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 Lo stato della 
    giustizia in Italia di
    Vittorio Aliquò 
 Ricorre in questi mesi 
    il decimo anniversario delle stragi di mafia di Capaci (23 maggio 
    1992) e di via D'Amelio a Palermo (19 luglio 1992), di cui restarono 
    vittime, rispettivamente, il magistrato Giovanni Falcone, la moglie 
    Francesca   e tre agenti 
    della scorta, e il magistrato Paolo Borsellino con i cinque agenti della 
    scorta. Furono giorni tragici, tristi e dolorosi, ma determinarono una forte 
    unità d'intenti, una reazione dello Stato e della società civile, mai prima 
    d'allora verificatasi con tanta determinazione, e ad essa seguì l'apertura 
    di grandi brecce nella compattezza della stessa organizzazione mafiosa Cosa 
    Nostra. Sono passati dieci anni e quei giorni sfumano nella memoria. Si dimenticano presto i morti, l'onda travolgente del dolore e dello sdegno, l'impegno durissimo degli anni successivi per riuscire a identificare, arrestare e condannare i colpevoli, per smantellare in larga misura l'organizzazione criminale. Quei giorni sembrano 
    lontani, molto lontani, tanto da farci dimenticare certe lungaggini e 
    storture, che non hanno ancora permesso di concludere in tutti i gradi 
    di giudizio molti processi e che, per contro, in alcuni casi hanno 
    fatto sì che soggetti condannati in via definitiva abbiano riacquistato, in 
    forza di benefici carcerari, una libertà che consente loro di riallacciare 
    le vecchie fila, di ricostruire strutture criminali demolite a così alto 
    prezzo. Si levano, di tanto in tanto, perfino voci che chiedono un atto di 
    clemenza o suggeriscono un'apertura per la concessione di ulteriori benefici 
    a fronte di una dissociazione meramente verbale, non accompagnata da veri 
    segni di rottura definitiva, qual è la collaborazione con le autorità 
    inquirenti. Il desiderio di una 
    completa sconfitta della mafia, che non è poi altro se non la giusta 
    aspirazione a rientrare del tutto in una «normalità» per troppo tempo 
    perduta, è così forte da farci illudere di averla davvero sconfitta, di aver 
    finalmente raggiunto la normalità e di averla definitivamente assicurata a 
    noi stessi e alle generazioni future. Purtroppo è ancora un'illusione. È 
    un'illusione nella quale sono caduti i nostri padri e i nostri nonni. 
    Basterebbe leggere cosa è avvenuto alla fine dell'800 (è di quei tempi il 
    delitto Notarbartolo) e nel periodo fascista, con la repressione compiuta 
    dal prefetto Mori e la falsa certezza di poter ormai e definitivamente 
    «dormire con le porte aperte», come si diceva all'epoca 1). Ciascuno di noi, guardando indietro alla propria storia, non potrà non rileggere complessivamente il significato della propria vita, che, come quella di tanti altri, è stata toccata da episodi di violenza, o ha risentito della violenza ad altri arrecata, o comunque diffusa accanto a noi, o è stata addirittura una vita trascorsa - come per molti magistrati, avvocati, giuristi, funzionari, appartenenti alle forze di polizia - al servizio diretto della giustizia. E ognuno potrà constatare come la propria storia, la propria vita sia stata violentata e condizionata, in questi anni, dalla brutalità criminale e dalla mafia; non solo in Sicilia. Ogni violenza è come una 
    grossa pietra in un lago tranquillo: si solleva un'onda che può anche 
    travolgere di cerchio in cerchio chi si trova sulla sua strada. Un'onda che 
    colpisce non solo la vittima, ma anche la sua famiglia, il suo mondo, la 
    società e spesso raggiunge nei suoi effetti perversi l'autore stesso del 
    delitto, i suoi figli, la sua famiglia, i suoi affetti. Per questo è un 
    dovere morale impedire che quella pietra venga scagliata, ma anche 
    soccorrere chi è travolto dall'onda, chiunque esso sia, e impegnare 
    la propria vita e la società in cui viviamo a fare scelte coerenti e tali da 
    impedire ogni ritorno di un passato così oscuro. 1.      
