Giustizia e diritti

 

 

Giustizia e diritti nella società dell'incertezza

Documento politico-programmatico

 

Giustizia penale e politica della giustizia negli anni del centro-sinistra

La riforma del codice penale: ridurre i reati, ridurre le pene

Un processo giusto, per tutti

Se la rieducazione resta un mito: diritti in carcere

Giustizia penale e politica della giustizia negli anni del centro-sinistra

 

Buona amministrazione, riforma della macchina della giustizia, competenze e delega alle corporazioni forensi

 

Ancora anni tormentati sono quelli che abbiamo alle spalle in materia di politica della giustizia. Dopo Tangentopoli, dopo il Governo Berlusconi, la maggioranza che ha vinto le elezioni nel 1996, l'Ulivo e Rifondazione comunista hanno puntato tutto sul ritorno della efficienza nell'amministrazione della giustizia. Il giudice unico di primo grado, la competenza penale del giudice di pace, una concezione minimalista della depenalizzazione dei reati minori, ma anche le sezioni stralcio per i processi civili, la riorganizzazione del Ministero della giustizia, tutte le più importanti iniziative legislative del Ministro Flick, che hanno poi impegnato il Parlamento per buona parte della legislatura, erano ispirate a questo obiettivo. All'inizio della legislatura, il Centro-Sinistra al Governo sceglieva di darsi un programma low profile: buona amministrazione e riforma della macchina della giustizia. La giustizia dei cittadini, prima e più che scelte di valore, richiede efficienza e quindi l'adozione delle migliori soluzioni tecniche perché siano tutelati i diritti, dei privati in contenzioso così come delle vittime di reato.

D'altro canto, questo indirizzo di buon senso, che esaltava la dimensione tecnica nelle scelte di riforma, insieme con la necessità di costruire una camera di compensazione tra le rappresentanze professionali forensi, che evitasse - soprattutto sul tema caldo della giustizia penale - il riesplodere di una conflittualità di facile riverbero sul quadro politico, hanno enfatizzato il ruolo delle associazioni di categoria fino a renderle depositarie delle diverse opzioni di valore in materia di giustizia, e di giustizia penale in particolare. Ha pesato certo una tendenza più generale della politica che, nella debolezza delle rappresentanze politiche, vede il riemergere di logiche di tipo corporativo e nella composizione degli interessi delle organizzazioni professionali coinvolte in ogni singola issue trova il suo punto di equilibrio; ha pesato certo la naturale tendenza dialettica del sistema processuale, enfatizzata dal modello accusatorio introdotto dal nuovo codice di procedura penale; certo è che, a dispetto dell'enorme enfasi che esse hanno avuto sui mezzi di comunicazione di massa, a dispetto della legittima attenzione della cittadinanza, diffusamente e variamente coinvolta dai problemi della sua efficienza, le politiche della giustizia, e in modo particolare quelle della giustizia penale, sono diventate oggetto di confronto, disputa e contesa tra le rappresentanze professionali, come se esse stesse non rappresentassero il punto di vista - certo importante e imprescindibile - di chi esercita la professione di magistrato o quella di avvocato, ma della generalità di coloro che - nei fatti o potenzialmente - ad essi si rivolgono.

Non abbiamo condiviso e non condividiamo questa corporativizzazione del dibattito pubblico sulla giustizia. Rivendichiamo, come associazione di cittadini prima che di potenziali utenti, studiosi o professionisti del settore, la libertà e la legittimità di formarci un giudizio autonomo, di avanzare proposte e di orientare cultura e senso comune sulle politiche della giustizia.

 

Riforma costituzionale: la giustizia nel cuore della transizione italiana

 

Il tentativo di tenere basso il confronto, di procedere alle indispensabili riforme della "macchina" della giustizia senza riaprire le ragioni di scontro che l'avevano vista al centro della contesa politica nella prima parte degli anni Novanta, doveva rapidamente essere surclassato dall'apertura di una nuova fase dominata dal tentativo di dare forma alla transizione italiana attraverso la revisione della seconda parte della Costituzione. E' allora che nasce la discussione delle proposte di legge sulla valutazione delle prove e sulla rilevanza in dibattimento delle dichiarazioni rese nelle fasi preliminari dal coimputato; discussione che porterà fino alla riforma costituzionale dell'articolo 111 della Costituzione. Ma ciò che in questa sede ci interessa ricordare è che non appena si è aperto il delicato dibattito sulla revisione costituzionale, la questione giustizia ha immediatamente ripreso la sua centralità, fino a diventare uno dei nodi irresolubili su cui la Commissione bicamerale sarà costretta a sospendere sine die i suoi lavori.

La vicenda italiana dell'ultimo decennio, le tendenze emerse sin dagli anni settanta alla delega alla magistratura, e al sistema della giustizia penale in particolare, di rilevanti responsabilità in ordine a fenomeni di natura sociale e politica, l'azione risolutiva di alcune inchieste giudiziarie nel portare a nudo la fragilità e la delegittimazione del quadro politico della "prima repubblica", hanno fatto della giustizia il nervo scoperto della transizione italiana. Ai problemi di efficienza del sistema, ecco dunque che si affiancano inevitabilmente i problemi della legittimazione così della magistratura inquirente come di quella giudicante. Nel tentativo di dare forma ad un processo di transizione non ancora ultimato era inevitabile allora, come è avvenuto nel corso della Bicamerale, che lo scontro tornasse a Tangentopoli, alla divisione tra sostenitori o contestatori della magistratura.

