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Ingiuriare un immigrato costituisce reato di Mario Pavone (Presidente Animi)
Apostrofare un immigrato con l’epiteto di "stronzo" costituisce reato di ingiuria, anche se chi ha pronunciato l’offesa non intendeva offenderne l’onore. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione,con la sentenza n.13263 del 16 Marzo 2005, che si riporta in calce, così accogliendo parzialmente il ricorso di un cittadino extracomunitario contro una sentenza che aveva assolto un maresciallo dei Carabinieri dal reato di ingiuria nei suoi confronti. Il sottufficiale aveva infatti fermato l’immigrato contestandogli la guida di un’automobile nonostante la sospensione della patente, apostrofandolo tra l’altro con l’offesa "stronzo". La Suprema Corte, annullando la sentenza di assoluzione limitatamente all’ingiuria - mentre è stata confermata l’assoluzione per il reato di minaccia - ha spiegato che per il reato in questione non è richiesta l’effettiva intenzione di offendere (c.d. "animus iniuriandi") ma è sufficiente che siano pronunciate espressioni offensive o che vengano percepite come tali. Corte Suprema di Cassazione V Sezione Penale Sentenza n. 13263 del 16 Marzo 2005
Motivi della decisione
Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Ancona ha confermato l’assoluzione di A. F., maresciallo dei carabinieri, dai reati di ingiuria e minaccia [1] ai danni di H. H, cui aveva addebitato la guida di un’autovettura nonostante la sospensione della patente. I giudici del merito hanno rilevato che, avendo H. H. negato di essere alla guida dell’autovettura, condotta invece dall’amico H. W., effettivamente il sottufficiale aveva reagito a tali difese dandogli dello stronzo, come confermato da tre attendibili testimoni presenti ai fatti avvenuti in strada. Ma hanno ritenuto che si dubbio l’intento offensivo dell’epiteto, utilizzato probabilmente per indurre l’interlocutore a desistere da contestazioni considerate canzonatorie, come incerta sia la prova delle ulteriori ingiurie e minacce cui il querelante sarebbe stato sottoposto anche in caserma. Ricorre per cassazione H. H. e propone quattro motivi di impugnazione, anche agli effetti penali per quanto attiene al delitto di ingiuria. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la mancata assunzione del teste H. W., prova decisiva richiesta ai sensi dell’art. 507 c.p.p. con un motivo d’atto di appello apoditticamente disatteso. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 192 c.p.p. e vizio di motivazione della sentenza impugnata, lamentando che i giudici del merito, nell’escludere la prova di ulteriori ingiurie, abbiano implicitamente e contraddittoriamente riconosciuto la portata offensiva della qualificazione di stronzo certamente attribuita dall’imputato al ricorrente, ma ne abbiano escluso la rilevanza per un’immaginaria finalità preventiva contro eventuali sue contestazioni. E aggiunge che altrettanto contraddittoria è la valutazione di inattendibilità del querelante fondata sull’assunto che le altre ingiurie riferite come da lui subite in strada non siano state confermate dai testimoni presenti. Con il terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione in ordine al delitto di minaccia, lamentando che i giudici del merito abbiano omesso di considerare adeguatamente le testimonianze dalle quali risultava che già dinanzi al ristorante l’imputato aveva minacciato H.H. di ammanettarlo e di sequestrargli la vettura, se non lo avesse seguito in caserma, mentre era evidente che nessun provvedimento coercitivo poteva essere adottato in ragione della contravvenzione stradale contestata. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento dei danni, cui la Corte di appello era tenuta nonostante la pronuncia assolutoria ai fini penali. Il primo motivo del ricorso è infondato; il terzo e il quarto motivo sono inammissibili per manifesta infondatezza. Quanto al primo motivo, infatti, è indiscusso nella giurisprudenza di questa Corte che la mancata assunzione di una prova decisiva, può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495, secondo comma, c.p.p., sicché il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 c.p.p. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (Cass., sez. VI, 12 ottobre 2000, Porcacchia, n. 218171), anche con una motivazione implicita (Cass., sez. V, 16 maggio 2000, Callegari, n. 217209). Quanto al terzo motivo va rilevato che, come risulta dallo stesso ricorso, l’addebito di minaccia era stato contestato in relazione alla prospettazione di un ingiusto rimpatrio o della rovina personale, mentre non s’è mai neppure ipotizzata l’illegittimità dell’accompagnamento in caserma di H.H. Quanto al quarto motivo, attinente sia all’imputazione di ingiuria sia quella di minaccia, va rilevato che, salva la deroga prevista dall’art. 578 c.p.p. per il caso di sopravvenuta estinzione del reato per amnistia o prescrizione, il giudice penale non può, neppure in sede di impugnazione, accogliere la domanda della parte civile senza affermazione della responsabilità penale dell’imputato, sia pure ai soli effetti civili (Cass., sez. V, 6 febbraio 2001, Maggio, n. 218905). La giurisprudenza invocata dal ricorrente affermava solo che, in mancanza di impugnazione della parte civile, la domanda di condanna al risarcimento dei danni non potesse essere pronunciata nei confronti dell’imputato condannato ai fini penali in appello dopo un’assoluzione in primo grado (Cass., sez. VI, 8 aprile 2003, Montesani, n. 226039). E questa giurisprudenza è stata poi superata con l’affermazione del principio di immanenza della costituzione di parte civile, sicché il giudice di appello, che su gravame del solo pubblico ministero condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria (Cass., sez. un., 10 luglio 2002, Guadalupi, n. 222001). Ma questo contrasto giurisprudenziale non ha alcuna rilevanza ai fini della questione posta dal ricorrente, dal momento che nel caso in esame la Corte di Appello ha escluso anche agli effetti civili la responsabilità dell’imputato e non poteva perciò condannarlo al risarcimento dei danni. Inammissibili anch’esso nella parte in cui censura la valutazione delle prove, è fondato invece il secondo motivo del ricorso nella parte in cui denuncia la contraddittoria esclusione della rilevanza penale dell’epiteto di stronzo, certamente utilizzato da A. F. nei confronti di H. H. I giudici d’appello riconoscono l’offensività di quell’epiteto reiteratamente profferito dell’imputato nei confronti del suo interlocutore, ma dubitano che fosse inteso effettivamente all’offesa, anche in considerazione dell’uso ormai abituale di espressioni simili nel contesto di accese discussioni, ipotizzando che il sottufficiale avesse solo l’intenzione di indurre H. H. a recedere dalle sue contestazioni in ordine alla contravvenzione addebitatagli. Sennonché nella giurisprudenza di questa Corte è indiscusso che, in tema di delitti contro l’onore, non è richiesta la presenza di un animus iniuriandi vel diffamandi, ma appare sufficiente il dolo eventuale, in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (Cass., sez. V, 11 maggio 1999, Beri Riboli, n. 213631, Cass., sez. V, 29 maggio 1998, Gravina, n. 211479). E nel caso in esame non v’è dubbio, per come risulta dalla stessa sentenza impugnata, che le parole e il complessivo atteggiamento dell’imputato furono avvertiti come offensivi dai testimoni presenti. Sicché, quali che fossero le intenzioni di A.F., risulta scorretta la pronuncia dei giudici del merito, dubitativa in ordine al profilo soggettivo del fatto tipico. La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio limitatamente all’impugnazione di ingiuria.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al delitto di ingiuria, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia per nuovo esame.
Roma, 16 marzo 2005. Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2005.
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