Articolo di Paola Balbo

 

Immigrati: l’invasione che non c’è

di Paola Balbo (Giudice Onorario - Tribunale Sorveglianza Torino)

 

Altalex, 4 agosto 2005

 

Extracomunitari, eccola la parola che risuona come una minaccia e che viene usata alla stregua di uno spauracchio! Mi sembra di tornare bambina quando si raccontava del "babau", il mitico ed orribile mostro cattivo che portava via i bimbi che non volevano andare a dormire.

Siamo ben sicuri che una parola abbia tanta forza d’urto? Eppure a ben guardare ci sono altre parole che per la loro semantica e per il loro sostrato potrebbero e dovrebbe farci molta più paura. Penso ad alcuni esempi che ci compaiono quasi quotidianamente davanti: guerriglia, attentati, pedofilia e violenza sessuale in senso lato, disoccupazione. In fondo con un semplice esercizio di lingua italiana (l’ormai sconosciuta sintassi e la noiosa fonetica o la superba costruzione della frase che erano il fiore all’occhiello dell’italiano ci soccorrono) posiamo ricostruire l’etimologia della parola. Extra è ciò che va o si pone al di là di un dato confine. Se torniamo ai latini scopriamo dal "De bello gallico" di Cesare che tutta una parte oggi italiana, era al di là e quindi barbara. Comunitario deriva da comunis, che è comune o fa parte della comunità. Negli anni si è modificata l’area di riferimento ampliandosi da una parte il numero di Stati compresi nell’Unione europea e dall’altro il panorama delle persone di riferimento e, nello stesso tempo, il meta significato assunto dalla parola usata per definire quanti arrivano ai confini dei Paesi - ora 25 - dell’Unione europea.

Cerchiamo dunque di capire sia i "grandi numeri" delle immigrazioni dai paesi non comunitari, sia le cause scatenanti il fenomeno e l’insofferenza che ne derivano.

In particolare una riflessione va rivolta oggi ancora una volta ai centri di permanenza. Alla fine del 2003 l’organizzazione francese Gisti - Groupe d’information et de soutien des immigrés - mise a disposizione on-line una carta delle distribuzione in Europa dei centri di permanenza temporanei (http://www.gisti.org/doc/plein-droit/58/europe-camps.pdf), o di trattenimento come ritengo da sempre più corretto e rispondente ai fatti definire, dal quale risultava una realtà ancora misconosciuta in Italia circa la quantità e la natura di essi. In Germania e Irlanda, ad esempio, le carceri sono spesso impiegate come centri per trattenere gli stranieri in attesa di espulsione. Vengono inoltre distinti i centri temporanei destinati a quanti sono in attesa del permesso di soggiorno da quelli finalizzati alla sola espulsione. Non solo, dai dati ormai risalenti del 2003 parrebbe che l’Italia si collochi all’interno di un range, quanto a presenza di strutture, inferiore ad esempio alla Francia. Se non è certo intenzione generale di quanti hanno lamentato le condizioni di queste strutture mettere in dubbio anche la necessità di arginare l’immigrazione clandestina, è tuttavia necessità primaria non violare i diritti umani di quanti in buona fede almeno nella percentuale più alta dei casi, si affidano a gruppi senza scrupoli che hanno trovato in questo commercio una fonte ulteriore di guadagni illeciti in quella che è a tutti gli effetti una tratta di schiavi e che, credo a buon titolo, potremmo definire schiavi della disperazione e dell’illusione.

 

Opinioni in prima pagina

 

Les oubliés de la Constitution européenne è il titolo comparso nel 2003 su un editoriale relativo alla Costituzione europea. Vi si sosteneva che se i 25 paesi dell’Unione europea non fossero giunti ad un accordo nell’approvazione del testo della costituzione, sarebbe rimasta dimenticata una parte numerosa composta dai circa 20 milioni di persone che non hanno più un loro posto nell’altra Europa per una diversa mondializzazione, vale a dire di quegli uomini e donne presenti da tempo negli Stati membri alla cui prosperità contribuiscono.

