Mutamenti normativi

 

Mutamenti normativi

di Luca Bresciani e Francesca Ferradini

 

5.1 - Un bilancio fra luci e ombre

 

La sensazione suscitata da un esame complessivo dei provvedimenti legislativi che hanno interessato il settore penitenziario nel corso della legislatura appena trascorsa è senza dubbio quella di una politica di piccolo cabotaggio o, meglio ancora, di una "navigazione a vista", che ben poco ha a che vedere con un disegno organico di riforma.

E pensare che la stagione del governo di centrosinistra sembrava essersi aperta, sotto questo punto di vista, con i migliori auspici. Un convegno organizzato da Antigone all'indomani della vittoria dell'Ulivo aveva rappresentato l'occasione, invero, per «una - parziale, modesta - espressione di governo» che si era inteso far passare attraverso «la riflessione di significative esperienze di presenza e di azione nel carcere, le espressioni di un dibattito dottrinale nella cultura giuridica democratica, l'apporto di chi ha responsabilità di direzione politica». Quello non era stato, insomma, «luogo per presentare problemi e chiedere interventi a rappresentanti di forze politiche», bensì «luogo della costruzione di azioni politiche». Ma, analizzando a ritroso il faticoso andamento della XIII Legislatura, si è indotti a pensare che quell'idea di innovare profondamente le modalità con cui attendere al governo di una realtà così complessa come quella carceraria sia rimasta nel libro dei sogni e abbia prodotto solo l'illusione di una stagione nuova, che, a questo punto, guardando alle cose con l'occhio cinico della Realpolitik, si presta solo a essere annoverata nel lungo catalogo delle occasioni perdute dalla sinistra.

Certo, non sono mancati interventi che, riparando evidenti lacune dell'ordinamento penitenziario, hanno imposto il rispetto dell'istanza umanitaria a discapito di una logica della pena carceraria, la quale, per sua stessa natura, «si colloca lungo un continuum che ha ad una sua estremità la morte, e dalla morte complessivamente prende senso», dal momento che «ogni pena "uccide" almeno un po': se no, non sarebbe tale…"uccide" risorse economiche, "uccide" libertà, "uccide" tempo, "uccide" speranza». Come non ricordare, dunque, da questo punto di vista, la L. 231 del 1999, con la quale si è cercato di porre fine alla travagliata vicenda - che ha visto scendere in campo anche la Corte costituzionale con le sentenze 438/95 e 439/95 - del trattamento da riservare ai detenuti che versino in condizioni di salute particolarmente gravi, perché afflitti da patologie non adeguatamente curabili in carcere. Né si può dimenticare la L. 40 del 2001 con la quale si è tentato di superare definitivamente (ancorché al termine di una travagliata vicenda, nel corso della quale il sottosegretario alla Giustizia si è perfino impegnato in un lungo digiuno per sollecitare l'approvazione del disegno di legge) la logica custodialistica, per offrire una più adeguata protezione - anche attraverso l'ampliamento dell'ambito applicativo del lavoro all'esterno - al rapporto madre-figli. Ancora, deve essere segnalata la L. 193 del 2000, con la quale ci si è impegnati a favorire il lavoro dei detenuti (che, già nella prospettiva coltivata dal legislatore del 1975, viene a essere apprezzato come elemento essenziale, se non addirittura principale, del trattamento rieducativo), incentivando le offerte provenienti dalle cooperative sociali e dalle imprese private attraverso il ricorso ad agevolazioni contributive.

