Ricerca sugli stranieri detenuti


Riflessioni conclusive

Il senso dell’esperienza detentiva e la percezione del futuro

 

Le pagine precedenti rappresentano un primo e parziale resoconto di una indagine che ha adottato come principio metodologico la creazione di uno spazio cooperativo con i soggetti della ricerca, attraverso lunghe interviste semidirettive, la condivisione per mesi di uno spazio-lezione e decine di discussioni informali, letteralmente "rubate" qua e là ai ritmi imposti della prigione. Insieme alle persone intervistate e a molte altre che ho perso di vista prima di poterlo fare (perché trasferite o scarcerate), ho tentato di gettare uno sguardo dentro una prigione, andando oltre i numeri forniti dalle statistiche.

Il confronto con migranti nati in posti diversi dal mio ha conferito un particolare orientamento al mio modo di vedere ciò che osservavo. Lo sguardo dello straniero in carcere è uno sguardo particolare: è interno ed esterno al tempo stesso; uno sguardo da dentro perché come altri disperati che hanno la sventura di viverla, il migrante sperimenta l’assurdità dell’esperienza carceraria; uno sguardo da fuori perché la differenza che incarna e che si porta appresso stravolge il nostro rapporto abituale con ciò che è consueto e ciò che non lo è, con ciò che è normale e ciò che è mostruoso, guardando dall’esterno.

Per questa ragione anche la strategia espositiva scelta in queste pagine ha privilegiato per quanto possibile la trascrizione delle interviste, nel tentativo di dare, una volta tanto, voce in capitolo, a chi non ce l’ha. Ovviamente sono consapevole di aver presentato una selezione di storie e di impressioni che ha privilegiato alcuni aspetti e lasciato in ombra altri, ma la responsabilità delle scelte e del posizionamento sono parte integrante del metodo etnografico. Al fine di garantire la massima trasparenza ho comunque sempre distinto chiaramente le trascrizioni riportate dal mio commento e quando mi è sembrato necessario anche le domande che avevano sollecitato determinate risposte.

Credo dunque di aver dato un quadro verosimile e ragionevole della vita quotidiana degli stranieri al Pagliarelli; un quadro che certamente si può e si deve ancora approfondire - portando alla luce altri aspetti, come la questione della sessualità, che non ho avuto modo di trattare - ma che è suffragato da testimonianze esplicite e per nulla reticenti. Inoltre, tra le righe dell’analisi di ciò che è, ho cercato di anticipare anche ciò che potrebbe essere, suggerendo una trama di nuove relazioni dentro il carcere che, rifiutando la cultura del taglio propongano - con una paziente azione di tessitura - quella, senz’altro più creativa, del cucito.

Ma anche in sede di conclusioni vale la pena dare spazio, ancora una volta, ad alcune riflessioni, raccolte alla fine delle interviste, sul senso dell’esperienza detentiva e sulla percezione del futuro. Non deve essere facile riuscire ad esprimere il senso di una esperienza come quella della reclusione. Di certo ancora meno facile trovarle un significato positivo, convincersi di poterne uscire arricchiti piuttosto che ancora più poveri. Le persone che ho intervistato sono concordi sul fatto che quanto meno hanno avuto il tempo per riflettere, ma nessuno se l’è sentita di contrabbandarmi in alcuna forma la positività del carcere: "il carcere diciamo è un universo profondo non può dire ogni giorno che io sarò capace da capire cosa significa essere carcerato, o magari cosa significa il carcere davvero. Certi momenti dice uno "sfrutto questi momenti, questi anni per migliorarmi, per avere una possibilità di ottenere una cosa valida per la mia vita, per il futuro" ma certi volte ti capitano certe cose che ti fanno sentire la sofferenza, ti fanno così capire che il carcere non è un posto di inserimento, di cambiamento morale".