Ciò significa anche che l’accanimento indiscriminato nei confronti di quanti provengono da paesi terzi non dimostra in prima analisi che un timore di nuovi confronti e di conseguenza l’esigenza di arginare una presunta invasione che non esiste o quanto meno non esiste se non in termini affatto nuovi alla realtà dei paesi europei e non solo. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’Italia, non meno di altri paesi, ha segnato il passo rispetto all’emigrazione per ragioni di lavoro e di sopravvivenza propria e dei componenti delle famiglie spesso rimaste in patria. La presenza di stranieri, allora non ancora cittadini europei, in altre nazioni era vissuta oltre che vista come una delle cause della miseria e della disoccupazione5. Si vivevano dunque agli inizi del secolo le stesse angosce e gli stessi timori odierni, solo amplificati oggi dalla frequenza del fenomeno, dalla composizione assai eterogenea per cultura, pigmentazione e per quantità, elemento quest’ultimo dato rapportabile al cresciuto numero di nazioni attraverso le quali si diffonde la presenza di stranieri e alla globalizzazione che facilita o quanto meno favorisce lo spostamento più o meno volontario verso destinazioni prefissate, immaginate o proposte come terra promessa e da quanto trasmesso dai mezzi di informazione e dai novelli mercanti di schiavi.

La prima domanda che si impone è data dal ruolo che avranno i campi di trattenimento temporaneo oggi esistenti. Siamo ben certi che siano almeno adeguati a rispondere alle nostre richieste di sicurezza sociale? Siamo in altri termini veramente sicuri che bastino centri ormai evidentemente e sempre più affollati a rendere tranquilli i nostri sonni? Se così fosse e tenuto conto altresì dello sforzo complessivo e lodevole, con i mezzi e le risorse ad oggi disponibili, delle forze dell’ordine, non dovrebbe preoccupare la criminalità che infatti dovrebbe avere un andamento consolidato.

Possiamo chiamare questi centri come vogliamo, ciò che appare sempre più chiaro è la difficoltà di renderli un momento effettivo di raccolta e soprattutto di rapido avvio ai paesi di origine o di ultima destinazione. Già nel vertice di Tessalonica del 2003 era emersa l’idea di creare centri di trattenimento per il trattamento delle domande di asilo al di là delle frontiere. L’idea di fondo era che l’esternalizzazione delle procedure di asilo e di immigrazione rispondessero ad una preoccupazione umanitaria dal momento che si potrebbe in tal modo salvare la vita ad un numero maggiore di persone che ogni giorno cercano di raggiungere le coste dell’Europa. Associazioni attive sul territorio dei paesi dell’Unione europea oltre che attraverso i siti internet hanno sottolineato più volte il pericolo di una regressione derivabile dall’attuazione di un tale proposito.

Per cercare di comprendere come si è arrivati a questo punto e quali siano le posizioni attuali potremmo riassumere in poche battute le impressioni e gli input che ci giungono quotidianamente da servizi e articoli di giornale. Se polemicamente si ricordava la battuta di Henry Kissinger: "Se chiamo l’Europa, c’è qualcuno che risponde al telefono?", per sostenere che l’Europa in quanto organismo unitario non compare nel contribuire a combattere o comunque contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, per affermare che l’Italia è sola e quindi, fino a che tale rimane, anche impotente o quasi ad intervenire in modo soddisfacente al problema, potremmo controbattere che l’Europa rimarrà assente fino a che 25 Stati continueranno a pensare isolatamente sul piano della politica di sicurezza interna ed esterna, correndo alla riaffermazione di un campanilismo nazionalistico che non serve in ogni caso e non basta da solo a salvaguardarne la storia (sempre ammesso che questo sia una delle potenziali scusanti)8. Se ciò è vero, come è vero, diventa altrettanto difficile non condividere l’osservazione che il fenomeno dell’immigrazione clandestina "ha assunto dimensioni tali che non consentono più il lusso e il rito delle liti estive nel Governo" divenendo necessario affrontare il problema su tre dimensioni: nazionale, europea, internazionale. Ciò non fa che riproporre l’urgenza ancora prima delle modalità di intervento, di definire una coerente operatività sopranazionale e transnazionale che, pur garantendo un margine di azione autonoma degli Stati giustificata e doverosa anche in relazione alla diversa caratterizzazione ed entità del fenomeno, vada a superare le posizioni singole ma da queste si astragga per cogliere e realizzare le esigenze comuni.