È sul piano delle riforme strutturali che è venuta a mancare, però, una decisa sterzata rispetto alla tradizionale politica del "giorno per giorno". Il progetto di una nuova gestione della medicina penitenziaria lasciato a illanguidire in una sperimentazione senza fine, se non semplicemente rimasto sulla carta. La rinuncia a un qualsiasi disegno di razionalizzazione dei differenti strumenti di gestione penitenziaria della criminalità organizzata, che, anche tenendo conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e delle osservazioni avanzate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, puntasse seriamente a un'attenta riconsiderazione dell'intero impianto della disciplina derogatoria. Un riordino dell'Amministrazione che si è voluto far passare anche attraverso l'istituzione di un ruolo speciale di direttivi di polizia, così rischiando di stravolgere il disegno di riforma del 1990, che non a caso affidava la gestione delle attività di sicurezza ai direttori e ai dirigenti amministrativi, i soli in grado di garantire una particolare attenzione al rispetto dei diritti fondamentali e alla umanizzazione della pena carceraria. D'altra parte, non può non essere dato il giusto rilievo all'ampio e coraggioso intervento di ammodernamento operato con il nuovo regolamento di esecuzione, meritevole, senza dubbio, di essere apprezzato come prezioso strumento per superare le inattuazioni del testo precedente, così da «porre le condizioni positive per aprire il carcere ad attività lavorative, scolastiche, formative, trattamentali in genere», cessando di essere il luogo «dell'inerzia, dell'immobilità, delle chiusure nelle chiusure». Viene da chiedersi, però, quale sia lo spazio per un'effettiva praticabilità delle trasformazioni che un tale modello di regime carcerario presuppone: le nuove frontiere del welfare state rendono credibile che l'adeguamento ai modelli architettonici e alle nuove aperture delle opportunità trattamentali possano essere compiute entro il termine, di per sé fin troppo ampio, dei cinque anni?

Infine, anche la stagione della sensibilità ai valori costituzionali e sovranazionali è venuta meno, per lasciare spazio - et pour cause, essendosi ormai giunti alla fine della legislatura, quando più pressante si è fatta la necessità di lanciare messaggi simbolici all’opinione pubblica in vista della nuova consultazione elettorale - a una vera e propria escalation del sistema punitivo, nel cui contesto non poteva mancare, naturalmente, un intervento manipolativo sulla disciplina penitenziaria. Si arricchisce, pertanto, il catalogo delle figure delittuose di cui è composto l'art. 4 bis; si opera la tanto "sospirata" proroga del cosiddetto carcere duro; si ridisegna il meccanismo (già introdotto con la legge Simeone - Saraceni) di accesso immediato alle misure alternative nel dichiarato intento di ripristinare la "certezza sanzionatoria". Si decide di dare vita, infine, a forme di controllo mediante monitoraggio elettronico, così da verificare il rispetto delle prescrizioni imposte a detenuti che si trovino a usufruire di misure alternative alla detenzione. Prevale, insomma, l'idea che sia buona politica quella di correre dietro a mai sopite istanze di difesa sociale, facendosi carico di sedare l'allarme suscitato da episodi di cronaca che continuano ad avere per protagonisti i soliti beneficiari del clima indulgenziale favorito dalla legge Gozzini e sconsideratamente supportato da certi settori della magistratura di sorveglianza.

 

5.2

Leggi e sentenze 2000 - 2001

 

5.2.1. Riconoscimento del diritto al riposo

annuale retribuito al detenuto lavoratore

 

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 158 del 22 maggio 2001 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 20 co. 16 della legge n. 354 del 1975 (OP), nella parte in cui non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che presta la propria attività lavorativa alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. «Il diritto al riposo annuale integra una di quelle posizioni soggettive che non possono essere in alcun modo negate a chi presti attività lavorativa in stato di detenzione. La Costituzione sancisce chiaramente (art. 35) che la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e (art. 36 co. 3) che qualunque lavoratore ha diritto anche alle ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi [. . .]. La mancanza di tale esplicita previsione nella norma denunciata - che pur garantisce il limite di durata delle prestazioni secondo la normativa ordinaria, il riposo festivo nonché la tutela assicurativa e previdenziale - pone la disposizione stessa in contrasto con i principi costituzionali».

La sentenza in esame può essere intesa come il momento di congiunzione di due importanti filoni giurisprudenziali concernenti rispettivamente il tema del lavoro carcerario e quello dei diritti riconoscibili al soggetto ristretto in carcere, o meglio, dei diritti che sopravvivono allo stato di detenzione.