 

Società dell'incertezza, sentimenti di insicurezza e l'ultima emergenza

 

Nella ritrovata empasse di una politica della giustizia stretta tra programmi di efficienza e suo uso politico, è scoppiata l'ultima emergenza, quella della sicurezza nelle città, declinata volta a volta nel diffondersi della micro-criminalità, della immigrazione clandestina, dei reati da strada o della pedofilia. Una emergenza che in gran parte non esiste, che viceversa evoca problemi di carattere sociale e culturale di grande complessità, propri delle società avanzate nell'epoca della globalizzazione, e rispetto ai quali però il sistema della giustizia penale offre i suoi tradizionali rimedi di rassicurazione simbolica. Non uno dei problemi cui essa viene chiamata a rispondere troverà soluzione nel rozzo armamentario del diritto penale, ma nella contingenza esso non solo è lo strumento invocato da chi avverte quella necessità di rassicurazione, ma diventa la bandiera strumentale della opposizione politica così come di chi ha responsabilità di governo che, non potendo affrontare alla radice, da un giorno all'altro, sotto l'onda di una informazione drogata, problemi di tale natura, risponde al solito, promettendo nuove, più aspre e più certe pene detentive. E' così che l'Europa dei diritti, quella che si è tentato di affermare nella redazione della prima Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, si scontra con l'Europa di Schengen, laddove l'universalismo dei diritti fondamentali deve fare i conti con i confini della "Fortezza Europa" e con la limitazione ai "cittadini" dei suoi benefits.

E' la storia, in Italia, dei "pacchetti-sicurezza" degli ultimi due anni, delle promesse di maggior rigore repressivo su tutto quanto è sembrato turbare il vivere civile. Fino all'ultimo decreto-legge, poco o nulla è rimasto di tutto ciò, ma i sedimenti di questa nuova emergenza sono nei provvedimenti di riordino delle carriere di polizia e forze dell'ordine, mai tanto vezzeggiati nella storia d'Italia, in indirizzi ministeriali che hanno scorto necessità di sicurezza in ogni dove, finanche nelle pacifiche prigioni italiane, negli orientamenti degli operatori del sistema penale e repressivo, che hanno portato non solo il carcere, ma l'intero apparato di controllo penale ai suoi massimi storici, e infine, da ultimo, nel diffondersi di pratiche di giustizia sommaria da parte dei cittadini esposti o effettivamente vittime di reati di diversa e non sempre eccezionale gravità.

Gli anticorpi sociali a questa deriva, che pure noi avevamo pensato di veder maturare in una diversa attenzione delle municipalità, degli enti locali e delle regioni, al tessuto urbano e ai suoi problemi, in politiche della sicurezza urbana volte alla integrazione sociale, sono stati travolti da una generale condivisione nei rami bassi del sistema politico-amministrativo dell'uso simbolico della giustizia penale. Al punto che la rivendicazione più diffusa dei sindaci italiani è diventata quella di sedere nei Comitati provinciali per l'ordine e la sicurezza o di far entrare a qualche titolo i vigili urbani nelle strategie di controllo del territorio affidato alle forze di polizia. Con tutto il rispetto per le poche e lodevoli eccezioni, in questo modo le municipalità hanno abdicato a quel coordinamento delle politiche sociali sul territorio che costituisce la prima ed essenziale ragione di un loro coinvolgimento in strategie complesse di produzione di sicurezza.

 

Il modello americano: il ritorno retributivo e le garanzie in un processo classista.

 

Ciò che più inquieta di simili schizofreniche tendenze è che esse finiscono per avere una loro intima razionalità, ispirandosi ad un modello e mostrando una propria funzionalità.

Da una parte l'uso simbolico della giustizia penale alimenta a dismisura la finalità retributiva della pena, ormai svincolata da ogni ipotesi di tipo correzionalista. L'invocazione di pene più severe ogni qualvolta la commissione di un reato non sembri efficacemente prevenuta dalla minaccia già prevista dall'ordinamento restituisce alla reazione punitiva quella radice retributiva il cui unico limite interno è la corrispondenza tra pena e reato. E' così che si è potuto arrivare anche nella civilissima Italia, impegnata in prima fila nella campagna mondiale per la moratoria delle esecuzioni capitali, alla invocazione della pena di morte per le violenze sui minori. E tale invocazione, si badi bene, non è stata solo di una opinione pubblica cresciuta a pane e manette, ma di esponenti di primo piano di forze politiche di governo.

D'altro canto, le tendenze nelle politiche penitenziarie, che vedono affermarsi una idea delle alternative come necessitate dalla garanzia dei diritti fondamentali delle persone (malati di Aids, detenute di figli minori) o come benefici trattamentali sempre più legati al comportamento processuale oltre che al comportamento intramurario, insieme con il privilegio accordato nei fatti e in prospettiva (attraverso l'uso del braccialetto elettronico) a misure maggiormente contenitive e di mero controllo (l'ampliamento della detenzione domiciliare ai danni dell'affidamento al servizio sociale) sembrano segnare la desacralizzazione delle misure alternative alla detenzione e la loro riduzione a semplici strumenti di controllo sul territorio della crescente quota di popolazione in esecuzione penale che non è possibile o non è più necessario contenere all'interno degli Istituti di pena.

