La colpa e la
pace
  
Armido
  Rizzi
  
 
  
Complessità del fenomeno 
  
 
  
Nella storia della coscienza di 
  colpa - e della concezione della colpa - si possono individuare tre stadi, 
  che, più che come tappe di una successione cronologica, vanno intesi come 
  livelli di approfondimento della realtà della colpa. 
  
La colpa come fatto 
  esterno
  
Il primo stadio è quello dove la 
  colpa si identifica con i suoi risultati esterni: c'è colpa lì dove l'uomo, 
  volendolo o non volendolo, compie qualcosa che viene considerato lesivo 
  dell'ordine, di un ordine che è insieme ontologico e morale. 
Quando nella 
  Bibbia leggiamo dei due che toccano l'arca e cadono fulminati, ci troviamo di 
  fronte a questa concezione esteriorizzata della colpa. Con una coscienza 
  esistenziale molto più acuta e complessa, dove l'esteriorità è maturata in 
  senso della fatalità, troviamo la stessa tipologia della colpa nella tragedia 
  greca. Per sfuggire al destino che gli è stato annunciato, cioè che ucciderà 
  il padre e si unirà alla madre, Edipo si allontana dalla casa e dalla patria; 
  ma proprio il destino lo porta, per vie traverse, a compiere ciò che egli 
  voleva evitare: a diventare parricida e incestuoso. Che egli non l'abbia 
  voluto non è né una scusante né una attenuante: la fatalità non cancella la 
  colpa ma ne dice il carattere di ineluttabilità Parricidio e incesto ledono 
  l'ordine divino; chi li compie è dunque colpevole. E' questa l'ultima 
  parola. 
  
La colpa 
  interiorizzata
  
Il secondo stadio di concezione 
  della colpa ne pone l'essenza al di dentro dell'uomo: essa è atto soggettivo; 
  e ogni disordine esterno, ogni lesione dell'ordinamento della realtà è colpa 
  soltanto nella misura in cui esprime una soggettività ingiusta. Ciò che conta, 
  in campo etico, è l'intenzione, è la buona o cattiva volontà. Il risultato può 
  esserci o mancare; ma la dimensione costitutiva della colpa è data dal cuore 
  dell'uomo. 
Questa scoperta dell'interiorità della colpa è uno dei grandi 
  contributi della tradizione ebraica, e poi soprattutto cristiana, alla storia 
  spirituale dell'umanità. Al punto che, anche quando la visione cristiana viene 
  abbandonata, permane questa convinzione che il bene e il male non consistono 
  propriamente nei risultati positivi o negativi ma nel cuore buono o cattivo. 
  Kant dirà che il bene per essenza è la volontà buona e il male per essenza la 
  volontà cattiva. 
Tutto questo è vero; ma non è tutta la verità Questa 
  concezione ignora o rimuove, nei suoi sostenitori meno lucidi, il fatto che 
  tra la coscienza e l'azione dell'uomo, tra l'interno e l'esterno, non c'è 
  soluzione di continuità; che la volontà non è buona o non buona 
  indipendentemente dall'azione. Il risultato può anche mancare, ma dev'essere 
  voluto, seriamente e concretamente; un'intenzione che trascura il risultato 
  non è più pura ma, viceversa, distorce il proprio senso, ripiegandosi su se 
  stessa in una interiorità che non è più etica ma narcisistica. Una morale che 
  venga giocata esclusivamente nel rapporto tra l'individuo e la coscienza (o 
  tra l'individuo e Dio), trascurando il polo-mondo, rischia di cancellare non 
  solo questo polo ma la stessa coscienza nonché il riferimento a Dio, rischia 
  di diventare un monologo che mima il dialogo etico e teologale. Dio non si 
  identifica con la mia interiorità; proprio il sommamente interiore viene 
  raggiunto quando usciamo da noi stessi e ci lasciamo misurare da situazioni 
  esterne, quando siamo alle prese con qualcosa che è diverso da noi. L'« 
  intimior intimo meo» di Agostino è l'«extra me», di Lutero. 
  
La sintesi
  
Il terzo stadio della concezione 
  della colpa mi pare venga espresso in forma esemplare nella polemica dei 
  profeti biblici contro il culto. 
«Smettete di presentare offerte inutili, 
  l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso 
  sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io 
  detesto, sono per me un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le 
  mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io 
  non ascolto. Le vostre mani grondano di sangue. Lavatevi, purificatevi, 
  togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista» (Is 1,13-16). 
  