All'interno della legge del 1975 la questione delle ferie si articola diversamente a seconda si tratti di lavoro extramurario, svolto cioè all'esterno del carcere dai beneficiari della misura prevista dall'art. 21 OP, o di lavoro intramurario, svolto alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Per quanto concerne il lavoro extramurario è tuttora presente nel regolamento di esecuzione una disposizione che attribuisce ai lavoratori de quibus «i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti all'esecuzione della misura privativa della libertà». Anche al lavoro intramurario, seppur inquadrabile come "rapporto speciale di lavoro" va riferito il riconoscimento dei diritti al detenuto lavoratore, chiaramente in un'ottica di compatibilità con le regole cardine che presiedono all'esecuzione della pena. L'illegittimità dell'art. 20 è riferita sia all'art. 27 co. 3, sia all'art. 36 co. 3 della Costituzione. La Corte non nega infatti la specificità del lavoro intramurario, ma aggiunge che tale specificità non vale ad affievolire il contenuto minimo che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato.

La Corte ha affrontato anche il profilo inerente la modalità di fruizione delle ferie e, dopo aver confermato la compatibilità con lo stato di detenzione, suggerisce la messa a punto di una normativa diversificata in ragione delle diverse situazioni lavorative.

Non si fa, invece, menzione nella sentenza della cosiddetta indennità sostitutiva delle ferie, perché si ritiene opportuno esaminarla a parte, pur ravvisando preliminarmente un rapporto di sussidiarietà tra l'effettivo godimento delle ferie e la suddetta prestazione indennitaria.

 

5.2.2. Modifiche all'ordinamento penitenziario con la legge

sulla repressione del contrabbando dei tabacchi lavorati

 

La legge n. 92 del 19/3/2001 all'art. 6 contiene modifiche all'art. 4 bis co. 1 della legge n. 354/75. I reati associativi previsti dall'art. 291 quater del CP sono stati inseriti tra i delitti per i quali determinati benefici penitenziari possono essere concessi solo quando vi sia stata collaborazione con le forze di polizia (ex. art. 58 ter OP) e per i quali, ove la collaborazione risulti oggettivamente irrilevante, siano state riconosciute determinate circostanze attenuanti e sia stata accertata l'assenza attuale di collegamenti con la criminalità organizzata.

Il delitto di contrabbando di tabacchi lavorati esteri, aggravato ex art. 291 ter del OP, è stato inserito tra i delitti per i quali i benefici anzi detti possono essere concessi solo se non vi siano elementi tali da far ritenere sussistenti collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva.

 

5.2.3. L'ingresso nel nostro ordinamento del braccialetto elettronico

 

Con il D.L. n. 34/2000, convertito con la legge n. 4/2001, è stato introdotto nel nostro ordinamento il braccialetto elettronico, già oggetto di discussione nel luglio 2000 in sede di approvazione del "Piano di Azione per la Giustizia". Il legislatore non ha inteso con esso creare una nuova ipotesi di misura alternativa al carcere, ma introdurre una nuova forma di controllo al fine di consentire il rispetto degli obblighi imposti ai soggetti ammessi alle misure alternative e agli arresti domiciliari. La legge ha modificato l'ordinamento penitenziario introducendo il comma 4 bis all'art. 47 ter, inoltre ha modificato il CPP introducendo il comma 1 bis all'art. 275, l'art. 275 bis, il comma 1 ter all'art. 276 e il comma 1 bis all'art. 284. Il nuovo art. 275 bis CPP che afferma che il giudice nel disporre la misura degli arresti domiciliari anche la sostituzione della custodia cautelare in carcere, se lo ritiene necessario prescrive procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici. Il riformato art. 47 ter co. 4 bis OP prevede che «nel disporre la detenzione domiciliare il Tribunale di Sorveglianza, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte delle autorità preposte al controllo, può prevedere modalità di verifica per l'osservanza delle prescrizioni imposte anche mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici». La legge in esame demanda, poi, al D.M. 02/02/2001 (pubblicato sulla G.U. del 15/02/2001 n. 38) la determinazione tecnica delle modalità di installazione e l'uso delle apparecchiature elettroniche, nonché l'individuazione dei tipi e delle caratteristiche tecniche di tali mezzi elettronici. Lo strumento elettronico di controllo sarà applicabile ai soggetti ammessi alla misura degli arresti domiciliari o della detenzione domiciliare. L'applicazione della misura è subordinata al consenso dell'interessato, consenso della cui "volontarietà" è lecito dubitare dal momento che un suo eventuale dissenso significherebbe automaticamente l'ingresso in carcere. Inoltre come autorevole dottrina ha evidenziato l'alternativa al carcere potrebbe essere preclusa non a causa delle entità delle esigenze cautelari ma solo perché la polizia giudiziaria potrebbe non avere la disponibilità degli strumenti tecnici necessari. Le disposizioni nulla dicono invece in ordine alla durata del controllo a distanza, una volta che lo stesso sia stato applicato sarà la pratica applicazione dell'istituto a dire se è psicologicamente sostenibile una protrazione per lungo periodo. Le perplessità determinate dall'uso del braccialetto elettronico non sono poche essendo difficile riuscire a coniugare la continuità del controllo e l'assenza di una pregnante invasività della sfera personale. La legge prescrive che i dati non concernenti l'osservanza delle prescrizioni saranno periodicamente distrutti ma i dubbi e le perplessità permangono.