    Significato delle 
    relazioni annuali dei Procuratori Generali È questo il solo senso, 
    oggi, delle annuali relazioni pronunciate dal Procuratore Generale presso la 
    Corte di Cassazione e dai Procuratori Generali presso tutte le Corti 
    d'Appello, nel corso di cerimonie, che hanno forse un sapore arcaico e sono 
    talora occasioni di polemiche e contestazioni, ma che, sulla base di una 
    corretta informazione, dovrebbero essere per tutti una spinta a guardarsi 
    intorno nella materia della giustizia, che tutti ci riguarda, a fare un 
    esame che non sia solo attinente alla situazione di fatto nell'ambito 
    limitato che ci è familiare, quello della nostra cerchia di conoscenze e di 
    attività, o al massimo della nostra città, ma che sia un'annuale 
    rivisitazione dei problemi generali della giustizia in Italia; forse una 
    sorta di esame di coscienza: perché ognuno di noi, ogni individuo, 
    ogni categoria, tanto più, ma non solo, chi ha responsabilità di governo, 
    può e deve influire sul complessivo andamento del mondo in cui vive, per 
    migliorarlo e trasformarlo, se necessario, ma sempre in una prospettiva di 
    attenta valutazione degli interessi superiori, che per noi sono compendiati 
    nel termine giustizia. Certamente, nelle 
    relazioni dei Procuratori Generali variano le tecniche espositive e variano 
    i dati statistici, per un motivo o per l'altro, anche per l'introduzione di 
    nuove tecniche e di nuovi moduli di raccolta dei dati. Poche dunque le 
    certezze, forse relative soltanto alla netta contrazione dei delitti più 
    gravi e del numero dei procedimenti pendenti in primo grado, sia nel settore 
    penale sia in quello civile; ma contrazione accompagnata da un preoccupante 
    aumento, già in corso e prevedibilmente destinato ad aggravarsi, dei 
    procedimenti pendenti negli ulteriori gradi di giudizio, soprattutto nella 
    fase dell'appello, cui si ricorre in maniera generalizzata. Nei discorsi dei 
    Procuratori Generali, però, è possibile cogliere alcuni punti 
    fondamentali di unità e di comune sottolineatura, che sono stati, nei 
    due ultimi anni, i seguenti: a) la troppo scarsa 
    attenzione da parte del legislatore, complessivamente ma soprattutto nei 
    più recenti interventi, alla persona offesa, sia sotto il profilo più 
    strettamente individuale e umano, che sotto quello di più generale esigenza 
    di tutela sociale; b) la grave offesa ai 
    diritti dell'uomo costituita dai tempi lunghi di svolgimento del 
    nostro processo penale e dalla non minore durata del processo civile; 
     c) l'incongruenza 
    dell'introduzione da parte del legislatore di non poche nuove figure 
    di reato, spesso per fatti di limitatissimo allarme sociale, che 
    richiedono un dispendio di attività investigative e giurisdizionali tali da 
    ridurre considerevolmente gli effetti positivi di altri interventi 
    legislativi, volti più opportunamente alla depenalizzazione, cioè in 
    definitiva ad ampliare il campo dell'intervento amministrativo, riservando 
    la sanzione penale alle espressioni più gravi di antisocialità; d) la nuova necessità di 
    calibrare il nostro sistema procedurale e sostanziale su quello 
    dell'Unione Europea accogliendo istituti e discipline consueti ad altri 
    Paesi e facendo in modo che anche il nostro diritto, che ha tanti 
    pregevolissimi aspetti, sia conosciuto e accettato in questa nuova comunità, 
    che un po' tutti già amiamo e sentiamo nostra2); e) l'opportunità di 
    molte delle recenti riforme, a volte attese da anni, e tuttavia 
    realizzate in maniera affrettata e poco meditata, trascurando quel 
    giusto equilibrio la cui assenza le ha talvolta trasformate in ulteriori 
    occasioni di lungaggini e di ostacoli al raggiungimento della verità 
    sostanziale. Nel suo discorso inaugurale del 2001, il Procuratore Generale 
    presso la Corte di Cassazione, Francesco Favara, osservava: «talune norme di 
    garanzia rispondono a imprescindibili esigenze di giustizia e sono 
    intoccabili, altre sono tali solo formalmente, perché in realtà sono 
    nient'altro che regole, le quali, se mal poste o male applicate, 
    contribuiscono ad allungare i tempi della procedura, senza offrire una 
    tutela sostanziale dei diritti delle parti. Questo genere di garanzie esclusivamente formali è incompatibile con un processo rispettoso del principio dell'efficienza e di quello della durata ragionevole di ogni accertamento giudiziario». Esempi di tal genere se 
    ne possono trovare in abbondanza non solo nei recenti interventi legislativi 
    in materia penale, ma anche in normative attinenti al processo civile. 2.      
