione
oggetto della sua indagine. Basta ricordare quanto si è precedentemente
osservato sulla difficoltà, per chi è in stato di detenzione, di assolvere
all'onere probatorio nell'ambito di una procedura giurisdizionalizzata29, ed
aggiungere che, com'è ovvio, tale difficoltà aumenta a dismisura quando il
detenuto appartiene ad una delle fasce deboli della popolazione carceraria:
anche in considerazione del fattore quantitativo, la precisazione riguarda, in
particolare, gli stranieri30. Colpisce perciò favorevolmente che, nella
relazione relativa all'anno 1999-2000, il prison ombudsman inglese sottolinei,
a riprova del buon funzionamento dell'istituzione, che il numero dei reclami
proposti dai detenuti stranieri corrisponde grosso modo alla loro percentuale
rispetto al totale della popolazione detenuta31.
Le connotazioni di questo informale modo di procedere lasciano intuire che,
anche per quanto concerne il versante lato sensu sanzionatorio, va totalmente
accantonata l'immagine dell'organo che emette un provvedimento vincolante per
le parti in contesa. Il senso di quest'affermazione diventa ancora più chiaro
nel momento in cui si puntualizza che, conformemente alla tradizione del
difensore civico, la logica sottostante alla proposta di creare il nuovo
organismo è quella di prevenire i contrasti, di mediare, di mantenere vivi i
collegamenti con gli enti e le istituzioni che a vario titolo si occupano del
carcere, di far convergere la necessaria attenzione dell'opinione pubblica e,
prima ancora, del Parlamento sui reali problemi dell'apparato detentivo32.
Il catalogo degli strumenti destinati a presidiare la sua azione non può
prescindere da queste premesse. Volendo scendere in maggiori dettagli, ci si
può utilmente rifare a una proposta di legge presentata al Senato nel corso
della passata legislatura con il titolo «Istituzione del difensore civico
delle persone private della libertà personale»33. In essa - come, del resto,
in un'altra proposta recante lo stesso titolo e dai contenuti molto simili,
presentata più o meno contemporaneamente alla Camera dei Deputati34 -
troviamo un articolo dedicato per l'appunto ai «meccanismi di sanzione»
(art.7). Si ritiene opportuno sintetizzare il suo contenuto, in quanto se ne
ricava un catalogo adeguato delle iniziative consentite a questa particolare
figura di difensore civico per conferire la necessaria incisività alla sua
azione. Il punto di partenza è rappresentato dal potere di raccomandazione, a
cui, se del caso, può seguire secondo un criterio di progressività:
1)l'esplicazione di una funzione di persuasione nei confronti
dell'amministrazione interessata; 2)la richiesta di ottemperare, rivolta ai
superiori gerarchici; 3)una dichiarazione pubblica di biasimo, da divulgare
mediante i mezzi di informazione; 4)nei casi più gravi, la richiesta
all'autorità competente di attivare il procedimento disciplinare. L'elenco è
perfezionato dall'ulteriore previsione che impone al difensore civico di
presentare annualmente al Parlamento una relazione sull'attività svolta, con
la specificazione, tra l'altro, degli esiti delle sollecitazioni impartite,
delle risposte ricevute dai responsabili degli organismi con cui ha dialogato,
delle proposte finalizzate ad un miglioramento delle condizioni di detenzione
(art.9).
L'aver evocato le due proposte di legge presentate nella passata legislatura
potrebbe indurre ad un loro esame particolareggiato, che tuttavia, per ovvie
ragioni di tempo, non è assolutamente consentito. Ci si può tutt'al più
permettere un paio di notazioni "a margine", facendole precedere
dall'opinione che le suddette proposte possono costituire senz'altro una buona
base di partenza per l'avvio di un proficuo dibattito parlamentare. Una prima
notazione si ricollega ad una scelta importante, desumibile dal titolo stesso
degli atti in esame, i quali, opportunamente, non fanno riferimento al
difensore civico penitenziario, ma al difensore civico «delle persone private
della libertà personale». Il che prelude all'esplicita previsione di un
controllo dell'istituendo difensore civico anche sui centri di detenzione per
immigrati e sulle strutture delle forze di polizia in cui transita l'indiziato
prima del suo eventuale inserimento nel circuito carcerario (art.4, c.1).