 

5.2.4. Modifiche alla disciplina sul trattamento dei collaboratori di giustizia

 

La legge n. 45 del 13/2/2001 recante disposizioni «per la protezione e per il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza» ha apportato rilevanti modifiche al D.L. n. 8 del 1991.

La nuova normativa è improntata a criteri di maggiore rigorosità sia riguardo ai soggetti cui possono applicarsi i benefici e le misure di protezione sia riguardo alle garanzie di trasparenza dei meccanismi che presiedono all'intera disciplina. Le modifiche attengono alle modalità di accesso ai benefici penitenziari e alla tipologia di questi ultimi.

In base alla nuova normativa l'area dei benefici penitenziari riguarda solo soggetti condannati per delitti commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico ovvero per uno dei delitti di cui all'art. 51 co. 3 bis CPP.

Con la legge in esame si introduce un'unica tipologia di benefici penitenziari applicabili ad ogni collaboratore, l'unica differenza ancora presente riguarda la competenza per la loro applicazione, che per i collaboratori ammessi a speciale programma di protezione rimane affidata al Magistrato di Sorveglianza di Roma. Ai sensi dell'art. 16 nonies co. 1 gli organi giurisdizionali immediatamente operativi potranno in prima istanza valutare l'importanza e il ruolo del collaboratore nell'organizzazione criminosa. L'art. 14 ha introdotto nel testo del D.L. 8/1991 all'art. 16 quater la più interessante innovazione consistente nella formazione di un atto testualmente denominato «verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione» che sostituisce il vecchio verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione. Il proposito del legislatore è quello di far sì che l'ambito delle conoscenze del soggetto che sceglie di collaborare sia cristallizzato in tempi brevi e determinati, in modo da evitare una cosiddetta collaborazione a rate. Il verbale deve essere redatto entro 180 gg. dalla manifestazione della volontà di collaborare.

La condotta collaborativa generativa del diritto alla protezione non deve più essere indispensabile ma di "notevole importanza" (criterio che fornisce più ampi margini di discrezionalità), nuova e completa. La valutazione circa l'importanza del contributo spetta all'autorità amministrativa procedente la quale può condizionare il tipo di misura da adottare per evitare di esporre il collaboratore al pericolo reale e concreto per la propria incolumità. Presupposti per l'ammissione alle misure premiali (la legge infatti ribadisce il carattere premiale dei benefici penitenziari ai collaboratori) sono: il ravvedimento, l'esclusione della sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e la espiazione di un periodo minimo di pena, che è l'innovazione più rilevante in materia di benefici penitenziari (1/4 della pena comminata o 10 anni in caso di condanna all'ergastolo) .

La legge n. 45 riduce notevolmente le misure alternative concedibili ai collaboratori: l'art. 16 nonies fa riferimento unicamente alla liberazione condizionale e alla detenzione domiciliare. È escluso l'affidamento in prova al servizio sociale, che presentava problemi di compatibilità con lo status di collaboratore di giustizia. La liberazione condizionale invece rappresenta una novità assoluta e si presenta come momento finale del disegno di recupero del condannato alla società civile. La legge ha predisposto un meccanismo di isolamento assoluto del collaboratore ammesso alle misure premiali, al fine di impedire il verificarsi di condotte leggibili come «concertazione delle dichiarazioni». Si vieta inoltre ogni tipo di corrispondenza e di contatti. Auspicabile un'interpretazione della norma in termini di umanità tale che il divieto non investa la corrispondenza e gli incontri con i familiari.