Dunque: la polemica contro l'esteriorità del culto. Il lettore frettoloso 
  o prevenuto pensa: polemica contro, l'esteriorità in nome dell'interiorità; 
  ciò che conta non sono le cerimonie ma la purezza del cuore; la vera religione 
  è la religione dell'interiorità, la religione dello spirito, non 
  dell'istituzione. Senonché il testo di Isaia e altri affini (Am 5,21-24; Os 
  6,6; Mi 6,6-8; Is 58, ecc.) non rifiutano il culto come tale, come espressione 
  esteriore della religiosità; essi denunciano la funzione mistificatoria che il 
  culto svolge in quanto falsa esteriorità, in quanto velo che copre le colpe 
  etiche e sociali, in quanto illusorio sostituto della giustizia e dell'amore 
  verso l'altro. Al culto esteriore non deve perciò subentrare un culto tutto 
  interiore; esso deve lasciar posto, invece, alla pratica della giustizia: il 
  testo appena citato continua: «Cessate di fare il male, imparate a fare il 
  bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia 
  all'orfano, difendete la causa della vedova» (v. 17). 
La vera religione, 
  il rapporto tra Dio e l'uomo stabilito secondo verità, non è sul piano 
  dell'esteriorità del culto ma non si esaurisce neppure in una interiorità 
  senza riferimenti alla realtà circostante; è nell'obbedienza operosa alla 
  volontà di Dio. E la colpa è la negazione di questa obbedienza: negazione 
  della volontà di Dio nei due congiunti e indissolubili significati del 
  termine: in quanto espressione della sua amorosa libertà e in quanto insieme 
  di effetti buoni che egli vuole. 
Ritroviamo così nella colpa la stessa 
  struttura di forma e contenuto che abbiamo individuato nell'esperienza etica. 
  Che è infatti la colpa se non il risvolto negativo di quell'esperienza? 
E 
  tuttavia riflettere sulla colpa non sarà una semplice ripetizione; vi sono 
  aspetti dell'eticità che risaltano al negativo meglio di quanto si rendano 
  riconoscibili nell'analisi della sua positività. 
  
La forma: «sarete come 
  dèi» 
  