Riesce difficile non essere d'accordo con tale impostazione, che richiama alla
mente l'ampiezza del potere ispettivo riconosciuto al Comitato europeo per la
prevenzione della tortura (CPT). Può risultare risolutiva la constatazione
che, a differenza dell'ambiente carcerario, ispezionabile da una pluralità di
soggetti esterni ed autonomi rispetto all'amministrazione penitenziaria, con
riferimento ai luoghi da ultimo menzionati non è attualmente prevista, fatta
eccezione per il CPT, alcuna forma di controllo35.
Ciò premesso, il dubbio che sorge è semmai di segno opposto: viene da
chiedersi infatti se, sulla falsariga di quanto è previsto in taluni
ordinamenti stranieri36, non sarebbe opportuno estendere il raggio d'azione
del difensore civico ai soggetti che stanno fruendo di una misura alternativa
o che sono sottoposti alla libertà vigilata. Si tratta infatti di soggetti
che, godendo di una libertà attenuata e sub condicione, si trovano, a loro
volta, in una situazione di particolare fragilità nei confronti degli
apparati che vigilano sulla corretta esecuzione di tali misure.
La seconda notazione riguarda invece quanto sta scritto, in entrambe le
proposte di legge, nell'art.6, dove, a proposito dei meccanismi di
attivazione, si precisa che l'organismo in esame interviene «nei casi
segnalati o di ufficio, a tutela dei diritti fondamentali delle persone
detenute». Il riferimento alla categoria "diritti fondamentali"
rischia di ridurre ingiustificatamente lo spatium operandi del difensore
civico, assegnandogli confini che, alla luce di quanto statuito dalla Corte
costituzionale nella sentenza n.26/1999, verrebbero ad essere addirittura più
ristretti di quelli entro cui si esplica - rectius, si dovrebbe esplicare - il
controllo giurisdizionale del magistrato di sorveglianza.
Giacché ho menzionato quest'organo, concludo esplicitando, a scanso di
equivoci, un pensiero che dovrebbe essere già emerso con sufficiente
chiarezza: il magistrato di sorveglianza e il difensore civico delle persone
detenute operano in base ad una logica completamente diversa, per cui i loro
piani di intervento sono nettamente sfalsati. Ne consegue che l'istituzione
del nuovo organo andrebbe semplicemente ad aggiungersi al controllo
giurisdizionale del giudice "penitenziario", senza alcun pericolo di
nocive interferenze: al contrario, è ragionevole supporre che la convergente
azione del difensore civico potrebbe essere un volano capace di dare nuovo
slancio alla funzione garantistica del magistrato di sorveglianza.
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1 A.M. MARCHETTI, La prison dans la cité, Paris, 1996, p.96.
2 Per un'identica prospettiva, cfr. la
raccomandazione n.64 delle Regole penitenziarie europee (Raccomandazione
R(87)3 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa), in base alla quale
«La detenzione, comportando la privazione della libertà è una punizione in
quanto tale. La condizione della detenzione e i regimi penitenziari non devono
quindi aggravare la sofferenza inerente ad essa, salvo che come circostanza
accidentale giustificata dalla necessità dell'isolamento o dalle esigenze
della disciplina».
3 Wolff v. McDonnel, 418 U.S. 539 (1974).
4 Sull'argomento, cfr., da ultimo, A. PENNISI, Diritti del detenuto e tutela
giurisdizionale, Torino 2002; M.RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione,
Torino, 2002.
5 Per un'efficace sottolineatura di questo concetto, F. BRICOLA, Introduzione,
in Il carcere "riformato", a cura del medesimo, Bologna, p.9 ss.
6 Nello stesso senso, L. STORTONI, «Libertà» e «diritti» del detenuto nel
nuovo ordinamento carcerario, in Il carcere "riformato", cit., p.41
ss.
7 Cfr. G. PERA, Aspetti giuridici del lavoro carcerario, in «Foro it.»,
1971, V, c.65.
8 In proposito, cfr., volendo, F. DELLA CASA, Le recenti modifiche
dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della
"scommessa" anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del
"doppio binario", in L'ordinamento penitenziario fra riforme ed
emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, 1994, p.73 ss.
9 Per un contributo tuttora attuale rispetto ad una molteplicità di profili,
cfr. A. MARGARA, Il magistrato di sorveglianza quale garante di conformità
alla legge dell'attività penitenziaria, in Alternative alla detenzione e
riforma penitenziaria, a cura di V. Grevi, Bologna, 1982, p.204 ss.