    Le 
    recenti riforme in materia di giustizia  E invero in questi anni 
    sono stati affrontati molti punti nodali della nostra legislazione in 
    materia di giustizia e sono state attuate - specialmente nell'ultimo 
    triennio - riforme sostanziali di non comune rilievo, nel cui 
    contesto però sono state spesso introdotte norme inadeguate, se non 
    addirittura contrarie negli effetti alle accennate esigenze. Si sono realizzate in 
    tal modo, benché disorganicamente, riforme, soprattutto di carattere 
    procedurale, nuove e imponenti, che hanno richiesto all'intera struttura 
    giudiziaria un enorme sforzo di innovazione, aggiornamento e riscrittura di 
    modalità e procedure operative tuttora in corso. Il complesso di tali norme 
    si muove certamente nella giusta direzione dell'alleggerimento del carico 
    gravante sulla giustizia ordinaria. Occorre infatti prendere 
    atto della impossibilità che i magistrati ordinari, in numero ridotto, con 
    gravi carenze di organico e con i noti problemi di inadeguata distribuzione 
    sul territorio, possano gravarsi dell'intero onere di tutte le controversie, 
    di tutti i procedimenti penali derivanti dalla violazione di qualsivoglia 
    norma. Agli stessi va invece riservata la competenza a giudicare i fatti più 
    gravi e i conflitti di maggiore allarme sociale, così da consentirne la 
    soluzione in tempi ragionevoli. Tra le riforme di maggiore ampiezza nel 
    settore penalistico vanno annoverate l'istituzione del giudice unico 
    di primo grado 3), la depenalizzazione delle figure di reato 
    meno gravi 4), la nuova disciplina dei reati tributari 
    5), la c.d. «legge Carotti» 6), che ha 
    profondamente innovato alcuni istituti, incidendo sulla struttura stessa 
    del codice di procedura penale ben più di quanto la apparente modestia 
    dell'intento riformatore facesse prevedere, e, ancora, la nuova 
    disciplina in materia di collaboratori di giustizia 7), 
    l'introduzione del nuovo istituto delle investigazioni difensive 
    8) e l'attribuzione di competenze penali al giudice di 
    pace 9), con effetto appena dal gennaio scorso. Di più ampia 
    valenza e di notevole incidenza la riformulazione dell'art. 111 della 
    Costituzione, in materia di «giusto processo», con le successive 
    leggi attuative, recanti nuove regole sull'assunzione e valutazione delle 
    prove e altri ampi interventi sulla disciplina del processo penale. Il nuovo 
    testo dell'art. 111, nella parte appunto modificata, fissa, con maggiore 
    ampiezza e dettaglio rispetto al passato, i principi fondamentali cui deve 
    rispondere ogni attività giurisdizionale e ogni processo 
    10). Di non minore rilievo 
    sono state le riforme nel settore civilistico, fra le quali l'introduzione 
    dei giudici di pace e dei giudici onorari aggregati 11), oltre 
    che, anche in sede civile, del giudice unico di primo grado, introduzione 
    correlata alla profonda riforma di tutta la procedura, che, attraverso un 
    complesso sistema di preclusioni, decadenze e provvedimenti cautelari, 
    appare finalizzata alla semplificazione e concentrazione del processo 
    e, in definitiva, alla razionalizzazione del sistema giustizia, con il 
    necessario alleggerimento dei carichi di lavoro, cha hanno ormai raggiunto 
    livelli insostenibili. 3.      
    Le 
    riforme attuate nel sistema penalistico: luci e ombre  Per restare nel 
    campo penalistico, con la prima delle menzionate riforme, quella che ha 
    introdotto il giudice unico di primo grado, sono stati perseguiti 
    fini di razionalizzazione del sistema, evitando di immobilizzare più 
    magistrati, come avveniva in passato, nella celebrazione di dibattimenti 
    necessariamente lunghi per la soluzione di processi di non grande entità. Il 
    prezzo pagato, cioè la soppressione dell'antichissima figura del 
    Pretore, in molti dei nostri centri periferici simbolo vivente della 
    presenza dello Stato, nell'esercizio di una funzione di cui si percepiva 
    tuttora fortemente il valore etico, è stato certamente altissimo e sarebbe 
    stato opportuno quindi mantenere l'originario impianto strutturale che 
    restringeva al massimo le ipotesi di intervento del Tribunale nella sua 
    composizione tradizionale (appunto con tre giudici), prevedendo, come 
    normale, l'intervento del giudice unico e sfruttando quindi al massimo le 
    potenzialità della riforma. Invece l'ambito del giudizio monocratico è stato 
    ristretto e correlativamente è stato ampliato quello del giudizio 
    collegiale, certamente più ponderato e quindi fonte di maggiori garanzie per 
    l'imputato, ma anche molto più lento e più complesso. Inoltre non hanno 
    ancora trovato definitiva soluzione una serie di problemi organizzativi, fra 
    cui quelli derivanti per i pubblici ministeri residenti nel capoluogo del 
    circondario dalla celebrazione in contemporanea di numerose udienze, anche 
    in sedi distaccate assai lontane. Di pari rilievo, quanto 
    meno per la sua novità, è l'attribuzione di competenza penale al giudice 
    di pace, che presenta numerosi aspetti positivamente innovativi in 
    materia di citazione a giudizio, svolgimento del processo e discrezionalità 
    nell'applicare sanzioni alternative alla pena tradizionale. La 
    riforma, però, stenta ancora a funzionare correttamente per 
    gravi carenze nelle strutture e per non trascurabili problemi dei magistrati 
    onorari, peraltro spesso non ancora sufficientemente «rodati» nelle 