Non c'è, forse, in tutta la 
  letteratura religiosa un testo che fissi l'essenza della colpa con la stessa 
  lucidità spirituale del racconto biblico di Gen 2-3. Più di uno studioso 
  ritiene che l'autore di questa pagina abbia qui ritratto, su scala universale, 
  quella vocazione all'alleanza che era il perno della coscienza e della vita di 
  Israele, e quel tradimento dell'alleanza di cui Israele è stato esecutore e 
  coscienza confessante. Bisogna però precisare che, mentre i testi riguardanti 
  l'alleanza mettono in primo piano l'esigenza e la promessa positiva legate ad 
  essa, e parlano della colpa soltanto in controluce, il racconto della Genesi 
  pone al centro la colpa e parla dell'alleanza di Dio con l'uomo soltanto come 
  sfondo di questa. Perciò questo testo ha un valore inestimabile in ordine alla 
  riflessione che vogliamo ora condurre. Dei due alberi che campeggiano nel 
  giardino di eden, a tenere la posizione centrale è l'albero della «scienza del 
  bene e del male», mentre l'albero della vita rimane come sullo sfondo; non 
  soltanto il primo è la condizione per accedere a questo, ma la narrazione 
  insegna che all'albero della vita l'uomo non ha avuto accesso perché si è 
  abbandonato alla seduzione che emana dal primo. 
In che consiste questa 
  seduzione? da che cosa è tentato l'uomo nel giardino? Non dal desiderio di 
  avere di più, perché il mondo è su misura dei suoi desideri: l'eden è la 
  compiuta armonia dell'uomo con se stesso, con gli altri (rappresentati nella 
  sua compagna) e con la natura. Non è che Adamo (cioè l'uomo, figlio della 
  terra) voglia un mondo più perfetto: è che quel mondo egli lo vuole come cosa 
  sua, come cosa su cui imprimere il sigillo del suo dominio. Contro chi? Contro 
  Dio, che ne è l'unico vero signore. «Diventare come dèi» e «conoscere il bene 
  e il male» sono due formule affini, il cui significato è la volontà di 
  disporre del mondo senza altra misura che il proprio arbitrio. L'alternativa 
  dinnanzi alla quale Adamo si trova è la seguente: avere tutto il mondo per 
  fruirlo, ma ricevendolo dalla mano di Dio e riconoscendone questa sostanza di 
  dono; oppure avanzare la propria signoria sul mondo negandone l'appartenenza a 
  Dio.  
Ma si può approfondire ulteriormente quest'alternativa 
  precisando che cosa significa la volontà di signoria dell'uomo. L'atto con cui 
  l'uomo sostituisce l'obbedienza a Dio con la volontà di affermare se stesso 
  può essere inteso come una radicale etica del progetto, che cancella dal mondo 
  il bene e il male nella più propria accezione etica per convertirlo in un 
  paesaggio di beni da gestire, trasformare e fruire a piacimento. Ma il 
  racconto edenico sembra dire qualcosa di diverso: la colpa come 
  autoaffermazione non cancella il bene e il male ma se ne appropria 
  inglobandoli nella volontà umana, così che l'uomo non si trova al di là del 
  bene e del male, in una sfera di libera e innocente progettualità, ma 
  rivendica di esserne signore e giudice: ciò che egli compie è giusto e buono 
  per definizione, egli è sempre nel proprio diritto, essendo ormai il diritto 
  un suo attributo, il qualificatore della sua soggettività. In questo senso 
  egli ha la «scienza» del bene e del male, e li piega per definizione alla 
  propria volontà; in questo senso egli diventa un essere divino: ciò di cui ha 
  espropriato Dio non è l'onnipotenza ma la giustizia; non più Dio ma l'uomo è 
  il giusto per definizione.  
L'essenza della colpa non è lo scontro 
  frontale tra l'uomo-progetto e l'esigenza del giusto, ma la cattura di 
  quest'esigenza entro il progetto. L'uomo diventa signore del mondo non perché 
  riesca a disporne effettivamente, a piegarlo realmente ai propri disegni 
  (questo avverrà soltanto, in misura sempre più ampia, con il sorgere della 
  tecnologia), ma perché si arroga il diritto di farlo: signore di principio, 
  prima e oltre ogni potere di fatto, perché appropriandosi del bene ha 
  confiscato, il principio ordinatore ultimo di tutta la realtà. 
Si capisce 
  allora perché la colpa non possa restare un fatto episodico ma diventi come la 
  nuova essenza della soggettività e sia perciò di natura sua irredimibile. La 
  colpa non è deviazione da un bene riconosciuto e cedimento a un male 
  confessato: questa dimensione di debolezza, che pure vi è presente, non ne è 
  che l'increspatura superficiale. Il cuore della colpa è l'irriconoscimento del 
  bene e l'inconfessione del male, il rovesciamento della loro verità, così che 
  l'uomo colpevole è per principio incapace di vedersi tale: la colpa cancella 
  la coscienza di se stessa, è per logica interna oblio di sé.  
E 
  perciò essa è pure insuperabile: partita liberamente, la scelta colpevole 
  inchioda l'uomo nel gesto di compierla, diventa la sua seconda e cattiva 
  natura, il suo destino. Fatalità e colpa si coniugano non, come voleva la 
  tragedia greca, a causa di un destino cinico e baro di cui l'uomo è vittima, 
  ma a causa del gesto letteralmente suicida con cui la libertà si petrifica in 
  necessità. in questo senso Ezechiele parla del «cuore di pietra» del peccatore 
  (Ez 36), e Paolo della impotenza a fare il bene e della necessità di fare il 
  male come disperata situazione della storia umana (Rom 7). Anche le 
  intelligenze etiche più acute arriveranno a percepire questa condition 
  humaine e ne parleranno (è il caso di Kant) in termini di male 
  radicale. 
  