10 Sul contenuto dell'art.67 ord.penit., che consente di accedere al carcere
senza autorizzazione a varie personalità dello Stato e degli enti locali
nonché ad esponenti del potere giudiziario, cfr. F. VITELLO, sub art.67
ord.penit., in Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, a
cura di V. Grevi-G. Giostra-F. Della Casa, 2° ed., Padova, 2000, p.634 ss.
11 Sulla tutela garantita ai detenuti dagli organismi europei, cfr. C.
DEFILIPPI-D. BOSI, Il sistema europeo di tutela del detenuto, Milano, 2001; C.
BIANCO, Dignità della pena e diritti umani:l'apporto del Consiglio d'Europa,
in Inchiesta sulle carceri italiane, a cura di S. Anastasia e P. Gonnella,
Roma, 2002, p.191 ss.
12 Cfr. G. ZAPPA, Dei diritti e della loro tutela giurisdizionale, in Diritti
in carcere. Il difensore civico nella tutela dei detenuti, a cura di A.
Cogliano, s.l., 2000, p.83; A. MARGARA, Difensore civico e magistrato di
sorveglianza, ivi, p.94.
13 Cfr., tra gli altri, G. ZAPPA, Magistratura di sorveglianza ed
amministrazione penitenziaria di fronte ai problemi attuali del carcere, in «Quaderni
del C.S.M.», 1985, 2, p.44; in merito alla tesi, definita in voga tra i
magistrati di sorveglianza di "seconda generazione", secondo cui «una
frequentazione assidua della prigione influenzerebbe il giudice, privandolo
della necessaria imparzialità», cfr. A. COLOMBO, Dietro le sbarre più
fitte, in «Il manifesto», 7 giugno 1992, p.5. Per un richiamo al doveroso
controllo sull'istituzione carceraria, cfr. E. FASSONE, Ristrutturazione del
processo penale e nuova identità del magistrato di sorveglianza, in «Rass.penit.e
crimin.», 1982, p.497.
14 M. CANEPA, Intervento (nell'ambito del Convegno:«Problemi attuali della
magistratura di sorveglianza»), in «Quaderni del C.S.M.», Roma, 1983,
p.223.
15 Vedi supra nt.12, nonché A. MARGARA, Difensore civico, cit., p.94.
16 Per un identico riscontro, con riferimento all'esperienza francese del juge
de l'application des peines, cfr. J. DEMORGON, «Miroir, dis moi» ou l'image
du J.A.P., in «Rev.pénit.et dr.pén.», 1976, p.540; B.
DUTHEILLET-LAMONTHEZIE, L'application des peines:une istitution en péril?,
ivi, 1974, p.575 ss.
17 Ci si riferisce, in particolare, agli artt.47 c.4, 47-ter c.1-quater, 50
c.6 ord.penit. - introdotti dalla l.27 maggio 1998, n.165 - i quali
conferiscono al magistrato di sorveglianza il potere di delibare la richiesta
di affidamento in prova al servizio sociale, di detenzione domiciliare, di
semilibertà, e di disporre la concessione in via provvisoria della misura
(detenzione domiciliare) oppure la sospensione dell'esecuzione (affidamento in
prova e semilibertà).
18 Vedi ancora M. CANEPA, Intervento, cit., p.223.
19 Per uno spunto, cfr. l'intervento di L. MONTEVERDE nell'ambito del
dibattito sul tema «La magistratura di sorveglianza», in «Le due città»,
2001, 6, p.40; per un'identica impostazione, A. DEL NEVO, Le attività non
giurisdizionali del magistrato di sorveglianza: in particolare i colloqui e
gli accessi agli istituti penitenziari, in «Doc.giust.», 1997, c.2104 ss.
20 In proposito, cfr. S. BARTOLE, I requisiti dei procedimenti giurisdizionali
e il loro utilizzo nella giurisprudenza costituzionale, in «Giur.cost.»,
1999, p.193 ss.; M. RUOTOLO, La tutela dei diritti del detenuto tra
incostituzionalità per omissione e discrezionalità del legislatore, ibid.,
p.220 s.
21 Cass.pen., 18 aprile 2002, Brancato, in «Guida al diritto», 2002, 32,
p.88; Cass.pen., 18 aprile 2002, Balzamo, ivi, 2002, 28, p.84; Cass.pen., 5
marzo 2002, Schembri, ivi, 2002, 19, p.90.
22 Per una netta presa di posizione contro i silenzi dell'amministrazione
penitenziaria, cfr. R.MERANI, Competenze e limiti della magistratura di
sorveglianza nella tutela dei diritti, in Diritti in carcere, cit., p.107 s.