"Quando una persona entra in carcere si stampa nella sua mente subito un punto interrogativo, se fa l’ingresso in galera entra con lo dico in francese point d’interrogation, e questo punto lo ossessiona, giorno e notte; come mai? Perché per la quale? E questo punto interrogativo ti compagna tutta la sua carcerazione il momento della giornata sì ci sono quelli che cercano di vivere in modo diverso o di concentrarsi su un libro o magari di avere un mediazione culturale di andare a scuola e dimenticare un po’ perché questo punto non puoi toglierlo e quel momento che tu ti distrai ce l’hai presente: ma perché sono qui, perché dovrei essere qui, quale ho fatto, dove ho sbagliato? Perché ho sbagliato? Non c’è peggior cosa che avere tanto tempo a disposizione per riflettere perché questo ti consuma perché fuori anche una persona che magari disorganizzata in vita sua sei sempre rapito dalla quotidianità cioè o… sei rapito, devi preparare denaro devi vedere qua, c’hai i figli che vanno a scuola e quindi sei non hai più di riflettere se ce l’hai poco tempo. Qua hai un casino di tempo da riflettere e questo qua consuma la persona li consuma e specialmente coloro che si concentrano, che cercano di non deviare, di non schivarlo.

Certamente la mia riflessione nasce non solo da me stesso ma anche da un dialogo con gli altri, con parecchie persone, non mia personale, io mi ricordo una volta ebbi un mio compagno di cella un mio connazionale che una mattina si sveglia.. e dice una parola in arabo che dice, io ora interpreto, dice, a parte che questo qua non svegliava mai, svegliava sempre alle 10, mezzogiorno e una mattina lo trovo in mezzo al letto e gli chiedo ma che è successo? Perché io mia abitudine è svegliarmi presto, eh e mi dice una frase poetica, cioè filosofica, dice "il carcere ammazza la speranza e spegne il sentimento umano". Io gli chiesi "ma l’hai letta su qualche libro?" Mi dice "perché devo leggerla, non l’ho letta da nessuna…" perché in questa frase ho visto un … cioè il carcere ammazza la speranza e spegne il sentimento umano, dico perché è talmente.. mi ha affascinato questo versetto. E dice allora "perché non mi sento più come, ci sono delle cose che stanno cambiando dentro di me, ma non sento più come prima, cioè ma appunto non riesco a dormire di notte e arrivo alle 6 7 di mattino e poi inizia il mio incubo dice, sogno guerre sangue gente che mi corre addosso che mi vuole soffocare…" varie cose, appunto la mia riflessione non è solo mia, ma certo nasce da un determinati dialoghi con gli altri riflessioni con gli altri non solo mie".

 

Oltre al fatto personale, al senso di sconfitta individuale, c’è nelle storie che ho ascoltato la denuncia del fallimento di un’istituzione il cui fine sembra essere soltanto quello di replicare se stessa: "dimmi tu come…potrei pensare che domani io esco una persona cambiata, anche se non dovrebbe essere così, dimmi tu se uno esce fuori da questa situazione. Questa è la cosa più… perché si chiama istituzione… ci sono le strutture che dovranno cambiarti, perché le strutture non è che mancano, qui manca l’organizzazione, di quelle strutture di legare, non è che mancano le educatrici come nel mio paese dove è pura 100% punizione, non c’è assistente volontario, non c’è educatore… […] qui ci sono già le strutture è peccato non farsi funzionare […] mi dispiace che non funzionano le cose non la vedo nell’aspetto personale sai?, la vedo più.. cioè esce qualcuno qua fuori va fuori, non è cambiato per niente, forse è peggiorato sai perché non l’ha aiutato nessuno a cambiare il suo modo di concepire la vita anche di trovare altre forme di vivere fuori perché io credo che le forme più efficaci la sensibilazione, qua mancano non ci sono quelle forme. È per questo che vedi persone che sono entrate 10 volte che entrano e escono che cosa vuol dire? l’inefficienza di strutture carcerarie, a parte quelle esteriori".