Del resto la situazione italiana offre uno spettro di informazioni, problematiche, contraddittori inquadramenti del fenomeno sia inteso nel senso piano dell’arrivo o della permanenza illegale di immigrati, sia in quello della presenza crescente di episodi criminosi associati quanto meno a questa situazione. L’informazione che ci giunge dai mezzi di comunicazione tende ad essere sociologico - idealista, a favore o contro gli stranieri spesso mossa dalla corrente politica del momento, tecnico - giuridica quando fornisce dati relativamente asettici e statistici.

Per il principio generale che non possiamo affermare una verità assoluta, l’unica cosa che ci rimane da fare è analizzare le informazioni che ci bersagliano e tentare di capire cosa potrebbero dirci. Se, ad esempio, leggiamo "Aumentano i clandestini in Italia, ma paradossalmente il loro ingresso non avviene attraverso i viaggi della speranza ma regolarmente muniti di visto", pochi giorni troviamo "Pattuglie miste italo-libiche con unità navali, aeree e terrestri a guardia delle frontiere del paese africano, per fronteggiare le partenze dei clandestini" e nello stesso tempo ecco l’opinione allarmante e da prendere in seria considerazione per la sua veridicità e per le conseguenze che ne derivano a scapito dei "disgraziati" che rischiano con i viaggi della speranza per la quale "Un Paese che non sa fronteggiare da solo "l’invasione arabo-africana" sulle sue coste e non riesce a controllare tutti gli islamici sul suo territorio, che si trova a fare i conti con "schegge impazzite dell’antiamericanismo" che prendono per oro colato le dichiarazioni di al-Qaida" perché rispetto all’ingresso di persone legate al terrorismo "è ormai chiaro che l’Italia da sola non è in grado di fronteggiare l’invasione arabo-africana se l’Unione europea non si fa carico della politica dell’immigrazione"; il dato preoccupante conclusivo si articola secondo due direttrici. Come già accennato, la presenza o l’arrivo di terroristi attraverso l’immigrazione clandestina costituisce un problema nel problema, dal momento che non ci sono sufficienti risorse per poter intervenire e capire se e quali degli approdati alle nostre coste siano sventurati e quanti non. Potrebbe essere di aiuto forse una correzione della norma che consenta di aiutare coloro che siano capaci di fornire indicazioni tra i fermati. Sicuramente il timore concreto e concretizzabile di una tale possibilità non può che aumentare l’ostilità e le richieste di tutela della sicurezza sociale attraverso l’adozione di misure particolarmente rigide. Nello stesso tempo ecco che la dichiarazione citata sul ruolo che dovrebbe assumere l’Unione europea in questa lotta, mette a nudo il problema di fondo che rende difficile proprio la scelta e successiva applicazione di prassi da parte della UE. L’Unione europea siamo noi a farla vivere. Essa nasce dall’accordo di una serie di Paesi che, come organizzazione di rappresentanti di governo e come presenza composita di parlamentari scelti con libera elezione a rappresentare i cittadini di quegli stessi Stati membri, opererà e, prima ancora verrà pienamente in essere, solo quando tutti i partecipanti vi aderiranno come elementi essenziali. Non siamo infatti di fronte ad uno Stato terzo rispetto al quale presentare petizioni o avanzare pretese, rimanendo ad attendere la risposta. La risposta è il risultato dell’azione concertata comune, degli input e della capacità di cedere su alcuni punti per realizzare una unione, altrimenti dovremmo definirla in altro modo ma non avrebbe più ragione di essere la definizione di un francese o di un olandese o di un italiano come cittadino francese, olandese o italiano ed europeo allo stesso tempo. Come recitava una graziosa commedia americana degli anni ‘60, se non si fa questo passo ulteriore ed urgente ci troveremo nella condizione di colui che vuol godere di tutti i vantaggi del matrimonio senza alcuno degli svantaggi! La conferma di ciò, seppure attraverso una sintetica presentazione dell’evoluzione compiuta dal Trattato di Maastricht a quello di Amsterdam sul ruolo e le competenze dell’Unione europea, ci viene anche da un commento "tecnico" di Giuliano Amato che richiama sì il silenzio dell’UE sottolineato anche dal Ministro dell’interno Giuseppe Pisanu, ma non può non ricordare la contemporanea affermazione dell’ex Presidente della Commissione europea Romano Prodi che ribadisce come le competenze ci siano in effetti, ma altresì gli Stati rendano quasi impossibile esercitarle.