Nello stesso senso, v. già T. BASILE, Il ruolo della magistratura di
sorveglianza nella riforma penitenziaria: qualche riflessione, in «Giust.pen.»,
1985, I, c.220; A. MARGARA, Magistratura di sorveglianza, in Dizionario di
diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, Milano, 1986, p.610.
23
J. FEEST, Institutional Resistance Against Prisoners' Rights, in «Howard
Journ. of Crim. Justice», 1993, 2, p.127
ss. Per una più ampia trattazione della medesima tematica, v. altresì
J.FEEST-W.LESTING-P.SELLING, Totale Institution und Rechtsschutz, Opladen,
1997.
24 Nello stesso senso, E. SOMMA, La «giurisdizionalizzazione»
dell'esecuzione. Processo penale e processo di sorveglianza, in Pene e misure
alternative nell'attuale momento storico (Atti dell'XI Convegno «Enrico de
Nicola»), Milano, 1977, p.184 s.
25 Cfr. A. CASSESE, Umano-disumano. Commissariati e prigioni nell'Europa di
oggi, Bari, 1994, p.131 ss.; J. FEEST, Institutional Resistance, cit., p.132.
26 Per una tempestiva segnalazione di tale atteggiamento "frenante",
N. FRANCO, Magistrato di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, in «Quale
giust.», 45-46, 1978, p.453. Nello stesso senso, M. CANEPA, Intervento, cit.,
p.221 s.; R.MERANI, Competenze e limiti, cit., p.103 ss.
27 Diffusamente sul punto, S. ANDERSON, The Corrections Ombudsman, in Justice
as Fairness: Perspectives on the Justice Model, ed. by D.Fogel-J. Hudson,
Cincinnati, 1981, p.264.
28
Cfr. S. LIVINGSTONE-T. OWEN, Prison Law, 2nd ed., 1999, p.44.
29 Ragionando in termini realistici,
sembra da escludere che lo squilibrio possa risultare significativamente
attenuato grazie all'introduzione nel codice di rito dell'art.327-bis c.p.p.
(art.7 l.7 dicembre 2000, n.397), il cui c.2 consente l'espletamento delle
c.d. indagini difensive anche nella fase dell'esecuzione.
30 Sulla diminuzione di garanzie riscontrabile nella vicenda detentiva dello
straniero, cfr., da ultimo, A. NALDI, Mondi a parte: stranieri in carcere, in
Inchiesta sulle carceri italiane, cit., p.48 s. Sullo stesso tema v., altresì,
G. CONSO, Il carcere multietnico, in «Rass.penit.e crimin.», 2002 (numero
speciale), p.9 ss.; C. BESIO, L'impatto del trattamento sugli stranieri in
carcere, in AA.VV. Percorsi personali e di reclusione, Dogliani (CN), 2002,
p.107 ss.; Detenuti stranieri in carcere, a cura del CIDSI, Roma, 1990, e, con
riferimento agli analoghi interrogativi affrontati dalla dottrina
penitenziaristica tedesca, H. PREUSKER, Neue Klienten des Strafvollzuges, in
Wiedereingliederung Straffälliger, a cura di G.Kawamura e R. Reindl, Freiburg,
1998, p.30 ss.
31 Prison Ombudsman: Annual Report 1999-2000, London, 2000, Cm 4739, p.10.
32 In questo senso, cfr. P. GONNELLA, L'ombudsman per i diritti dei detenuti,
in Diritti in carcere, cit., p.30.
33 Senato della Repubblica. XIII Legislatura. Disegno di legge n.3744,
comunicato alla Presidenza il 14 gennaio 1999
34 Camera dei Deputati. XIII Legislatura. Proposta di legge n.5509, presentata
il 14 dicembre 1998.
35 Per la preoccupata segnalazione di "zone franche" rispetto al
controllo del magistrato di sorveglianza, al quale, in base alla legge,
dovrebbero essere invece sottoposti tutti coloro che, avendo assunto la veste
di indagati, siano privati della libertà personale, cfr. Documento di alcuni
magistrati di sorveglianza indirizzato al C.S.M. in data 5 maggio 1984, in «Difesa
pen.», 5, 1984, p.6 s.
36 Ci si riferisce, in particolare, al "Minnesota Ombudsman for
Corrections", sui cui estesi poteri cfr. R. HENHAM, Some Alternative
Strategies for Improving the Effectiveness of the English Prisons Ombudsman
Scheme, in «Howard Journ. of Crim. Justice», 2000, p.295.