 

Per chi come quasi tutti gli intervistati si trova già almeno alla seconda esperienza detentiva, la spinta alla elaborazione di un progetto per il futuro cozza ancora dentro le sbarre con la consapevolezza che l’isolamento e la mancanza di supporto fuori sarà forse ancora più radicale di quanto non lo sia dentro:

 

"ti dico la verità, ti dico la verità, se per me… io voglio…voglio mettere tutte queste esperienze alle spalle, dietro no, voglio vivere una vita come un cittadino normale, trovare una occupazione qualsiasi per vivere tranquillo, ma la cosa che non puoi farla, trovarla, quando esci, davanti la porta del carcere, davanti la porta del carcere, esci, ti lasciano, "vai, ciao. Ciao", Ma dove vai? Ma dove vai? Dove vai? Esci dalla porta, dove vai dopo? Dove vado? Non ce l’ho niente fuori! Non ce l’ho niente dove andare, non c’è, non lo so neanche dove!... Capito? La cosa è che se qua dal carcere se uno prima di uscire, diciamo, due mesi, tre mesi aveva contatto con altre persone che sono da fuori, luoghi, potete… persone… così e così… non diciamo che per tutte le persone, possono trovare una casa, lavoro, così perché questa cosa è difficile anche per gli italiani, e anche per noi no? Ma almeno se uno esce, se io o un’altra persona esco dal carcere, è la verità questa, non è perché è una cosa… perché io l’ho vissuta, l’ho vista una volta seconda, terza, quarta, l’ho vissuta e quando esco dal carcere, niente. Io vado… il futuro mio, mi piace se trovo un lavoro, una casa, dove dormo, esco la mattina, vado a lavorare anche per cinque ore, anche per un salario basso!, almeno che ce l’ho una occupazione. Se non ci sono queste cose, se non c’è chi ti dà un aiuto rimani sempre alla strada e sempre… perché qua noi… se tu non fai per trovare mangiare, fumare o fare le cose, così, un lavoro, no? Per forza tu vai a spacciare, vai a fare un furto, queste cose, non perché lui ha voglia di fare quelle cose, no! Ma perché lui non ce le ha, per necessità, capito? Non è diciamo… se uno ce l’ha un lavoro e una casa, io non vedo quella persona va a spacciare o a rubare!"

 

In questo caso, continua, l’intervistato, forse è meglio tornare in Tunisia:

 

"Tunisia, sì. M’hanno detto, se non c’è niente, basta questa galera, ogni volta dentro la galera, carcere, carcere, carcere, basta se… noi siamo stanche e anche tu di più, forse, va bene, se trovi la possibilità di tornare, torna e basta e torna qua, se hai lavoro, di restare, ma almeno cerca di evitare queste cose, carcere, carcere. Io per me ho pensato moltissimo, come vivo adesso, quando esco dal carcere, mi portano nel centro, e dopo cercano così, così, io vorrei alla fine della mia pena quando esco, io tutto giusto, mio nome, indirizzo, tutto, tutto non è che, se volete mandarmi al mio paese sono pronto ad andare, non è che dico no, perché sono stufato, ti dico la verità, a posto, basta, mi sono stancato, se mi lasciano, come mi hanno lasciato prima, la prima volta, seconda volta, dieci volta, mi lasciano "vai" dice, lì diventa problema, lì diventa problema, quando ti lasciano davanti la porta del carcere e ti dicono "va’", lì diventa problema, e quello diventa problema, capito, se loro… io non ho fatto carcere in Francia o in altro paese, ma ho conosciuto persone che hanno fatto carcere in Francia, in Germania, in Svizzera, in Austria, se uno esce, la prima volta va bene, ti dicono "va’ esci", la seconda volta, se uno entra in carcere non ti lasciano andare via, no e ti mandano subito al paese, se a me, o altre persone, quando per la prima volta sono entrato in carcere, ho fatto sbaglio e sono entrato in carcere, dopo mi hanno portato "tu non devi stare qua in Italia, vattene al tuo paese", forse io forse non vengo neanche, sto lì, ma se loro ogni volta che tu fai il carcere ti aprono la porta e ti dicono vai esci, dopo due mesi, tu vieni di nuovo, fai dieci mesi, un anno ed esci dopo ti dicono "vai" aprono la porta e vai e dopo ti dicano che sei un spacciatore, delinquente e così, così, così, così, per forza, per forza …se tu mi lasci la prima volta, seconda volta, Io qua non ci ho né padre né madre, né fratelli, nessuno, che mi dà una mano, nessuno e io vado a cercare un posto di lavoro, no? Se io vado all’ufficio collocamento di lavoro, senza documenti, come lui può trovare me un lavoro, non può, non può trovare un lavoro!".