    precedenti competenze civili, nell'affrontare le nuove competenze, 
    nonostante siano stati già organizzati corsi di aggiornamento 
    obbligatori. Non minore importanza, 
    ai fini del complessivo discorso riformatore, riveste la citata «legge 
    Carotti» (Legge 16 dicembre 1999, n. 479), che ha innovato 
    profondamente il sistema processuale con una pluralità di norme che incidono 
    su quasi tutti gli aspetti della procedura penale. Talune delle innovazioni 
    introdotte hanno già suscitato, però, critiche e perplessità sotto il 
    profilo della spedita definizione dei procedimenti. In particolare 
    l'istituto, del tutto nuovo, dell'avviso di conclusione delle indagini, 
    previsto dall'art. 415 bis del c.p.p., nella pratica costituisce un 
    adempimento meramente formale, complesso e generalmente inutile, tanto più 
    che è stato contestualmente esteso l'ambito dell'udienza preliminare 
    anche a talune categorie di delitti di competenza del giudice monocratico 
    (per i quali la citazione in giudizio dell'accusato avrebbe dovuto avvenire 
    direttamente, mediante decreto di citazione). L'ampliamento di tale udienza, 
    peraltro, insieme a ulteriori modifiche della procedura, consente già di 
    raggiungere notevoli economie nell'attività giurisdizionale, per una molto 
    più ampia possibilità di far ricorso al rito abbreviato, riservando 
    così il dibattimento a ipotesi particolarmente dubbie, o comunque a quelle 
    nelle quali il rito stesso non appaia conveniente all'imputato (che gode di 
    un diritto di scelta che non può essere disatteso dal giudice). In tal modo 
    la definizione del giudizio nell'udienza preliminare si avvia a 
    diventare, tendenzialmente, la forma di giudizio più frequentemente 
    adottata in concreto. Tale riforma, che comunque richiede ancora un 
    notevole rafforzamento degli uffici dei Giudici dell'Udienza Preliminare, si 
    muove certo nello spirito originario del codice di procedura penale del 
    1989, le cui aspettative di possibile efficienza erano fondate sul 
    presupposto, poi rivelatosi inconsistente, della assoluta preminenza 
    statistica dei riti speciali sul rito ordinario, che avrebbe dovuto essere 
    riservato a un numero assolutamente esiguo di casi. Una ulteriore riforma 
    che ha inciso sull'acquisizione delle prove, soprattutto in materia di 
    reati di mafia, è quella attuata con la Legge 13 febbraio 2001, n. 
    45, già prima ricordata, sulla modifica della disciplina della 
    protezione e del trattamento dei collaboratori di giustizia, più noti 
    con l'errata definizione di «pentiti». Da tempo si invocava una disciplina 
    organica della materia che rimediasse a difetti e lacune della vecchia 
    normativa, pur benemerita in un particolare momento storico, ma ormai 
    eccessiva e moralmente inaccettabile sotto vari profili. Sono stati 
    introdotti principi basilari, come quello della separazione del 
    profilo processuale premiale - riguardante cioè la riduzione di pena e altri 
    vantaggi per l'esecuzione della stessa - da quello della protezione della 
    persona del collaboratore e dei suoi familiari da possibili vendette della 
    criminalità, ora realizzata in modo differenziato, in relazione 
    all'importanza del singolo collaboratore e al pericolo cui è concretamente 
    esposto, e correlando i benefici premiali esclusivamente all'attendibilità e 
    importanza del contributo processuale offerto, con ben precisi minimi di 
    pena, che l'imputato collaborante deve comunque scontare in stato di 
    detenzione prima di beneficiare di scarcerazioni anticipate. Sono invece meno 
    convincenti altre disposizioni, pur dettate dall'intento di tutelare la 
    genuinità della fonte, come quelle che prevedono una sorta di isolamento in 
    carcere del collaboratore di giustizia, in un regime deteriore persino 
    rispetto a quello previsto per i mafiosi irriducibili, o che impongono un 
    termine ultimo e rigido, quello di sei mesi dall'inizio della 
    collaborazione, entro il quale il collaboratore deve riferire in ordine a 
    tutti i fatti di cui è a conoscenza e ai relativi responsabili. In tal caso, 
    infatti, per le dichiarazioni fuori termine, è prevista, oltre a una 
    gravissima sanzione per il collaboratore, anche la «inutilizzabilità 
    probatoria» nei confronti degli eventuali accusati, che possono perciò 
    facilmente sfuggire alle loro responsabilità. Si tratta, come si vede, più 
    che di una sanzione per il collaboratore impreciso o fraudolento, di un 
    grave ostacolo alla ricerca della verità. Ostacolo tanto più 
    irrazionale, ove si rifletta sull'evoluzione complessiva della normativa - 
    in materia di ricerca di specifici riscontri alle accuse dei collaboranti - 
    e della giurisprudenza, sempre più rigorosa nella valutazione 
    dell'attendibilità delle loro dichiarazioni e nella distinzione tra fatti 
    conosciuti per via diretta o appresi da altri, ben diversamente valutabili, 
    se non del tutto privi di valore probatorio. Da tale doverosamente 
    vario apprezzamento delle persone e delle dichiarazioni derivano spesso 
    quelle profonde differenze nelle decisioni della magistratura e, in 
    particolare, negli interventi correttivi della Corte di Cassazione, 
    con gravi condanne di taluni imputati e assoluzione di altri pur loti 
    criminali, che a volte sorprendono o disorientano l'opinione pubblica, non 
    adeguatamente informata. 4.      