Sul versante opposto di questa generale tendenza alla recrudescenza e alla diffusione del controllo penale, si situa il dibattito pubblico sulle garanzie del giusto processo e le modifiche normative che gli sono seguite. Alcuni dicono che ormai nel nostro sistema si sommano le garanzie che il sistema inquisitorio doveva offrire alle sue vittime con quelle che il sistema accusatorio deve alle parti processuali. Torneremo sui contenuti e i limiti delle riforme in senso garantistico del processo penale. Ci basta in questa sede rilevare che l'ampliamento delle garanzie a tutela dell'indagato e dell'imputato porta con sé, quando non sia accompagnato da misure atte a garantire l'eguaglianza sostanziale degli indagati e degli imputati nei diversi processi cui sono coinvolti, un corrispondente ampliamento delle discriminazioni tra chi può permettersi una difesa adeguata alle necessità e chi no.

Nel corso della discussione del disegno di legge per l'abolizione dell'ergastolo, un autorevole esponente della destra, richiesto di spiegare per quale motivo chi più diceva di battersi per i diritti degli imputati fosse così ostile all'abolizione della condanna a vita, rivendicava e sintetizzava efficacemente le tendenze che abbiamo descritto: «ogni garanzia nel processo, poi la pena certa». Ove si corredi tale dichiarazioni delle sue implicazioni, e cioè che le garanzie sono prestate in astratto, a prescindere dalle capacità di chi viene chiamato in giudizio, e che la pena deve essere certa anche quando sia a vita o, come altri vorrebbero, a costo della vita, ecco disegnato il modello di penale e processuale verso cui ci stiamo indirizzando, quello tanto esaltato e vituperato degli Stati uniti d'America, dove chi non può rivolgersi a Perry Mason ha buone possibilità di finire davanti al boia o nelle ampie schiere dei destinatari del controllo penale.

 

Contro il panpenalismo e la giustizia negoziata: un nuovo patto per il diritto penale minimo

 

Come negli Stati uniti d'America, del resto, l'espansione della giustizia penale come strumento di consenso e di governo dell'opinione pubblica si accompagna ad un suo uso flessibile, intento ad aderire alle necessità del momento e a misurare su di esse la propria efficacia e non già sulle astratte previsioni normative, che al contrario renderebbero ingovernabile il sistema. E' così che l'obbligatorietà dell'azione penale lascia spazio ad una discrezionalità nei fatti, aprendo gravi interrogativi in ordine alla legittimazione di chi è costretto a compiere le scelte di merito su quali reati perseguire con maggiore sollecitudine e quali affidare al binario morto dell'archiviazione. E' così che il processo accusatorio, che richiede di essere usato il meno possibile per garantire la massima affidabilità nel perseguimento della verità giudiziaria, non può che confidare nelle alternative che ad esso stesso vengono prospettate, nella composizione tra le parti in un sistema di negoziazione delle responsabilità penali, per reggere la sfida di un sistema penale ipertrofico. E' così che il mastodontico sistema di esecuzione penale ha bisogno di un costante giudizio sull'autore che decida in concreto le modalità e il quantum di sofferenza da attribuire a ciascuno dei destinatari di controllo penale.

Ne deriva in ogni stato e momento del funzionamento del sistema una costante negoziazione tra l'autorità statale e i reali o potenziali destinatari del suo potere repressivo. Negoziazione che rende flessibile, ma incerto il sistema di attribuzione della responsabilità penale così come l'esecuzione penale, dando l'immagine di un sistema largamente indulgente, entro cui il rischio dell'arbitrio e della diseguaglianza negativa è viceversa fortissimo.

Contro una simile tendenza, da nessuno enunciata e da tutti perseguita, la proposta di un diritto penale minimo, da tutti enunciata e da nessuno perseguita, al di là degli strumenti normativi di cui potrà dotarsi (riforma integrale del codice penale o riforma della parte generale e integrazione di parte speciale e leggi organiche, riserva di codice, ecc.), è l'unica alternativa possibile. Alternativa teorica, di principi; alternativa pratica, di scelte normative; alternativa di indirizzo, nell'orientamento e nel giudizio sulle proposte di riforma in campo. La proposta di un diritto penale minimo è la proposta di una rifondazione della giustizia penale, di un confronto sui beni e sui valori che ne giustificano l'esistenza, un confronto questo sì costituente. La proposta di un diritto penale minimo è la proposta di un nuovo contratto, di un nuovo patto tra i cittadini, contro la giustizia negoziata, contro la trasfigurazione della insicurezza sociale in insicurezza penale.

La riforma del codice penale: ridurre i reati, ridurre le pene

 

Si è aperta più volte nel nostro paese – e troppe volte si è bruscamente richiusa, soffocata dall’apparire di una qualche nuova emergenza - la discussione sulla necessità di dare inizio ad un percorso che conduca all'elaborazione di un nuovo codice penale. Il principio ispiratore di Antigone è che in un periodo storico che vede una tendenza alla espansione della sfera di intervento del diritto penale, quale strumento quasi esclusivo per affrontare le più diverse emergenze sociali e quale strumento sempre più rivolto, in senso classista, contro i ceti più deboli, con un incremento ormai insostenibile della popolazione detenuta (e delle sue componenti di marginali, immigrati e tossicodipendenti) va realmente posto all'ordine del giorno del dibattito politico la necessità di un intervento strutturale e di ampio respiro mirante alla concreta applicazione del principio del diritto penale minimo.