In riferimento all'istituto dei colloqui investigativi di cui all'art. 18 bis dell'OP l'art. 16 quater co. 5 ha introdotto tra gli obblighi imposti al collaboratore anche quello di riferire di eventuali colloqui investigativi, la cui inottemperanza comporterebbe una ricaduta sul piano processuale con riguardo all'attendibilità del dichiarante. Il compito di garantire la sicurezza del collaboratore spetta principalmente all'amministrazione penitenziaria.

In chiusura si ricorda l'art. 26 della suddetta legge che stabilisce che le norme per la protezione dei collaboratori e per il trattamento di coloro che collaborano con la giustizia si applicano anche a coloro che hanno manifestato la volontà di collaborare prima dell'entrata in vigore della legge stessa. Nei confronti di tali soggetti la redazione del verbale illustrativo della collaborazione dovrà avvenire entro 180 gg. dall’entrata in vigore della legge. Di fronte ai molti dubbi interpretativi che la legge pone si auspica che le prime pronunce giurisdizionali riescano a tracciare tempestivamente le linee guida di applicazione della nuova normativa.

 

5.2.5. La nuova legge sulle detenute madri

 

La legge 8/3/2001 n. 40 titolata «Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori» viene a collocarsi in un contesto penale e penitenziario che non offre al rapporto madre-figli una protezione adeguata al ruolo primario che l'ordinamento riconosce ai beni quali la maternità e l'interesse del minore.

La legge persegue come obiettivo principale l'abolizione della cosiddetta "carcerizzazione dell'infante", ampliando istituti quale il rinvio dell'esecuzione della pena. Inoltre nell'intento di assicurare alla prole delle donne condannate un'assistenza materna continuativa all'interno di un contesto familiare il più normale possibile e fino al compimento del decimo anno di età, introduce due nuovi istituti: la detenzione domiciliare speciale e l'assistenza all'esterno ai figli minori. In particolare all'art. 1 della legge si disciplinano gli istituti del differimento obbligatorio e facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva. Per il differimento obbligatorio è stata ampliata la portata applicativa dell'istituto con l'innalzamento dell'età del figlio, rilevante ai fini del rinvio obbligatorio, da sei mesi ad un anno, con la nuova formulazione dell'art. 46 CP co. 1 n. 2. Nella modifica del differimento facoltativo dell'esecuzione della pena si considera la condizione della madre di prole di età inferiore a tre anni condannata ad una pena detentiva, sostituendo il primo comma n. 3 dell'art. 47 CP. Le cosiddette esigenze di sicurezza hanno portato a ridurre la portata applicativa della disposizione e all'aggiunta del quarto comma dell'art. 47 CP, che relativamente al rinvio facoltativo dell’esecuzione dispone che il provvedimento «non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti». La possibilità di un rinvio dell'esecuzione della pena è volta a garantire migliori condizioni di vita al bambino in coerenza con lo slogan della riforma: "mai più bambini in carcere". Il rinvio dell'esecuzione, sia esso obbligatorio o facoltativo, non è applicabile al padre detenuto a differenza degli altri due istituti introdotti dalla legge.