Ha allora ragione di esistere l’opinione di coloro che pacatamente rilevano le difficoltà di "conciliare il diritto dello Stato di tutelare le frontiere e la sicurezza pubblica, anche con misure di contrasto dell’immigrazione clandestina, con il rispetto delle garanzie fondamentali che nei regimi costituzionali spettano a ogni individuo", rilevando insieme come "le esigenze di tutela della sicurezza pubblica vengano soddisfatte davvero" quando siano "predisposti i necessari accorgimenti"; sottolineando una volta per tutte con buona pace dei politici dell’ultima ora, che l’Italia "se non altro per ragioni demografiche, ha bisogno oggi – e avrà ancora più bisogno domani – di immigrati".

Ci siamo di fatto soffermati sulle espressioni introdotte nel corso del tempo per spiegare il fenomeno cui assistiamo più o meno passivi e altrettanto indignati? Ci siamo mai resi conto fino in fondo del peso che una certa parola od espressione è in grado di suscitare nel lettore? Se incontriamo "viaggi della speranza" per indicare gli sbarchi dei clandestini in prossimità delle nostre coste e ne traiamo una impressione, quando altrove si descrive quanto accade quasi quotidianamente in questi termini "Nel mondo, intanto, si muovono masse immense di "senza diritti", che fuggono da paesi dove i diritti elementari (la vita, il cibo, il lavoro) sono loro negati e vanno speranzosi verso paesi dove vorrebbero ritrovarli. Sono i nuovi ‘dannati della terrà", siamo ben certi di quanto leggiamo e capiamo a prescindere da impostazioni e convinzioni religiose o politiche? A ragione lo stesso editoriale sottolinea la difesa della dignità umana quale diritto inviolabile propugnato dalla nostra Costituzione e arriva a ricordare che essa va intesa nel suo senso più ampio. Allora, continua, "La condizione di immigrato clandestino, dunque, non può mai trasformare una donna o un uomo in una "non persona", non può mortificare la sua umanità". Su questa stessa linea si collocano altre opinioni. Se infatti il direttore della Direzione generale per la giustizia e interno della Commissione generale Jonathan Faull ha sottolineato l’aspetto finanziario che grava su tutti i paesi europei ed esteri coinvolti nel fenomeno dell’immigrazione clandestina, dall’alto commissariato Onu per i rifugiati deriverebbe l’opinione secondo cui il rimpatrio di massa messo in atto dall’Italia non sarebbe in linea con la Convenzione di Ginevra.

In questa corsa sfrenata a chi ottiene di più e vanta un maggior nazionalismo talora venduto come sicurezza sociale, manca ancora una volta la capacità di guardare oltre e di intuire e recepire dando prova di flessibilità ed intuito, quanto viene sperimentato fuori dai nostri confini. È un dato di fatto che un primo passo è stato in generale l’approvazione o comunque la messa allo studio di leggi più severe. Un secondo passo è la crescita ovunque di centri di raccolta o trattenimento e il terzo passo è stato di natura tecnica, ma avviato e ad oggi attivo in un solo paese: la Spagna. Si tratta di un sofisticato sistema integrale di sorveglianza esterna (Sive) il cui costo non è certo di poco conto, dal momento che si parla di 142 milioni di euro, ma che dovrebbe blindare elettronicamente lo stretto di Gibilterra e ciò a partire dal 2002. Si tratterebbe di quattro torri dotate di radar, camere termiche e infrarossi, capaci di individuare tutti i movimenti dei barconi entro un raggio di 20 km.

Sull’altro fronte non si contano negli anni gli articoli volti a dimostrare l’integrazione degli immigrati nelle aree del paese a maggior produttività, con una picco in particolare nel Nord-est. Interessante è una analisi secondo la quale si registrerebbero due fenomeni: la polarizzazione, ovvero la maggior capacità delle regioni costiere del nordest di attrarre stranieri; e l’inserimento lavorativo in azienda i cui livelli più soddisfacenti si riscontrano nelle regioni del Centro (esempio Toscana e Marche) e nel Nordest costiero. Altrettanto interessante, nella stessa analisi, il rilievo che la stabilità sociale sembra raggiungere - stando al rapporto del Cnel - livelli alti specie in Piemonte e Lombardia, "regioni di più lunga e consolidata tradizione migratoria, e alle regioni centro-settentrionali del versante adriatico".