    Effetti delle nuove 
    normative Nel complesso, comunque, 
    le nuove disposizioni hanno finito col favorire il ricorso a nuove tecniche 
    d'indagine, specialmente di tipo tecnologico, di maggior rilievo e utilità, 
    ma che allo stato dei fatti non è possibile adottare se non in casi 
    percentualmente limitati e a costi rilevanti. Sembra peraltro già in 
    atto il paventato effetto che la nuova normativa, anche per 
    l'illustrazione in parte errata datale dai media, venga percepita 
    dalle organizzazioni mafiose come «segnale di arretramento» 
    dello Stato, scoraggiando nuove collaborazioni, soprattutto 
    dei soggetti di maggiore importanza, e quindi azzerando la parte di maggiore 
    utilità del fenomeno del pentitismo. Fenomeno che è troppo riduttivo 
    qualificare oggi come spregevole tentativo di accaparrarsi benefici, 
    dimenticando che solo esso ha consentito di evitare ulteriori e più tremende 
    stragi e di far luce su un mondo criminale rimasto per decenni impenetrabile 
    e sostanzialmente sconosciuto a danno di tutti noi; dimenticando, 
    soprattutto, che spesso la vera collaborazione è stata pagata con la vita e 
    sempre con gravi disagi e sacrifici personali e familiari; dimenticando 
    ancora che fra i pentiti, insieme a coloro che hanno avuto un comportamento 
    poco affidabile o che sono ritornati al delitto, vi sono altri che hanno 
    vissuto l'esperienza come un specie di liberazione, hanno tenuto un 
    comportamento lineare e sono oggi nuovamente inseriti nella società, senza 
    pubblicità e in silenzio, sconosciuti ai benpensanti che auspicano il 
    recupero del delinquente, ma sono pronti a fissarsi sulla pagliuzza che 
    ancora conserva nell'occhio. Quanto alle 
    investigazioni, la legge n. 397/2000 12) ha regolato 
    compiutamente l'istituto di quelle difensive, che rappresentano una 
    radicale novità nel nostro ordinamento, anche se la facoltà di acquisire 
    elementi in favore del proprio assistito era stata introdotta fin dal 1995, 
    con il diritto attribuito al difensore di conferire con persone informate 
    sui fatti. La nuova legge, che sotto alcuni profili, per un vero e 
    proprio eccesso di garantismo, ha attribuito al difensore poteri 
    talvolta quanto meno anche «anomali» (per esempio, in tema di attività 
    investigativa preventiva «per l'eventualità che si instauri un procedimento 
    penale» e cioè prima ancora che tale procedimento sia iniziato e che il 
    delitto stesso sia stato scoperto, con intuibili pericoli di inquinamento 
    delle prove), ha reso generale il principio che anche il difensore è 
    protagonista dell'indagine preliminare e può svolgere tutte le 
    investigazioni. Ne deriverà però, ovviamente, la necessità di acquisire 
    professionalità e organizzazione, con una certissima lievitazione di 
    costi. Ben più complessi e tali 
    da non potere essere affrontati in questa sede sono gli effetti indotti 
    nel sistema di assunzione e valutazione della prova dal nuovo testo 
    dell'art. 111 della Costituzione e dalle relative leggi attuative, che 
    hanno imposto una rimodulazione delle tecniche d'indagine, da una parte 
    garantendo gli spazi dovuti alla difesa e il fondamentale diritto alla 
    formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale, dall'altra, 
    secondo molte voci, comprimendo eccessivamente, attraverso un sistema 
    di preclusioni e inutilizzabilità, gli irrinunciabili principi del libero 
    convincimento del giudice e della ricerca della verità non soltanto formale, 
    ma sostanziale. Come si vede, gli 
    interventi del legislatore non sono mancati e non può dirsi neppure che 
    siano stati privi di effetti positivi. Non sono diminuite solo le 
    pendenze giudiziarie e, sia pure ancora troppo limitatamente, i tempi della 
    giustizia, ma sono stati conseguiti in questi anni, con l'impegno di tutti, 
    altri risultati, ai quali a volte non si presta la dovuta attenzione. A Palermo, e non solo a 
    Palermo, gli omicidi non sono più frequenti come negli anni passati. Nel 
    Paese, nonostante recenti dolorosissimi episodi, non vi sono quotidiani 
    delitti politici. Rapine e furti, ancora frequenti, non rivestono più la 
    gravità cui ci avevano abituati gli assalti quotidiani alle banche. Non è 
    più vero, nella maggior parte dei nostri quartieri, che la sera non si possa 
    uscire senza esporsi a esperienze traumatizzanti. Molti, anzi la massima 
    parte, dei grandi criminali sono stati arrestati e la maggior parte di essi 
    scontano già gravi pene definitive. Le ripetute recenti catture e le 
    frequenti vaste operazioni ai danni delle organizzazioni criminali operanti 
    nei più vari campi testimoniano l'efficienza dei magistrati inquirenti e 
    delle forze di polizia giudiziaria, ma anche la persistente efficacia della 
    normativa che regola i loro interventi.  5.      