 

Ma la volontà di tornare al proprio paese costituisce un’eccezione e la maggior parte non rinuncia al sogno che l’ha spinta a migrare, dichiarando di voler rimanere in Italia o di non potere tornare nei propri paesi di origine nelle attuali condizioni economiche. E questo nonostante la lucida consapevolezza delle ostilità nei confronti degli stranieri cui si andrà incontro una volta fuori: "il posto più peggiore per gli stranieri è l’Italia perché secondo me l’Italia è il posto peggiore, in Germania non c’è questa cosa questa pressione sui stranieri, hanno milioni di turchi, non c’è questa cosa pazzia, ci sono addirittura paesi dove è nato il razzismo dove ci sono i veri naziskin, ma è limitata a loro, qua, c’è più pressione, l’opinione pubblica, la mass media fanno pulire subito (parola incomprensibile) allora dentro ti senti, già guardi sempre la tv e vedi ogni giornale senti parlare di te, uno come te. Poi non vedi mai cose positive su di te, perché prime notizie sono sempre, un straniero è entrato e ha ucciso, un straniero è entrato e ha rubato, un marocchino ha ucciso una donna, non è che uno straniero ha fatto un negozio, salvato una vita, ecco che vende, che ha fatto bene, fanno vedere cose negative, e come può essere un cittadino accettato? Allora tu dentro… (abbassa la voce) allora io esco e cosa faccio? La storia… mia vita è stata negativa dentro e fuori, perché ti guardi marginale anche dentro non sei in pace, non puoi fare niente, perché già… fanno quelle notizie essendo straniero già domani esci all’aria camminare, perché essendo straniero…logico che devi avere questi sentimenti, che già qualcuno di quelli ragazzi ti guardano male questi qui ma guarda questi stranieri di merda c’è chi lo dice, ma non te lo dice in faccia!".

"Sì, questo discorso, il carcere; è una brutta sventura, il carcere non è mai un paradiso… il lato positivo mi ha fatto imparare nel senso tante cose sono cambiate, no? e adesso non mi frego più, non entro più, mi credi?, non entro più, cerco un lavoro per bene, no? 70 mila 100 mila a me mi sta bene, vicino fuori c’è mia figlia che gli manca la mamma, manca il papà, le manca tutto, non mi sembra giusto farla soffrire… Questo mi tormenta di più. Io in carcere non torno più… non torno più… Il lavoro, perché sto andando in comunità, se va tutto bene come mi hanno detto no? mi aiutano come mi hanno detto.. il programma, il lavoro e (non si capisce) abitare con loro e ti danno anche un appartamentino per 6 mesi paghi 200 mila (non si capisce) 200 mila al mese per sei mesi , mi trovano un lavoro e che cosa vado a fare? e che vado a spacciare? Qua adesso la legge sta diventando più dura con questi. […] No io carcere basta, basta, non voglio più fare quella vita, no? a mettere Nike, a metti oro, vai in discoteca, spendi, faccio, voglio essere solo un marocchino, no? [ridendo dni] no americano!!