Per far ciò, siamo consapevoli che «la contrazione della risorsa penale non può essere perseguita unicamente, in modo volontaristico o normativo, affermando l'esigenza di diminuire o cancellare le leggi penali per motivi, rispettivamente, di utilità sociale e di umanità, o di ottemperanza a norme e principi superiori dell'ordinamento. Si richiede invece, soprattutto, che vengano individuate e favorite le condizioni sociali e culturali, nonché le politiche e gli strumenti alternativi di controllo che permettano di uscire dalla falsa logica: penale o non penale, più penale o meno penale, con cui la penalità si riproduce come la categoria fondante. Di conseguenza, le nuove condizioni della legalità dello Stato sociale futuro vanno cercate in quelle strategie politiche, sociali, culturali ed economiche - ben prima che giuridiche - che consentono di rispondere ai bisogni di sicurezza della società senza restare prigionieri di quella falsa logica. Come dire che lo spazio materiale della penalità può essere ridisegnato, fino a scomparire del tutto quando sia il caso, all'interno di un complesso integrato di politiche e nelle condizioni sociali che permettono di rispondere diversamente ai problemi egemonizzati dalla risorsa penale» (Alessandro Baratta e Massimo Pavarini). Si prenda il caso, emblematico, del rapporto tra immigrazione e sistema della giustizia penale. Nell'associazione tra immigrazione e criminalità vi è la radice di un pregiudizio razzistico purtroppo assai diffuso nel nostro Paese. Siamo convinti che la proposta di qualificare l'immigrazione clandestina come reato sia contraria ai principi fondamentali di uno stato di diritto e viceversa che la libera circolazione vada riconosciuta come un diritto fondamentale della persona, quale che sia la sua nazionalità, e quindi, se centri per immigrati hanno da esservi nel nostro Paese, veri centri d'accoglienza debbono essere, non centri di detenzione mascherati; siamo altresì convinti che solo i traghetti di linea potranno mettere fine alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento dei migranti da parte di organizzazione criminali che stanno nascendo e prosperando sulle politiche proibizionistiche del Nord del mondo; ma sappiamo che solo una compiuta politica di integrazione degli immigrati potrà sconfiggere la domanda di controllo penale che viene rivolta nei loro confronti e quindi consentirci di raggiungere quegli obiettivi essenziali di una politica del diritto penale ispirata alla sua minimizzazione e al rispetto dei diritti fondamentali della persona.

Affrontati nella sede propria i problemi e le questioni sociali che travagliano il nostro tempo, nella definizione di un nuovo codice del diritto penale minimo, si tratta innanzitutto di rendere operante il principio della riserva di codice in materia penale, e cioè il far sì che ogni nuova disposizione penale sia organicamente inserita nel codice e l’evitare una alluvione disordinata ed emozionale di nuove norme incriminatici (o che contengano irrazionali e sproporzionati aumenti di pena). La politica penale non può rincorrere gli allarmi lanciati dai giornali e la voglia di protagonismo dei diversi esponenti politici.

Ma affinché l'attuazione del principio della "riserva di codice" si coniughi con una effettiva riduzione dell'ambito di intervento del diritto penale, ovvero con l'affermazione del concetto del diritto penale quale extrema ratio, il lavoro di riscrittura del codice penale – che deve essere ispirato ai principi di sussidiarietà e di tassatività della norma penale, di materialità e di offensività dell'illecito - al fine di non provocare fenomeni sociali di rigetto nei confronti dell'intervento riformatore ed al fine di coniugare l'obiettivo della "maggiore sicurezza" con quello della "minore sofferenza", non si può tralasciare la ricerca intorno a ciò che deve essere fatto delle condotte destinate ad uscire dall'area del diritto penale. La ricerca e l'elaborazione devono, quindi, parimenti concentrarsi sulle sanzioni e le procedure sanzionatorie extra-penali, a partire da una analisi sull'attuale configurazione e sulle prospettive di trasformazione delle sanzioni e del procedimento sanzionatorio amministrativo. Occorre cioè prevedere una ampia tipologia di sanzioni (e non solo amministrative), reali garanzie per il cittadino nella fase endoprocedimentale e la possibilità di ricorrere all'autorità giudiziaria avverso il provvedimento sanzionatorio.

Ed il discorso sulla differenziazione delle tipologie sanzionatorie va affrontato anche con riferimento a ciò che resterà nell'area dell'illecito penale, al fine di uscire dalla prospettiva che vede quale unica sanzione penale - accanto alla sanzione pecuniaria (che appare più logico collocare al di fuori del sistema penale) - la privazione tout-court della libertà personale. E' il discorso - che deve diventare momento caratterizzante il nuovo codice - sulla pena articolata e/o flessibile, e che deve vivere accanto alla prospettiva della riduzione dei minimi e dei massimi edittali, a partire dall'abolizione della pena dell'ergastolo. Crediamo che sia necessario giungere ad una limitazione della discrezionalità di intervento nella fase di esecuzione delle pene, trasferendo al giudice della cognizione - sulla base di precise indicazioni normative - il potere di attribuire pene differenziate, con la possibilità per il giudice, con riferimento alle lunghe pene, di delineare - con la sentenza di condanna - un "percorso" per passaggi intermedi dalla pena detentiva alla piena libertà del soggetto, in attuazione del principio costituzionale di reinserimento del condannato. Attraverso una rivisitazione del sistema delle pene si può puntare sul recupero del concetto di effettività della pena; mentre, attraverso una riduzione delle fattispecie di parte speciale, si può puntare all'effettivo recupero del principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale. Un punto di partenza - sia pure migliorabile – è l’articolato elaborato dalla Commissione Grosso.