L'anti-creazione 
  
Se il bene è il principio 
  ordinatore del mondo, nella colpa c'è una parvenza di vittoria: appropriatosi 
  del bene, ora l'uomo potrà riorganizzare secondo la propria volontà i rapporti 
  che costituiscono il mondo. Alla fine del racconto sulla colpa Dio dice: 
  «l'uomo è diventato come uno di noi» (3,22), e lo allontana dal giardino di 
  eden. Vittoria apparente e sconfitta reale: la cacciata dall'eden dispiega in 
  termini narrativi la logica della colpa. C'è una potenza, nella colpa umana: 
  essa non lascia le cose come sono, non è uno sterile e ridicolo conato, ma è 
  potenza distruttiva, che sovverte l'ordine del mondo. Perciò quello che il 
  racconto esprime come cacciata è la conseguenza ineludibile e intrinseca della 
  colpa: l'uomo è fuori dell'eden perché l'eden non esiste più; egli l'ha 
  dissolto. 
L'appropriarsi del bene come principio ordinatore del mondo 
  contiene un'insanabile contraddizione: nell'istante in cui il mondo diventa 
  dominio dell'uomo, gli si spezza tra le mani. Il mondo edenico è perfetto 
  perché vi si concreta l'amore di Dio,. vi si materializzano la sua grazia che 
  dona e la sua giustizia che appella. Se al mondo si sottrae questo principio, 
  non si ha più la creazione ma l'alienazione. La pagina di Gen 3 è magistrale 
  nel presentare questo «effetto anticreazione» della colpa. Agli occhi che 
  brillano di concupiscenza per il frutto proibito (la «scienza del bene e del 
  male») subentrano gli occhi che scoprono vergognosi la nudità diventata 
  squallida; alla dolcezza del lavoro e della maternità succede la loro fatica 
  di sudore e di doglia; lo stupore dell'uomo di fronte alla sua donna lascia il 
  posto alla denuncia spoglia di solidarietà. E' l'insieme dei rapporti - con se 
  stesso, con il mondo, con l'altro - che si sfascia e precipita nel caos, non 
  per una naturale catastrofe ma per l'irruzione della logica della colpa. Se 
  l'alleanza era il connubio tra la volontà giusta e il mondo riuscito (tra la 
  Legge e la terra promessa), la colpa è il divorzio tra mondo e giustizia e 
  perciò è il fallimento del mondo. 
Se l'orizzonte di giustizia conferisce 
  alle realtà create la loro dignità, l'appropriazione di quell'orizzonte da 
  parte del soggetto umano le priva di quella dignità: il loro valore sta tutto 
  nella disponibilità a servire i fini che ognuno assegna loro. La giustizia 
  introiettata e capovolta non si raccoglie nell'intimità del soggetto ma si 
  irradia in progetti di dominio, dove il soggetto cerca di disporre realmente 
  di ciò che ha un rapporto, significativo con la sua vita, intende assegnare 
  scopi e funzioni, distribuire ruoli e compiti. Esso diventa così la fonte di 
  manomissione dell'ordine di creazione, diventa un a priori di violenza. Per 
  questo soggetto, persone e cose sono strumenti di un potere incondizionato; e 
  poiché le persone possono resistere a questa cattura, esse diventano oggetto 
  di un pregiudiziale atteggiamento di sospetto, che basta un nulla a 
  trasformare in ostilità. La storia di Caino e Abele, che segue immediatamente 
  quella della colpa edenica (Gen 4), ne evidenzia questa logica di inimicizia 
  che fa ormai della storia il campo aperto della guerra tra gli uomini. 
  