 

Perché la partenza è stata quella?

 

Ah! faccio l’americano, entro qua, spendo qua, fare…. Nooo. voglio essere solo un marocchino, 100 mila spendo 20. 80 sotto materasso, domani c’è sotto materasso e così si fa anzi è tardi, ma non è mai tardi…"

Quasi tutti dunque mi raccontano di essere stanchi della vita precedente e di volere ricominciare; giurano di volersi accontentare di una vita umile ma dignitosa e senza rischi. Non fanno fatica a convincermi perché si vede che sono in buona fede e davvero si augurano di potercela fare. Ma il problema è proprio questo: che a parte qualcuno più fortunato, molti di loro tra le mani hanno sì delle speranze e degli auspici per il futuro ma, purtroppo, nessun progetto.

 

Brevi note a margine dell’osservazione del corso

 

L’opportunità di partecipare allo svolgimento di un corso seguendone tutte le fasi mi ha dato modo di osservare alcune dinamiche proprie dell’attuale organizzazione penitenziaria e sperimentare in prima persona alcune delle difficoltà e frustrazioni descritte dagli intervistati. Molte delle impressioni registrate sono confluite nelle pagine precedenti insieme alle testimonianze dei miei interlocutori. Ma qui vale la pena aggiungere alcune riflessioni. Una prima considerazione riguarda la precarietà della posizione di qualsiasi detenuto e soprattutto degli stranieri all’interno di un penitenziario: in qualunque momento, infatti, la sconvolgente pratica dei trasferimenti senza preavviso e senza alcuna considerazione per le attività trattamentali in corso, può sottrarre agli individui la possibilità di completare un percorso formativo già iniziato e al gruppo classe già stabilizzato, preziosi elementi che contribuiscono al suo equilibrio complessivo. Di qui l’enorme difficoltà nel portare a termine il corso col gruppo di partenza, di qui la necessità di affinare i meccanismi di selezione dei partecipanti al corso per evitare di togliere spazio ad altri dandolo a detenuti che verranno magari scarcerati dopo un mese dall’inizio delle lezioni.

La seconda considerazione riguarda lo spreco di tempo. Perché se è vero che di tempo sembra essercene moltissimo in prigione, in realtà se ne spreca così tanto che alla fine non basta mai, e così parte delle ore che dovrebbero essere dedicate alle lezioni si consumano aspettando che un meccanismo lentissimo - un po’ per gli effettivi passaggi burocratici imposti dal regolamento ma soprattutto per la scarsa collaborazione degli agenti - faccia arrivare tutti in aula. E così in cinque mesi di lezioni le volte in cui non si è cominciato in ritardo si contano sulle dita di una mano. Il corso diventa allora lo spazio per discutere l’insensata normalità del carcere e per cercare di disinnescare gli effetti negativi delle aspettative deluse e di meccanismi di deutero apprendimento che insegnano pratiche e concetti opposti a quelli presentati durante le lezioni.

Se il carcere tutto intorno all’aula ha le caratteristiche di un spazio in cui si insegnano e si impongono ad individui adulti deresponsabilizzazione e infantilizzazione, che come ha notato Sofri cominciano persino dal linguaggio (i detenuti non fanno richieste, fanno domandine, come i bambini), un setting formativo ben progettato può diventare un luogo di esercizio della responsabilità individuale e collettiva, un luogo di riappropriazione delle capacità di scelta altro rispetto al proprio corpo, uno spazio di contrattazione della fiducia separato dall’ossessione del controllo. In questa prospettiva il corso diventa quindi un terreno su cui i detenuti possono confrontarsi e scontrarsi autonomamente riacquistando la dignità e la responsabilità dell’essere adulti, uno spazio narrativo, nel quale costruire insieme nuove pratiche e nuove storie.

 

 

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