Ma il banco di prova di una riforma del diritto penale nel senso della sua minimizzazione è la riforma della parte speciale e della miriade di norme sanzionatorie sparse nell’ordinamento (cui contribuisce ormai in maniera significativa una normativa comunitaria che sta aprendo la strada ad un diritto penale sovranazionale), la selezione delle fattispecie penali, la riduzione dei massimi e dei minimi edittali, la previsione di sanzioni diverse da quella detentiva. Per questi motivi riteniamo che paradigmatica sia la disponibilità ad una revisione della legge sugli stupefacenti. Un principio ideologico, la proibizione legale della circolazione delle sostanze stupefacenti, è alla base di una normativa criminogena, di fattispecie inquisitorie, di pene draconiane. Gran parte del funzionamento della giustizia penale, dell'esecuzione penale e della popolazione detenuta sono assorbite da questa legge e dalla fallimentare politica che la ispira. E' chiaro quindi, che un progetto di riforma che non dovesse muoversi in direzione della decarcerizzazione, della depenalizzazione di tutte le condotte connesse al consumo di droghe e della decriminalizzazione della vita quotidiana dei consumatori non avrebbe ragione di essere.

Un processo giusto, per tutti

 

«Il paradigma del diritto penale minimo assume come unica giustificazione del diritto penale il suo ruolo di legge del più debole in alternativa alla legge del più forte che vigerebbe in sua assenza, … la difesa del più debole, che nel momento del reato è la parte offesa, nel momento del processo è l'imputato e in quello dell'esecuzione penale è il reo» (L. Ferrajoli). Questa idea del diritto penale minimo come criterio di legittimazione del diritto penale ci guida nella valutazione delle politiche della giustizia penale dalle astratte previsioni dei delitti e delle pene fino al concreto esercizio del potere di punire attraverso gli strumenti del processo e dell'esecuzione penale.

Il processo penale continua ad essere al centro di tensioni e di scontri. Al fondo vi è un equivoco antico e difficile da superare che gli attribuisce in via principale, se non esclusiva, una finalità di difesa sociale: il processo penale come strumento di "lotta": alla mafia, alla corruzione, alla microcriminalità. Non a caso infatti ad ogni "allarme" il legislatore decide di intervenire innanzittutto sul processo, mentre le modifiche di stampo garantista vengono etichettate come cedimento, come "abbassamento della guardia" nei confronti della criminalità, quando invece, contro ogni legittimazione di qualsiasi doppio binario, bisognerebbe tornare a dire che quanto più grave è l'accusa tanto più forti devono essere le garanzie difensive di chi vi è sottoposto.

La spiegazione di tutto ciò sta nella totale incapacità della politica di aggredire i nodi reali della questione criminale e nel conseguente bisogno di risposte di tipo mediatico alle ricorrenti ansie securitarie. Mentre restano irrisolte le questioni di fondo. Tutto questo ha prodotto una continua fibrillazione della procedura penale che mai come in questi anni è stata oggetto di continue modifiche, revisioni, aggiustamenti ora in un senso ora nell'altro. Vi è quindi la necessità di "liberare" la materia processuale da queste continue tensioni, cercando di costruire un sistema di regole equilibrato, coerente ed omogeneo.

 

Il giusto processo: una principio ancora da attuare

 

Un punto fermo oggi è rappresentato dalla riforma con la quale il principio del contraddittorio nella formazione della prova è assurto a principio costituzionale. Una riforma che Antigone rivendica come una conquista di civiltà, alla quale la nostra associazione ha dato in questi anni difficili un contributo non secondario. Da qui, dalla comune e condivisa accettazione di tale principio fondamentale, è possibile ripartire per una ricostruzione del sistema processuale.

Il primo, delicato, passaggio è rappresentato dalla legge di attuazione della riforma costituzionale, legge che a quasi un anno di distanza dalla approvazione della riforma costituzionale, stenta a vedere la luce. Anche in questa vicenda si registrano tensioni e scontri che alimentano un approccio propagandistico ed approssimativo che certo non giova alla razionalità dell'intervento riformatore. In proposito Antigone intende ribadire alcuni punti fermi.

La norma costituzionale esclude la possibilità di utilizzazione come prova dei materiali formati fuori dal contraddittorio, con la sola eccezione dei casi espressamente e tassativamente previsti dalla medesima disposizione. Ogni tentativo di prevedere possibilità di recupero di dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria fuori da quelle ipotesi è da respingere perché in contrasto con la norma costituzionale.