    Esigenze di revisione 
    delle nuove normative  Ma questo non può 
    tranquillizzarci, non deve far passare in secondo piano i problemi di 
    tutela sociale tuttora persistenti. Infatti, di fronte a talune 
    periodiche eclatanti manifestazioni, che dimostrano una capacità di 
    rinascita e di ricostruzione assolutamente preoccupante, chi può ritenere 
    che mafia, camorra, sacra corona unita e simili consorterie siano scomparse 
    o si siano improvvisamente trasformate in associazioni di benpensanti? Secondo l'ultima 
    relazione del Procuratore Generale di Palermo, anzi, proprio nel momento 
    attuale, il vertice di Cosa Nostra sta tentando di realizzare un 
    complesso progetto di ricostruzione del suo assetto organizzativo, nel 
    quale sono confluite via via varie componenti storiche dell'associazione, e, 
    in particolare, il latitante Bernardo Provenzano ha cercato di coagulare 
    attorno a sé un ristretto vertice, capace di restituire all'associazione 
    stessa la sua tradizionale funzionalità strategica. Chi può poi dire che le 
    organizzazioni criminali degli immigrati non trovino opportunità e 
    convenienza a stanziarsi definitivamente presso di noi? Chi può affermare 
    che le droghe, sempre più diffuse e sempre più nuove e raffinate, non 
    siano un pericolo ben superiore al morbo della mucca pazza per il quale sono 
    state giustamente mobilitate risorse straordinarie? Chi, in definitiva, può 
    sentirsi certo che i propri figli non corrano alcun pericolo dalla 
    criminalità nelle loro attività future, specialmente se si tratta di 
    attività imprenditoriali? Il dovere di operare con 
    giusta fermezza fin da subito non è dunque un optional, o magari 
    qualcosa da lasciare agli altri, ma è un impegno personale e comunitario, 
    che va al di là delle nostre opinioni politiche e degli interessi 
    momentanei. È davvero una buona causa impegnare la nostra vita, di cittadini 
    e di giuristi, per ottenere un sistema legislativo e operativo che 
    consenta sempre - e non solo in brevi momenti di crisi emozionale, 
    presto rimossi - che il crimine sia prevenuto, in quanto possibile, e sia 
    punito, se commesso; che nessuno possa godere, né direttamente né per 
    vie traverse, dei frutti di un delitto; che ciascuno possa tutelare in tempi 
    ragionevoli i propri interessi e che si eviti in ogni modo la possibilità di 
    avvalersi di sotterfugi e di mezzi, anche legali, per raggiungere lo scopo 
    illecito di danneggiare altri, nel campo civile, o di bloccare il sistema di 
    difesa sociale, nel campo penale. Se dunque molte delle 
    recenti riforme, auspicate e attese, hanno trascurato questi aspetti e in 
    qualche caso anzi hanno determinato pericolosi effetti contrari, è 
    assolutamente necessario, senza nulla togliere ai diritti della difesa e ai 
    nuovi spazi d'intervento aperti con l'introduzione delle investigazioni 
    difensive, tagliare di netto la possibilità per i criminali di sfruttare 
    quelle accennate pieghe della legislazione al solo fine di conseguire 
    l'impunità e conservare il profitto del reato, cioè per continuare a 
    delinquere o, peggio, per ricostruire la rete di strutture criminali prima 
    ancora che sia completata la sua demolizione.  6.      