Cultura della pace e 
  ricostruzione dell'etica 
  
S'è visto come un profeta e un 
  apostolo abbiano disegnato la morte spirituale dell'uomo con l'immagine del 
  cuore di pietra e con il concetto di impotenza a fare il bene. Ma questa 
  denuncia della situazione senza uscita dell'individuo e del genere umano non è 
  che lo sfondo di un messaggio di salvezza: Dio promette e poi dona realmente 
  nel Signore Gesù il suo Spirito, come «cuore nuovo», come principio della 
  nuova soggettività. Se alla base dell'eticità sta originariamente l'alleanza 
  tra Dio e l'uomo, alla base della sua rinascita sta lo Spirito come alleanza 
  rinnovata; e come la prima alleanza è ispirata dall'amore divino nella sua 
  figura di assoluta gratuità, così l'alleanza in Cristo è suggerita dallo 
  stesso amore fattosi volontà di perdono e di riconciliazione nei confronti 
  dell'uomo peccatore. 
Questo discorso è teologico, non direttamente etico. 
  Ma esso è il fondamento dell'etica cristiana; non solo: ha, almeno come 
  ipotesi di riflessione, un valore che va al di là del limite confessionale: 
  quello che per il cristiano è l'evento reale avveratosi nella morte e 
  resurrezione di Gesù, per la coscienza etica generale può avere almeno la 
  funzione di un simbolo della rigenerazione del soggetto. Esperienze come 
  quelle del rimorso, del pentimento, della conversione morale testimoniano il 
  significato universale del tema della riconciliazione: come nuova presenza del 
  principio etico (comunque questo principio venga poi inteso) e dell'alterità 
  umana che ne è il contenuto centrale. Se in un profilo ideale dell'etica il 
  primo passo è il dare solidarietà all'altro uomo come essere di bisogno, in 
  una riflessione più consapevole delle dinamiche storiche della relazione il 
  primo passo è sovente (tenderei a pensare: sempre, almeno implicitamente) il 
  fare pace con lui, come presupposto della stessa solidarietà. Questo punto 
  merita considerazione. 
Sono certamente rari i casi in cui si è chiamati a 
  perdonare un'offesa precisa e grave, che ha portato un danno irreparabile 
  (come l'uccisione di un familiare) o comunque devastante (come una calunnia 
  ampiamente creduta); più frequenti sono quelli in cui bisogna trovare l'umiltà 
  di fare il primo passo per ristabilire un rapporto compromesso da un malinteso 
  o da un conflitto. Ma qui si vuol richiamare l'attenzione su quel diaframma di 
  inimicizia diffusa che ci avvolge e ci accompagna, e che un nulla basta a 
  trasformare in ostilità attuale, aperta o sorda, che esplode attivamente o 
  implode come risentimento senza sbocco. Se è vero che, nella logica del 
  «diventare come dèi», gli altri ci appaiono soltanto nell'alternativa di 
  strumenti od ostacoli dei nostri progetti, di servi o antagonisti, vuol dire 
  che il nostro atteggiamento nei loro confronti è sempre in bilico tra l'attesa 
  interessata e la diffidenza, tra la compiacenza per il consenso immaginato e 
  il sospetto per il dissenso che può profilarsi. Con, in più, una valutazione 
  morale: se l'altro resiste o dissente, non è soltanto un avversario, un 
  concorrente; è un nemico, che così facendo si comporta ingiustamente, ci fa 
  torto, si mette dalla parte del male. Il sentimento dell'altro come nemico è 
  come un a priori storico, il precipitato di un gesto archetipico: si pensi 
  alla già ricordata storia di Caino, dove l'innocente riuscita del fratello 
  scatena la gelosia omicida (Gen 4); si pensi alla sedimentazione linguistica 
  di formule come « fare giustizia» o «giustiziare», dove la giustizia come 
  necessità etica di amare l'altro nel suo bisogno di vita si è pervertita nella 
  necessità di vendicarsi di lui. 
Ecco perché riconciliarsi con l'altro è il 
  primo atto della ricostruzione etica: è l'atto che ribalta quella che, dentro 
  una storia di colpa e di violenza, è diventata la condizione di partenza 
  dell'agire umano, il presupposto tacito che l'avvelena in radice. Non è 
  necessario che tale riconciliazione avvenga nella forma dichiarata della mano 
  tesa; anzi, essa si compie normalmente nel segreto della coscienza, perché il 
  rapporto con l'altro, prima di raggiungerlo nella sua realtà, si gioca 
  attraverso la mediazione della sua immagine dentro di noi. Riconciliarsi è 
  dunque abbattere l'immagine di inimicizia, è superare la diffidenza e la paura 
  pregiudiziali, è guardare non al nemico che egli appare (e che forse 
  effettivamente è) ma all'essere di bisogno che vive in lui e all'amico che vi 
  potrebbe vivere.  
E' questa, nel senso radicale, una cultura di 
  pace. 
Nell'accezione più ristretta questa formula indica un nuovo modo 
  di considerare la guerra, mettendone in luce l'intima contraddizione rispetto 
  agli scopi che essa vuole raggiungere, ed elaborando una metodologia non 
  violenta di composizione dei conflitti. Ma la pace è, più in generale, l'atto 
  inaugurale del mondo nuovo in una storia che è bellum omnium contra 
  omnes, dove l'inimicizia è la figura determinata del «peccato originale», 
  e l'intossicazione sul nascere di ogni relazione interumana. 
Lo è sempre 
  stata; ma noi siamo oggi più sensibili a questa dimensione del coesistere, 
  perché la possibilità di un'apocalisse atomica ci ha indotti a dubitare della 
  razionalità della violenza come via di soluzione delle ingiustizie. Perciò 
  anche il carattere ri-fondativo della pace, che è stato sempre operante nei 
  confronti dell'etica come vissuto, emerge oggi anche come la nuova parola 
  dell'etica come discorso. 
  