La facoltà di non rispondere riconosciuta alle persone accusate di un reato e la conseguente non perseguibilità dell'imputato per le dichiarazioni rese nel processo (con esclusione ovviamente dell'ipotesi della calunnia) sono corollari inscindibili del fondamentale diritto di difesa riconosciuto e garantito dall'articolo 24 della Costituzione in ogni stato e grado del processo. Una revisione della disciplina del diritto al silenzio è certamente possibile, ma nel rispetto delle disposizioni costituzionali. Per cui è possibile immaginare, con le opportune cautele, la previsione dell'obbligo di rispondere per chi sia stato giudicato con sentenza definitiva ovvero per l'imputato di reato collegato chiamato a rendere dichiarazioni in procedimento separato. Mentre è assolutamente inaccettabile l'ipotesi che preveda l'obbligo di rispondere e di dire la verità per l'imputato anche nel suo processo, per il solo fatto di aver accettato di rendere dichiarazioni nella fase preliminare.

 

Il giusto processo per i non abbienti: riforma del gratuito patrocinio e della difesa d'ufficio

 

Ogni dibattito sulle garanzie della difesa nel processo penale non può non confrontarsi con il tema della sua effettività, e più precisamente con il tema di una difesa adeguata per i meno abbienti.

La difesa di ufficio continua ad essere il grande tema eluso e rimosso nel dibattito sul processo. Eppure, la riflessione sulla effettività del diritto di difesa dovrebbe precedere - o almeno essere contestuale a - ogni riflessione sulle garanzie della difesa. La difesa di ufficio, infatti, riguarda in Italia la gran parte dei processi. E qualsiasi operatore della giustizia può confermare che, salvo rarissime, lodevoli eccezioni, la difesa di ufficio è puro simulacro. Il difensore di ufficio semplicemente non c’è: si limita a dare la sua presenza a verbale, cambia ad ogni udienza, non esercita quasi nessuna delle prerogative della difesa. Nella realtà del sistema italiano, dunque, la gran parte degli imputati è priva di effettiva assistenza legale: l’art.24 della costituzione è rispettato solo sulla carta dei verbali di udienza.

In questo contesto, una discussione limitata al problema delle garanzie della difesa nel processo è non solo monco, ma anche pericoloso. Infatti, di un ampliamento delle garanzie difensive beneficierebbero solo quegli imputati che possono permettersi un difensore di fiducia, mentre la riduzione dei poteri invasivi del giudice - giusta e necessaria in un processo di parti - si tradurrebbe in un danno per gli imputati non assistiti, privati anche della possibilità di un soccorso paternalistico da parte del giudice. Proviamo allora a parlare, in primo luogo, della difesa che non c’è. Cominciando ad interrogarci sulle ragioni della ineffettività della difesa d’ufficio.

La ragione principale è sicuramente di natura economica. La legge sul patrocinio dei non abbienti è praticamente inapplicabile: i limiti di reddito per l’accesso sono troppo bassi e la procedura è estremamente complessa ed onerosa. Grazie ad una discutibile giurisprudenza della cassazione, poi, sono stati di fatto esclusi dal patrocinio gratuito gli stranieri non residenti. La difesa di ufficio, pertanto, è diventata un munus sostanzialmente gratuito, che la maggior parte degli avvocati italiani non è in alcun modo in grado di sostenere. Quali, allora, le soluzioni possibili?

Una scelta sicuramente condivisibile, e da noi auspicata, potrebbe essere quella di ampliare le possibilità di accesso al patrocinio a spese dello stato, elevandone significativamente i limiti di reddito, sburocratizzando la procedura e consentendo l’accesso anche agli stranieri non residenti. Sarebbe un miglioramento, anche se non ci pare una soluzione praticabile efficacemente in tempi brevi. I limiti di reddito per l’accesso al patrocinio a spese dello stato non possono, infatti, essere elevati oltremisura sia per ragioni legate alla situazione di bilancio dello stato, sia per evidenti ragioni di equità contributiva. Peraltro la difesa privata ha costi altissimi che solo pochi possono permettersi. Per un numero rilevantissimo di imputati l’unica alternativa resterebbe quindi ancora il simulacro della difesa di ufficio. La necessità di dare piena attuazione al precetto dell’art. 24 della Costituzione impone, invece, di ricercare soluzioni che rendano effettiva la garanzia della difesa per tutti gli imputati.

La strada da perseguire è allora quella della difesa pubblica: ogni persona che sia coinvolta in un processo (penale, civile o amministrativo) dovrebbe potersi rivolgere ad una struttura pubblica onde ricevere assistenza difensiva da parte di un pubblico funzionario. Nei processi penali l’assegnazione ad un difensore pubblico dovrebbe avvenire d’ufficio, salvo la scelta dell’imputato di avvalersi di un difensore privato.

L’assistenza difensiva pubblica non dovrebbe essere necessariamente gratuita. Oltre un certo livello di reddito dovrebbe essere prevista una contribuzione progressiva, salvo il caso di imputati assolti in un processo penale per i quali, indipendentemente dal reddito, appare più corretto che le spese di difesa restino a carico dello Stato. Non è difficile prevedere che in tal modo l’ufficio del difensore pubblico, se ben organizzato, potrebbe agevolmente "autofinanziarsi" e non comporterebbe oneri aggiuntivi per il bilancio dello stato.