    Alcune necessità 
    primarie  A tal fine i Procuratori 
    Generali hanno indicato alcune necessità primarie, riconducibili alle 
    seguenti: a) riforma della 
    prescrizione dei reati, che, verificandosi irrazionalmente anche durante 
    la trattazione del processo, costituisce una spinta formidabile alle 
    lungaggini ad opera della difesa; b) riforma delle 
    impugnazioni, una gran parte delle quali sono pretestuose e mirate solo 
    a conseguire appunto la prescrizione del reato, ovvero a procrastinare 
    l'esecuzione della pena; c) razionalizzazione 
    dei sistemi deflattivi, ossia previsti per una più veloce definizione 
    dei processi, perché essi abbrevino concretamente i processi stessi e perché 
    non escludano, come oggi in pratica avviene, ogni diritto della persona 
    offesa; d) ritocco del 
    sistema di acquisizione delle prove, in modo che non siano mortificati i 
    diritti della difesa, come giustamente sancito dal nuovo testo dell'art. 111 
    della Costituzione, ma che non sia neppure ostacolata, come oggi con le 
    nuove disposizioni spesso accade, l'attività del pubblico ministero, stretto 
    nella gabbia di numerosi termini, il cui superamento è variamente sanzionato 
    con nullità, decadenze e inutilizzabilità degli atti acquisiti. E invero, se attraverso 
    l'indagine penale non può e non deve ricercarsi altro che la verità reale -, 
    una verità solo formale è, per definizione, un'apparenza probabilmente 
    menzognera -, questa verità deve potersi ricercare, attraverso sistemi di 
    sanatoria e di recupero, purché sempre rispettino la parità delle parti, 
    anche se essa emergesse in momenti diversi o fuori dagli schemi 
    consueti. Fuori da schemi 
    consueti, ad esempio, è incontestabile che grandissimi servigi abbia reso 
    alla giustizia il fenomeno del pentitismo, pur nelle sue anomalie e 
    nonostante varie storture, in gran parte eliminate con gli ultimi 
    provvedimenti, sopra menzionati, i quali a loro volta tuttavia hanno 
    introdotto pesanti limitazioni che scoraggiano le nuove collaborazioni. Ritornando alle 
    necessità primarie, nell'attuale stato della giustizia in Italia, una di 
    esse è la riforma di alcuni aspetti dell'ordinamento riguardanti i 
    giudici, molto spesso distratti da incombenze non giudiziarie e male, o 
    per nulla, supportati da adeguati uffici organizzativi, ancorché di recente 
    siano stati compiuti sforzi notevolissimi in materia di informatizzazione e, 
    in alcune sedi, di edilizia giudiziaria, mentre è già avviato un 
    intensissimo programma di formazione e riqualificazione del personale. Sui giudici influisce 
    molto, forse disorientandoli, ma comunque rendendo estremamente 
    aleatoria e complessa la composizione dei collegi giudicanti, con 
    pregiudizio del principio costituzionale del giudice precostituito per 
    legge, il recente orientamento a portare alle estreme conseguenze il 
    principio di incompatibilità, sconosciuto in gran parte delle altre 
    legislazioni e manifestazione di una tendenziale sfiducia nell'indipendenza 
    del magistrato.  Dal medesimo 
    atteggiamento di sfiducia, che in linea di massima non è affatto 
    giustificata, è connotata la recente problematica sulla figura del 
    pubblico ministero, la cui carriera si vorrebbe del tutto distaccata da 
    quella del giudice. È indubbiamente una richiesta che viene da molte 
    parti e forse non si può più trascurare un intervento legislativo 
    profondamente innovatore. Tuttavia, chi ha vissuto questi ultimi anni della 
    propria vita giudiziaria all'interno delle Procure sa bene quale maggior 
    ponderazione, quale obiettività, quale rispetto del ruolo della difesa e di 
    quello del giudice dimostrino i sostituti procuratori che hanno vissuto le 
    loro prime esperienze giovanili nei collegi giudicanti, e come, peraltro, la 
    prospettiva del passaggio alla funzione giudicante costituisca, per la 
    massima parte di quanti ancora non ne hanno fatto esperienza, una spinta a 
    mantenere una preparazione più ampia e una sostanziale terzietà rispetto 
    all'indagine, per aspirare in futuro a compiti giudicanti, più stimolanti, 
    quanto meno per la loro novità. Un'altra necessità, 
    ancor più essenziale per il nostro sistema di giustizia, può individuarsi 
    nell'urgenza di una forte incentivazione dei mezzi di recupero sociale, 
    soprattutto di quelli riguardanti i minori, le cui eclatanti 
    manifestazioni nel campo del crimine sgomentano ogni giorno di più, e di una 
    seria revisione di quelli concernenti i maggiorenni, per i quali 
    attualmente i vari benefici previsti dall'ordinamento penitenziario 
    funzionano, anziché come mezzi differenziati di effettivo recupero, 
    piuttosto come mezzi anomali, volti solo all'abbreviazione irrazionale, 
