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Diritto alla salute negato. Di medicina dietro le sbarre se ne occupano i magistrati, non i medici. Nonostante la legge disponga il contrario
Liberazione, 14 aprile 2002
«I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali». Agli occhi di un osservatore non avvezzo a cose carcerarie questa affermazione appare una ovvietà, perché dovrebbe essere scontato che cittadino detenuto e cittadino libero pari sono per quanto riguarda il diritto alla salute. Invece no. Questa apparente ovvietà non è altro che la formulazione dell'articolo 1 di quel decreto legislativo n.230 che nel giugno del 1999 ha dato vita alla riforma, da tempo sollecitata e mai portata a termine, della sanità penitenziaria.
Riforma inattuata
In questi tre anni avrebbe dovuto compiersi, seguendo una sperimentazione timorosa e graduale, il passaggio di funzioni della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al ministero della Sanità, nel presupposto, fondato, che di gestione e programmazione della salute debbano occuparsene i medici e non i magistrati. E invece nulla è accaduto. Alcune delle Regioni dove avrebbe dovuto sperimentarsi il trasferimento di competenze hanno colpevolmente latitato, probabilmente rassicurate da via Arenula. In Puglia, ad esempio, nulla è stato approntato che abbia la parvenza di una attuazione minimale della riforma. Durante il nostro lavoro di osservazione delle carceri abbiamo contattato un funzionario dell'assessorato alla sanità pugliese il quale ci ha tranquillamente confessato che tutto era bloccato in attesa di disposizioni degli organismi centrali, mai giunte. E la Puglia del governatore Fitto, il piccolo Berlusconi, era una delle tre regioni originariamente prescelte per la sperimentazione dalla Conferenza Stato-Regioni. Nel frattempo la stessa Regione Puglia ha approvato nel dicembre 2001 il primo piano sanitario regionale che regolamenta le linee di sviluppo della sanità rimuovendo l'esistenza del carcere.
Sovraffollamento
Chiunque oggi visiti le carceri italiane vi incontrerà detenuti gravemente ammalati a cui viene negata ogni possibilità di uscire per curarsi. La magistratura di sorveglianza applica con estremo e ingiustificato rigore anche la legge sulle misure alternative per i malati terminali e i malati di Aids. I reparti clinici penitenziari sono abitati da pazienti che versano in condizioni gravissime. E alcuni di questi in carcere ci lasciano la pelle. A nulla vale l'obiezione che anche fuori sarebbero morti. Perché non è una risposta degna di un paese civile. L'elenco dei morti è lungo. A volte si muore perché si sta male. Nel carcere di Enna il 18 maggio 2001 muore C.G., 59 anni. Solo un mese prima gli era stata rigettata la richiesta di sospensione della pena per ragioni di salute. Oppure nel carcere di Vigevano il primo agosto 2000 G. D. G. muore per emorragia interna e nessuno dispone per tempo il ricovero all'esterno. In questo caso è in corso un processo per omicidio colposo a carico di due medici.
Strani suicidi
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, Vincenzo Caputo, proprio nei giorni scorsi ha deciso di riaprire il caso di Maurizio Solobrino, 26 anni, detenuto ex tossicodipendente che fu trovato impiccato nella sua cella a Secondigliano il 18 settembre del 2000. La prima diagnosi fu suicidio. Il GIP ha però disposto la riapertura delle indagini in quanto testimoni ritenuti attendibili hanno sostenuto che il detenuto subì un pestaggio nel carcere poco prima della sua morte. Solobrino era dentro per il furto di un'autoradio denunciato dalla sua stessa madre. Il 20 febbraio 2001 dieci fra agenti di polizia penitenziaria e operatori sanitari vengono indagati dal sostituto procuratore della Repubblica di Potenza Henry John Woodcock per i maltrattamenti inferti ad un detenuto tunisino. L'inchiesta era cominciata il 3 agosto 2000 quando Tbini Ama, un giovane tunisino di 21 anni era salito sui tetti del carcere per protestare contro le percosse subite il giorno prima. Un consulente nominato dal PM avrebbe accertato la compatibilità delle lesioni riportate dal detenuto con i maltrattamenti denunciati. Le ipotesi di reato contestate sono: lesioni gravi e gravissime, falsa certificazione medica. Il giovane tunisino si suicida il 17 aprile 2001. Per due mesi è rimasto nello stesso carcere e con le stesse guardie che lui aveva denunciato per maltrattamenti.
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