Se la rieducazione resta un mito: diritti in carcere

 

Le forme tecnocratiche di controllo diffuso, in carcere e fuori, degli autori di reato, sembrano infrangere - per la prima volta in maniera esplicita - la promessa rieducativa affidata dalla Costituzione alle leggi. Il tornante è difficile. Nell'ultimo quarto di secolo, in vario modo siamo stati impegnati ad interpretare e allargare le maglie di quel precetto costituzionale, per ridurre la sofferenza penale, per facilitare percorsi di reinserimento sociale. E tutti sappiamo della difficoltà di quell'impegno, nel raggiungimento di quei risultati, episodici e incerti. Lo abbiamo documentato nel Primo rapporto del nostro Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione, continueremo a farlo.

Il rischio che oggi corriamo è che l'affermarsi di un sapere pragmatico dell'esecuzione e del controllo penale non solo cancelli i nostri sforzi, ma demolisca un tabù - quello della rieducazione - che nell'Italia repubblicana ha funzionato soprattutto come limite al potere punitivo. Il rischio che corriamo è dunque quello di una pena che non abbia altro fine e altro limite che il controllo e la sofferenza inflitta ai suoi destinatari. Contro questa tendenza va messa in campo una strategia volta a limitare il potere punitivo a partire dal rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute e sotto controllo penale.

 

Garantire i diritti fondamentali: salute e prevenzione dei trattamenti inumani o degradanti

 

Al primo posto di una strategia dei diritti delle persone detenute è la tutela della salute e la prevenzione delle violenze e dei maltrattamenti. La cronaca riporta frequentemente casi di "mala sanità" in carcere. Rare, ma non irrilevanti sono le notizie di violenze e maltrattamenti, anche quando non si tratti di scandali di rilevanza nazionale, come quello di Sassari.

Ogni singola violenza, ogni singolo abuso, è giusto che venga perseguito per quello che è: una singola violenza, un singolo abuso, la cui responsabilità ricade sulla persona o sulle persone che di tale violenza o di tale abuso verranno riconosciuti colpevoli. Non ci interessa il crucifige, tanto di chi ha commesso reati fuori dal carcere, quanto di chi ne abbia commessi o dovesse commetterne in carcere, a danno di persone affidate alla propria custodia. Ciò che viceversa ci interessa è la prevenzione di simili abusi, di simili violenze. Che il carcere sia luogo di sofferenza, che i rapporti al suo interno abbiano una naturale e irrinunciabile radice di violenza non può giustificare un solo caso di maltrattamenti.

La prevenzione dei maltrattamenti si fa non solo formando il personale al rispetto dei diritti umani delle persone detenute, ma qualificandolo in questo senso. Se l'accento principale della formazione della polizia penitenziaria continuerà ad essere posto sul loro essere operatori della sicurezza, inevitabilmente, il loro sarà un destino di poliziotti di serie B; se viceversa la loro formazione sarà incentrata sull'interpretazione dei bisogni e sulla tutela dei diritti fondamentali delle persone in stato di detenzione, la polizia penitenziaria godrà finalmente di un proprio statuto professionale autonomo, di una qualità professionale che la distingue dalla scala delle altre polizie in fondo alla quale viene solitamente collocata.

La prevenzione dei maltrattamenti si fa aprendo il carcere al territorio e al personale delle amministrazioni pubbliche. Un carcere transitato, un carcere non chiuso, un carcere all'interno del quale sempre maggiori attività e servizi sono prestati da soggetti pubblici o privati che rispondono ad altri centri di responsabilità, distinti dalla catena gerarchica dell'Amministrazione penitenziaria, questo è un carcere più sicuro, in cui il rischio dei maltrattamenti e degli abusi si riduce a quel minimo che l'istituzione totale e le relazioni tra gli umani non riusciranno mai ad eliminare.

La prevenzione dei maltrattamenti si fa garantendo la presenza in carcere di una figura ispettiva indipendente dall'Amministrazione penitenziaria. La magistratura di sorveglianza non riesce più a svolgere una tale funzione. Perché oberata di lavoro sul fronte delle misure alternative alla detenzione e perché questo lavoro, il lavoro di giudice della pena in concreto, ne ha mutato l'habitus professionale, da garante dei diritti a giudice dell'autore di reato. Da quando era a fianco del detenuto, il magistrato di sorveglianza ha mutato collocazione e si pone ora di fronte a esso, vero giudice del suo destino penale. Per questo motivo abbiamo avanzato la proposta di istituire un Difensore civico delle persone private della libertà personale, che possa svolgere all’interno degli Istituti di pena quelle funzioni che sono propri del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti. Per questo motivo vogliamo trasformare il nostro Osservatorio in una sorta di Difensore civico informale, fino a quando esso non sarà istituito, fino a quando non vi sarà una politica efficace di prevenzione dei maltrattamenti e della violazione dei diritti fondamentali delle persone detenute.

Il diritto alla salute è il primo di essi e va garantito secondo condizioni analoghe a quelle riservate alla generalità dei cittadini. Invece, nonostante l’approvazione di una riforma legislativa orientata in questa direzione, così ancora non è. Non solo la sperimentazione del passaggio di competenze dalla medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale non è stata svolta nei termini fissati dal decreto ministeriale, tanto che ha dovuto essere prorogata, ma finanche l’assistenza ai detenuti tossicodipendenti, regolata in regime di Convenzione dal 1990 all’inizio del 2000 e ormai di piena competenza del Servizio sanitario nazionale è prestata poco e male. I ministri della giustizia e della sanità hanno ufficialmente riconosciuto, in occasione della Conferenza nazionale sulle droghe, che, a prescindere dall’efficacia delle terapie prestate, i Servizi per la tossicodipendenze sono presenti soltanto nel 40% degli Istituti di pena. Si tratta di inadempienze e di ritardi non giustificabili, e che ciascuna amministrazione nel proprio ambito di competenza dovrebbe provvedere celermente a recuperare.