    quasi sempre neppure giustificata o del tutto immotivata, della pena 
    inflitta dopo anni di processi, approfondita riflessione e dettagliata 
    motivazione, sicché in definitiva la sanzione penale è svuotata di 
    efficacia. Naturalmente, si può pensare a moltissime altre urgenti necessità e ciascuno può certamente avere molte utili nuove idee. Ben vengano, soprattutto da chi riveste cariche istituzionali e politiche. Ma vengano in sincera ricerca, senza riserve mentali, senza posizioni precostituite, ricordando che la società che abbiamo creato la lasceremo ai nostri figli.   1) Emanuele 
    Notarbartolo, direttore generale del Banco di Sicilia e sindaco di Palermo 
    dal 1874 al 1876, venne ucciso il 1° febbraio 1893, mentre viaggiava in 
    treno da Termini Imerese a Palermo. Del delitto vennero accusati il deputato 
    Raffaele Palazzolo, quale mandante, e tale Giuseppe Fontana, quale 
    esecutore. Essi, dopo complesse 
    vicende processuali, che evidenziarono una capillare e già opprimente 
    presenza mafiosa nell'ambiente siciliano, con interessi nel mondo degli 
    affari e della finanza, furono infine assolti. Cfr Notarbartolo L., Il 
    caso Notarbartolo, li Vespro, Palermo 1977. Cesare Mori, brillante 
    funzionario di polizia, inviato in Sicilia per reprimere i movimenti di 
    ribellione in certe zone dell'Isola, nel periodo successivo alla prima 
    guerra mondiale, aveva avuto modo di notare la presenza fitta di interessi e 
    gruppi mafiosi e di illustrarne in suoi scritti l'evoluzione. Tornò in 
    Sicilia a metà degli anni Venti, da prefetto, inviato da Mussolini, con il 
    compito di condurre una lotta radicale contro la mafia, cui si dedicò con 
    metodi spesso durissimi e indiscriminati. Sul significato, i limiti e gli 
    effetti delle sue operazioni repressive, cfr Romano S. F., Storia della 
    mafia, Mondadori, Milano 1966. 2) Cfr, ad esempio, in 
    proposito Militello V. e Altri, Il crimine organizzato come fenomeno 
    transnazionale: forme di manifestazione, prevenzione e repressione in 
    Italia, Germania e Spagna, Giuffrè & Iuscrim, Freiburg 2000. 3) D. lg. 19 febbraio 
    1998, n. 51, Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo 
    grado. 4) Si vedano, in 
    particolare, la Legge 25 giugno 1999, n. 205, Delega al Governo per la 
    depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale 
    tributario, e il D. lg. 30 dicembre 1999, n. 507, Depenalizzazione 
    dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'art. 1 
    della legge 25 giugno 1999, n. 205. 5) D. lg. 10 marzo 
    2000, n. 74, Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e 
    sul valore aggiunto, a norma dell'art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 
    205. 6) Legge 16 dicembre 
    1999, n. 479, Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al 
    tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di 
    procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. 
    Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità 
    spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense. 7) Legge 13 febbraio 
    2001, n. 45, Modifica della disciplina della protezione e del trattamento 
    sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia, nonché 
    disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza. 8) Legge 7 dicembre 2000, n. 397, Disposizioni in materia d'indagini difensive. 9) Legge 24 novembre 
    1999, n. 468, Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante 
    istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza 
    penale del giudice di pace e modifica dell'art. 593 del codice di procedura 
    penale, e D. Ig. 28 agosto 2000, n. 274, Disposizioni sulla competenza 
    penale del giudice di pace, a norma dell'art. 14 della legge 24 novembre 
    1999, n. 468. 10) I commi 1-5 dell'art. 111 della Costituzione, introdotti dalla Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, così recitano: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. - Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. - Nel processo penale la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. - II processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore. - La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». Le necessarie modifiche 
    del codice penale e del codice di procedura penale in materia di formazione 
    e valutazione della prova, in attuazione della legge costituzionale 
    suddetta, sono state apportate con la Legge 25 febbraio 2000, n. 35, 
    e con la Legge 1 ° marzo 2001, n. 63. 11) Legge 21 novembre 
    1991, n. 374, Istituzione del giudice di pace; Legge 22 luglio 1997, n. 276, 
    Disposizioni per la definizione del contenzioso civile pendente: nomina di 
    giudici onorari aggregati e istituzione delle sezioni stralcio nei tribunali 
    ordinari. 12) Cfr supra, nota 8. 
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