Desacralizzazione della 
  violenza e pace come ricostruzione dell'etica 
  
La razionalità parziale della 
  violenza è stata il suo essere motivata dalla condizione generale di penuria 
  del genere umano nella sua storia millenaria. Lì dove i beni scarseggiano, 
  dove la loro acquisizione da parte di alcuni significa l'inevitabile 
  sottrazione ad altri, si impone come principio di sopravvivenza il mors tua 
  vita mea. 
Ma a questo aspetto funzionale della violenza se ne è sempre 
  accompagnato un altro: la sua dura necessità è stata considerata un momento 
  intrinseco dell'ordine cosmico, del sacro; questo si reintegra nella sua 
  pienezza soltanto attraverso il sacrificio di vite, anche umane: immolare 
  vittime sacrificali diventa un atto rituale, non meno che passare a fil di 
  spada i nemici della collettività. Neppure il Dio d'amore della tradizione 
  ebraica si salva da questa logica: perché l''amore che egli manifesta. viene 
  interpretato in chiave di scelta esclusiva, diventando così principio di 
  separazione e, se è il caso, di aggressione verso l'esterno; principio che 
  l'islamismo adotta, dilatandone anzi i termini esecutivi. 
Malgrado la 
  parola evangelica che annuncia il Dio di pace, anche la tradizione cristiana 
  cede alla tentazione di incorporare la violenza al sacro, di praticarla in 
  nome di Dio: le crociate e, più tardi, le guerre di religione nonché l'ambiguo 
  connubio di croce e spada in più di una pagina del Nuovo Mondo sono 
  testimonianza di questo tradimento.  
Forse la religione è destinata a 
  generare fanatismo e, di conseguenza, violenza? Per garantire la pace non si 
  dovrà allora dare al convivere una base laica? E' quanto pensa la coscienza 
  moderna; che di fatto relega la religione nello spazio del privato, riservando 
  alla «ragione» il diritto e il compito di ordinare la coesistenza tra gli 
  abitanti della specie umana. Ma la ragione fallisce nelle due principali 
  figure di cui essa si riveste. Nella figura liberale, dove la maggiorazione 
  dell'idea di diritto scatena un seguito di guerre che devastano l'Europa più 
  di quanto avessero fatto le lotte religiose; e nella figura comunista, dove la 
  violenza rivoluzionaria viene esaltata e praticata come principio maieutico 
  della nuova e definitiva umanità. In ambedue i casi la violenza torna a 
  rivestire una legittimazione che va oltre la sua eventuale funzionalità, e che 
  pretende di renderne le ragioni e le forme esecutive superiori a ogni giudizio 
  etico, indiscutibili perché ancora reticentemente improntate al sacro. 
  
L'ultima figura della sacralizzazione della violenza è la sua 
  privatizzazione, che la mette al servizio degli interessi individuali o di 
  gruppo, non confessati come tali ma avvolti nella veste nobile del diritto, 
  anzi dei «miei sacrosanti diritti». 
In realtà, tutte queste figure non 
  sono che la legittimazione e la nobilitazione posticcia di quella violenza 
  radicale che è il «diventare come dèi», il confiscare alla propria volontà la 
  «conoscenza del bene e del male», l'ergersi a soggetti e criteri del giusto. 
  Questa. consapevolezza dà, per contrasto, alla logica della pace quella 
  posizione di nuovo principio che, smascherato e sradicato l'antico, può 
  servire con più intelligenza e forza il bene. Essere «pacifici», nel senso 
  vero di «costruttori di pace» (Mt 5) significa anche essere ricostruttori 
  dell'etica.