 

Riempire il vuoto del carcere: attività, lavoro, cultura, istruzione e formazione professionale

 

Accanto alla garanzia dei diritti fondamentali della persona detenuta, vi sono quei diritti sociali - all’istruzione, alla formazione, al lavoro - cui l’amministrazione deve provvedere nella misura in cui intenda ridurre le condizioni di svantaggio sociale che sono all’origine dei meccanismi di selezione della popolazione detenuta e che per i detenuti costituiscono non solo opportunità (essenziali soprattutto per i minori e i giovani adulti fino ai 30-35 anni di età, che costituiscono gran parte delle persone private della libertà), ma componenti essenziali del proprio benessere psico-fisico. Riempirne il vuoto è una condizione di sopravvivenza in carcere. E’ noto a chi conosce il carcere come una delle sofferenze maggiori arrecate ai detenuti sia quella del tempo vuoto trascorso in cella. Perdita di autonomia e del senso di responsabilità personale, depressione e senso di inutilità del tempo trascorso in detenzione, non sono che gli effetti più visibili di tale stato di abbandono in cui versano buona parte di loro negli istituti penitenziari italiani.

Con la Legge Smuraglia e il nuovo Regolamento penitenziario il percorso legislativo volto a garantire la offerta formativa e lavorativa in carcere può dirsi completato, anche se l’attuale situazione penitenziaria con un surplus di 12.000 detenuti non consentirà realisticamente nè di offrire nuove opportunità lavorative nè di realizzare le possibilità insite nel nuovo regolamento penitenziario. E’ certamente necessario che siano approntate sempre maggiori risorse per tutti i progetti che il mondo imprenditoriale e del privato sociale si impegneranno a rendere operativi nel sistema penitenziario, per esempio utilizzando lo strumento delle convenzioni introdotte dalle riforme dell’estate scorsa. Occorre, però, domandarsi quanti di questi progetti finanziati e realizzati contribuiscano davvero a riempire il vuoto del carcere, nel senso di offrire valide occasioni di crescita culturale e di formazione professionale della popolazione detenuta, spendibili concretamente in fase di reinserimento nel mondo libero, e quanti non siano piuttosto manifestazioni di una tendenza ad autoalimentarsi, ad autoriprodursi del non profit penitenziario.

Serve perciò un nuovo sforzo di programmazione che faccia uscire l'offerta di opportunità lavorative e formative dal casuale manifestarsi di fortunate congiunzioni astrali, date dalla miracolosa coincidenza di uno staff penitenziario sensibile, di un territorio ricco di agenzie e di motivazioni e di finanziamenti adeguati, per renderla viceversa conseguente ad un impegno dell'amministrazione che assuma su di sé l'obbligo di prestazione di tale offerta, avvalendosi e sollecitando - dove e come possibile - le risorse pubbliche, private e del privato-sociale radicate nel territorio.

 

Tutelare i diritti: garanzia giurisdizionale dei diritti e difesa civica

 

Sono passati due anni ormai da quando la Corte costituzionale ha giudicato illegittimo l'Ordinamento penitenziario nella misura in cui non prevede che la astratta previsione di diritti delle persone detenute sia garantita da un'effettiva tutela giurisdizionale. Il generico diritto al reclamo previsto dall'ordinamento lascia il detenuto alla mercé dell'Amministrazione penitenziaria, che può o no prestare il diritto che legge e regolamento affermano, a proprio insindacabile giudizio. Si tratta di una riserva di potere arbitrario assolutamente ingiustificabile in uno Stato di diritto che giustamente la Corte ha censurato. Si tratta di una concezione del potere di disposizione sulle persone recluse che costituisce la radice culturale profonda delle degenerazioni che si manifestano nella violazione dei diritti fondamentali, nei maltrattamenti e nelle violenze in carcere.

La Corte costituzionale, evidentemente consapevole degli effetti che una simile pronuncia avrebbe potuto avere sui carichi di lavoro e i delicati equilibri dei Tribunali di sorveglianza, ha ritenuto opportuno rinviare la palla al legislatore, affidandogli la responsabilità di scegliere quale delle procedure giurisdizionali già previste dall'ordinamento per il ricorso avverso specifici provvedimenti avrebbe potuto farsi valere a tutela della generalità dei diritti ivi sanciti. Da allora nulla è successo, nonostante Sassari, nonostante il nuovo regolamento di esecuzione abbia aggiornato e ampliato il catalogo dei diritti dei detenuti.

Ciò che chiediamo è che si dia rapidamente attuazione alla sentenza della Corte costituzionale con una procedura che non preveda riserve di alcun genere a favore dell'Amministrazione. Ciò che proponiamo è che il difensore civico delle persone private della libertà personale si assuma l'onere di mediare le controversie tra detenuti e Amministrazione, per garantire una più celere ed efficace tutela dei diritti e per riservare la risorsa giurisdizionale solo a quelle controversie che non riescano a trovare soluzione in una attenta opera di composizione extra-giudiziale.

 

 

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