L'art. 5 della legge, al fine di assicurare la continuità della funzione genitoriale, introduce un nuovo istituto ampliativo della misura del lavoro all'esterno: l'assistenza all'esterno dei figli minori. Con la suddetta misura si riconosce alla cura dell’assistenza dei figli di età non superiore a dieci anni lo stesso valore speciale e la stessa potenzialità risocializzante dell’attività lavorativa. L'art. 5 opera un rinvio alle condizioni previste dall'art. 21 OP: la misura difatti è applicabile anche a persone condannate a pena per uno dei delitti di cui all'art. 4 bis co. 1 OP e solo dopo l'espiazione di 1/3 della pena e comunque di non oltre 5 anni. L'art. 3 della legge, che inserisce l'art. 47 quinquies OP, ha introdotto il nuovo istituto della detenzione domiciliare speciale, che mantiene significativi punti di contatto con il sistema delle misure alternative. L 'istituto in commento ha natura sussidiaria dal momento che risulta applicabile solo «quando non ricorrono le condizioni di cui all'art. 47 ter». La misura insomma si pone come un'ulteriore possibilità per la donna condannata quando non sono applicabili gli altri benefici penitenziari. La donna condannata che sia madre di prole che, all'atto della richiesta, abbia meno di 10 anni, può accedere alla misura «quando vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli» e solo «dopo l'espiazione di almeno 1/3 della pena ovvero dopo l'espiazione di almeno 15 anni nel caso di condanna all'ergastolo». Il terzo requisito è di ordine negativo non dovendo sussistere in concreto il pericolo di commissione di ulteriore delitti. Il legislatore sembra voler inserire la misura nell'alveo delle tradizionali misure alternative (quali l’affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà), richiedendo il raggiungimento di una affidabilità esterna della donna condannata. Per le pene di media e rilevante entità la nuova misura si profila come istituto applicabile dopo aver percorso le tradizionali fasi del trattamento e dopo aver usufruito del lavoro all'esterno. Un ruolo rilevante nell'esecuzione della misura è svolto dai servizi sociali che devono «aiutare le persone, agevolandone il reinserimento e l'adattamento alla vita sociale»; ma la loro attività non può comportare maggiori oneri per il bilancio dello Stato. Problematica è la previsione concernente «l'assenza senza giustificato motivo per non più di 12 ore». Innanzitutto non si precisa da quale momento decorrerà il termine dell'assenza, presumibilmente dalla scoperta dell'assenza della persona dal domicilio. Inoltre la nozione di "giustificato motivo" è alquanto generica e sarà di certo oggetto di contrapposte interpretazioni nella prassi. La L. 40 prevede anche per il padre detenuto la possibilità di accedere sia all'assistenza all'esterno sia alla detenzione domiciliare speciale ma solo se ricorrono particolari condizioni che si ricollegano all'impossibilità della detenuta di svolgere il suo ruolo di madre. Si prevede infine la possibilità di una deroga alla disciplina generale: da un lato la detenzione domiciliare speciale può proseguire anche oltre la maggiore età dei figli purché sia superata la metà della pena e dall'altro che l’assistenza all'esterno dei figli può giungere fino al raggiungimento della maggiore età dei figli, sempre che la condannata abbia tenuto un buon comportamento durante l'esecuzione della misura.

 

5.2.6. Riordino della medicina penitenziaria

 

Il decreto legislativo n. 230 del 1999, dando attuazione alla legge n. 419 del 1998, ha operato il riordino della medicina penitenziaria. Il decreto suddetto prevede il trasferimento delle competenze nel settore sanitario dal ministero della Giustizia al ministero della Sanità. Dal 1° gennaio 2000 pertanto le funzioni svolte dall'amministrazione penitenziaria con riferimento ai soli settori della prevenzione e dell'assistenza ai detenuti e agli internati tossicodipendenti sono state trasferite al Servizio sanitario nazionale. Contestualmente vengono trasferiti al SSN il relativo personale, le attrezzature, gli arredi e gli altri beni strumentali nonché le risorse finanziarie. Le restanti funzioni sanitarie sono state attribuite alle regioni e le ASL dovrebbero poi provvedere al controllo e alla gestione dei servizi sanitari negli istituti penitenziari. Il decreto in esame prevedeva poi l'individuazione di almeno tre regioni nelle quali avviare gradualmente il trasferimento, in via sperimentale. Il 22 dicembre 2000 il decreto legislativo n. 433 ha prorogato la scadenza dei termini per la sperimentazione al 31 luglio 2002. A partire da tale data, sulla base della sperimentazione svolta, si dovrà provvedere al riordino definitivo del settore «con appositi decreti o con gli altri strumenti ritenuti idonei e necessari».

 

5.2.7. Lavoro in carcere

 