 

Riflessioni

 

In questo quadro complessivo, che consentirebbe di aprire ampie riflessioni, rimangono sospesi in attesa di risposta alcuni quesiti. Perché non si affronta il problema della migrazione economica, necessaria, sotto il duplice profilo del riconoscimento della professionalità acquisita (bassa o alta non è importante, ma è determinante che ciò avvenga nella prospettiva di una presenza degli stessi soggetti in diverse parti dello stesso Stato o in altri dell’UE) e del riconoscimento dei titoli di studio e professionali degli stranieri nell’UE e nei Paesi di origine o provenienza affinché il lavoro svolto diventi spendibile e metta le persone in grado di rendersi autonome? Perché non si cerca di attuare sui territori nazionali - europei ed extraeuropei - una formazione ed informazione vere che rendano consapevoli le persone dello sfruttamento economico ma anche psicologico e fisico cui vanno incontro affidandosi ai trafficanti che promettono loro l’arrivo in isole felici?

Perché non si crea, specie nei centri di trattenimento temporaneo, una autentica mediazione culturale capace di impiegare anche risorse lì trattenute per veicolare l’informazione e non solo la decisione autoritativa sulla cui completa natura non sempre e non tutti sono in grado di comprendere la portata? Perché non ci si interroga sulle potenzialità che potranno derivare negli anni dalla compresenza di sistemi economici diversi occidentale basato sul sistema bancario e dei prestiti e musulmano che non consente i prestiti ma prevede la partecipazione iniziale delle banche nelle attività che finanzia con tutto ciò che ciò comporta in termini di future commistioni di sistemi? Infine, ma non ultimo quesito, perché non si veicola anche tra gli Stati membri l’informazione affinché si eviti quanto meno una regressione generale generata dal fatto che i nuovi aderenti all’UE oltre a dover affrontare e in certa misura subire il limite della libera circolazione in Europa finalizzata in particolare al lavoro (senza che ciò tuttavia sia stato in misura importante previsto rispetto agli allora espulsi condannati clandestini autori di reati gravi, che non mi risulta essere stata prevista), affrontano ora il timore della perdita di lavoro nei loro territori nazionali per l’arrivo di stranieri con termini che ricordiamo benissimo in quanto ricorrenti in Italia, Francia, etc., ancora ora? Allora delle due l’una:

o con molta ipocrisia il timore della perdita di lavoro negli ex 15 Stati membri UE era solo facciata, ma allora i rappresentanti dei governi nazionali dovranno spiegare tutte le ragioni dei limiti posti alla migrazione economica dei nuovi 10 Stati aderenti, visto che complessivamente si sostiene l’esigenza della crescita di manodopera qualificata e non portata dagli stranieri e contestualmente di quella demografica andando a cercare gli strumenti più efficaci per una integrazione che non snaturi le reciproche tradizioni culturali;

oppure il problema diventa ben più complesso in quanto parte delle persone dei nuovi 10 Stati membri cercano possibilità lavorative altrove lamentando carenza di lavoro e mezzi di sostentamento troppo bassi rispetto al tenore dei paesi ad altissimo livello industriale e al contempo da parte di queste stesse nazioni arriva il grido di paura per il venir meno di potenziali posti di lavoro per il contemporaneo ingresso di extracomunitari.

Sembrerebbe che entrambe le alternative trovino un loro fondo di verità e ciò è innegabile. Dunque esiste una distorsione della realtà e forse una voluta cecità rispetto ad alcuni elementi che non sono tanto sociologici o giuridici in senso stretto quanto economici in senso lato. Verrebbe infatti da ritenere che in tutta questa corsa alla caccia agli stranieri e alla loro ricerca per coprire carenze di personale, si nasconda anche una consapevolezza che così facendo si mantengono sacche di povertà facilmente sfruttabili e aree del mondo ove è facile spostare la produzione "perché costa poco", ma costa poco - e mi si perdonerà la ripetizione - là non si ha interesse a mantenere i diritti minimi umani, sociali, di sicurezza. Non costituisce un problema se ci sia sfruttamento di manodopera femminile, minorile o complessiva e nessuno sa o si ricorda se siano stati accettati da certi Paesi le convenzioni internazionali per la salvaguardia dei diritti umani. In certi casi è come se due mondi paralleli convivessero oltre i confini dell’Unione europea o al suo interno ogniqualvolta l’alter è effettivamente lo straniero.

 

 

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