La legge n. 193 del 2000, cosiddetta legge Smuraglia, allo scopo di favorire l'attività lavorativa dei detenuti, aveva al suo art. 3 previsto la concessione «di sgravi fiscali per le imprese che assumono lavoratori detenuti per un periodo non inferiore ai 30 giorni o che svolgono effettivamente attività formative nei confronti dei detenuti, e in particolare ai giovani detenuti». La suddetta legge richiedeva un doppio decreto che specificasse quali e quanti fossero gli incentivi per le imprese interessate. Di recente è stato approntato lo schema di regolamento di attuazione della legge 193/2000 emanato con decreto del ministero della Giustizia, di concerto con il ministero del Lavoro e il ministero dell'Economia. Il regolamento in questione prevede a favore delle imprese che decidono di assumere lavoratori detenuti un credito di imposta di 516,46 euro (pari a 1.000.000 di lire) mensili. L'agevolazione, che decorrerà dal 28 luglio 2000, sarà prevista non solo a favore delle imprese che assumono direttamente i lavoratori detenuti, ma anche a favore di quelle imprese che svolgono attività di formazione nei confronti degli stessi. Inoltre, per evitare che i lavoratori siano licenziati al momento della loro scarcerazione la legge ha altresì previsto un prolungamento del credito d'imposta fino ai sei mesi successivi della detenzione. La finalità della normativa in esame è di consentire che già durante il periodo della loro detenzione i lavoratori possano acquisire una preparazione professionale spendibile nel mondo del lavoro una volta che si saranno lasciati alle spalle le porte del carcere: si auspica che tale obiettivo non rimanga lettera morta. Tale regolamento non è stato al momento ancora definitivamente adottato.

 

5.2.8. Il nuovo regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario

 

Il nuovo regolamento di esecuzione emanato con D.P.R. n. 230 del 30/6/2000 si ispira espressamente alle «Regole minime per il trattamento dei detenuti» adottate dall'ONU nel 1955 e alle «Regole penitenziarie europee» del Consiglio d'Europa del 1987. L'intento più evidente del nuovo regolamento è quello di "umanizzare" le condizioni di vita dei detenuti. L'istituto, che non deve essere luogo di mera segregazione, deve assicurare l'esistenza di luoghi di pernottamento e di locali comuni per le attività che si devono svolgere durante il giorno. Le singole camere devono essere fornite di finestre che consentano il passaggio dell'aria e della luce, di docce, di acqua calda e bidet, particolarmente nelle camere delle sezioni femminili. Le disposizioni concernenti le caratteristiche dei locali di detenzione sono cogenti per gli istituti di nuova costruzione, per gli istituti già esistenti si dovrà provvedere alle necessarie modifiche di adeguamento entro 5 anni dall'entrata in vigore del R.E. Massima attenzione è riservata all'alimentazione: si deve tener conto oltre che delle esigenze dietetiche anche delle abitudini culturali e delle prescrizioni religiose diverse a causa della eterogenea popolazione detenuta. L'indicazione fondamentale è quella di avere cucine che non servano più di 200 persone. Rilevanti modifiche sono apportate alle norme sulla sanità riaffermando l'esigenza di un sistema integrato tra gli istituti e tra gli stessi e i servizi sanitari esterni. Si ribadisce che il programma di trattamento deve essere riferito al singolo individuo, cioè deve essere idoneo a fornire linee guida per il recupero sociale del singolo condannato. Al problema dei detenuti stranieri, fenomeno di minime dimensioni al tempo del primo regolamento, di estrema rilevanza oggi, sono dedicate delle disposizioni apposite. Al fine di garantire una comprensione tra l'amministrazione penitenziaria e gli stranieri si è ritenuto indispensabile la presenza di mediatori culturali anche per sperimentare interventi trattamentali nei paesi di origine. Altro momento fondamentale è considerato quello dell'ingresso in istituto del detenuto, ciò al fine di accertare eventuali maltrattamenti. Si fa carico alla direzione penitenziaria di segnalare all'autorità giudiziaria competente le condizioni fisiche del nuovo arrivato, che, dopo il suo ingresso in istituto, deve essere esaminato da un esperto dell'osservazione del trattamento. Elemento essenziale del trattamento, ex art. 61, sono gli incontri con i familiari nell'arco della giornata in appositi locali o all'aperto.

Non è stata però inserita la possibilità di incontri di detenuti o internati con i propri congiunti in unità abitative al di fuori del controllo visivo del personale.

Dunque nemmeno con il nuovo regolamento la sessualità è riuscita a fare il suo ingresso nel carcere, a causa dell'inadeguatezza dello strumento regolamentare a disciplinare la materia. Numerose modifiche di carattere regolamentare sono apportate anche nel settore delle misure disciplinari con particolare riguardo all'isolamento, misura di maggiore afflittività. Si ampliano, seppur parzialmente e non per tutti, i colloqui e le comunicazioni telefoniche con i congiunti.

 

 

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