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Il medico e il detenuto
Francesco Ceraudo, direttore del centro clinico del "don Bosco" di Pisa, denuncia la "crudeltà inutile del sistema carcerario" e racconta il detenuto Sofri, per il quale ha chiesto la grazia a Ciampi
Il Manifesto, 8 maggio 2002
"Il 25 gennaio 1997, alle ore 10, Adriano Sofri entra per la prima volta nel mio ambulatorio presso il Centro clinico penitenziario del don Bosco di Pisa. È stato un incontro difficile. Da una parte, io cercavo di capire il suo stato di salute, soprattutto le condizioni psicologiche in cui si veniva a trovare in seguito alla sentenza della Corte di Cassazione che lo condannava a 22 anni di carcere. Lui, molto riservato, mi scrutava attentamente non tanto per sapere chi ero, ma soprattutto per capire come la pensavo". È un passo della lettera - testimonianza scritta dal professor Francesco Ceraudo al presidente Ciampi perché conceda la grazia d’ufficio ad Adriano Sofri, "uno spirito forte che il potere perverso del carcere non è riuscito a scalfire in alcun modo". Non conosciamo di persona il direttore del Centro clinico del don Bosco, Sapevamo che è in gran parte merito suo se Ovidio Bompressi per la terza volta è sopravvissuto al carcere. È bastata una conversazione al telefono per capire che anche lui è uno "spirito forte" che ha conservato "coerenza e dignità" in un luogo dove "infinite sono le occasioni di compromesso e di sottomissione". Adriano Sofri sta al don Bosco da cinque anni, Ceraudo da trenta e questa è la storia di una bellissima persona.
Fare il medico penitenziario non deve essere stato il "sogno" di un giovane calabrese salito a Pisa per laurearsi. Come è finito al don Bosco?
Se lo ricorda Franco Serantini, il giovane anarchico morto nel carcere di Pisa dopo essere stato picchiato sul lungarno dalla polizia?
Certo che lo ricordo. Lei, professore, entra subito in medias res. Nel famoso comizio del 13 maggio 1972 in piazza San Silvestro a Pisa - al termine del quale Sofri avrebbe dato a Leonardo Marino il mandato a uccidere il commissario Luigi Calabresi - sotto il palco tra Adriano e i militanti pisani di Lotta continua ci fu una discussione su dove collocare la lapide per Serantini, morto il 7 maggio al don Bosco.
Proprio così. La lapide c’è ancora nei giardinetti in piazza San Silvestro, come continuano ad esserci i 54 pini marittimi che insieme alla pioggia Marino quel giorno non notò. Dopo la morte di Serantini, venne fuori che il medico del carcere l’aveva visitato in ritardo e frettolosamente. Al giovane che lamentava forti dolori alla testa prescrisse una borsa di ghiaccio. Quel medico venne allontano e fui chiamato a sostituirlo. Erano anni un po’ burrascosi, quelli.
Dunque, lei è carcerato da trent’anni.
Una vita vissuta in carcere, almeno 5 ore al giorno, sabato compreso, più le urgenze. Nei primi anni ho continuato a studiare, ho conseguito quattro perfezionamenti in medicina penitenziaria. Da quindici anni insegno alla scuola di specializzazione dell’università di Pisa e da qualche anno presiedo il Consiglio internazionale dei servizi medici penitenziari.
Per resistere trent’anni in carcere, uno deve credere al lavoro che fa. La buona fama di cui gode il Centro clinico del don Bosco dimostra che lei ci crede.
Ha 80 posti letto e una sessantina tra infermieri e medici. Di fatto è un piccolo ospedale in carcere, l’unico al mondo dotato di Tac. I detenuti vengono da tutt’Italia, anche in day hospital. Qui è passato tutto il gotha mafioso e politico - terrorista. Se mi volto indietro, vedo una marea di gente. Grandi criminali a parte, li ricordo tutti con simpatia e affetto. Gente disprezzata da chi sta fuori. Gente disperata, presa in mezzo dagli accadimenti della vita. Io mi sento dalla loro parte.
Un carcere umano è un ossimoro o una cosa fattibile, a patto di volerla davvero? La sua pertinacia dice che lei è per la seconda, nonostante frustrazioni e delusioni.
Da studente abitavo vicino al don Bosco e vedevo sempre i detenuti sui tetti. Protestavano e avevano ragione. Poi c’è stata la boccata d’ossigeno della legge Gozzini, una riforma premiale che io chiamo del buon papà: se ti comporti bene, ti dò i soldi per andare al cinema. Adesso siamo stati ricacciati indietro nel tunnel, con la differenza che la violenza che prima i detenuti opponevano a quella del sistema carcerario ora la dirigono contro se stessi. Gli episodi di autolesionismo sono quotidiani. I numeri, da soli, stridono con qualsiasi tentativo di umanizzazione. 58 mila detenuti in carceri che potrebbero ospitarne al massimo 40 mila. Quando io sono arrivato al don Bosco curavo il contadino meridionale condannato per reati d’onore. Adesso nelle galere italiane abbiamo 21 mila tossicodipendenti e 16 mila extracomunitari. In Albania ci sono 2 mila detenuti in 6 carceri. Qualche anno fa le ho visitate e mi è venuto da sorridere: noi di albanesi ne abbiamo il doppio. In queste condizioni tutto diventa più difficile. Con gli immigrati la medicina penitenziaria deve affrontare gli stessi problemi di quella fuori: lingua, abitudini alimentari, religioni, culture tradizionali. L’immigrato arriva sano e nel fiore degli anni, è capace di affrontare il mare, poi qui si ammala per un nonnulla.
La galera, a chi sta fuori, piace. È considerata la soluzione di tutto. Cosa direbbe per incrinare questa convinzione?
Dire serve a poco. Bisognerebbe provare. Non tanto, cinque o sei giorni di carcere bastano per rendersi conto che la galera, oltre a essere crudele, non serve. Chiamarla rieducazione è un’offesa, anche per noi operatori. Come si può rieducare se il carcere è così brutto? Nel 1999 Adriano ed io abbiamo scritto a quattro mani un libro, Ferri battuti. Io da tecnico, lui da Adriano, cioè con la sua umanità e cultura. Indicavamo due terreni per migliorare il carcere: il lavoro e l’affettività. Vi pare normale che ci siano spazi per l’affettività in carcere in Spagna e in Albania e in Italia no? Con quel libro volevamo dare un pugno nello stomaco alla classe politica. È andato a vuoto.
Cosa ci dice del detenuto Sofri?
Sta nella cella numero 1, che diventa sempre più stretta, tra poco sarà travolto da una valanga di libri.
Così lei si toglierà la soddisfazione di poterlo curare.
È proprio così. "Guai se mi ammalo", dice sempre Adriano, "e se anche mi ammalassi, non te lo direi". Lui vuole uscire sulle sue gambe. Gioca a pallone e a pallavolo per tenersi tonico e in forma. Chi legge quel che scrive può pensare che a tenerlo su sia la forza della mente. Lui, invece, è convinto che la forza la dà il corpo. Per questo lo rispetta, diversamente da quello che fanno in genere i detenuti. Prima di lavorare in carcere pensavo che la salute fosse il bene più grande. Per i detenuti non è così. La libertà viene prima e, pur di ottenerla, ne combinano di tutti i colori anche a danno della loro salute. Adriano è uno spirito forte che il carcere non è riuscito a piegare. I primi anni di carcere sono quelli che stroncano, lui ha superato la prova.
Gli anni si allungano, però. La grazia Sofri non la chiederà mai e la clemenza d’ufficio è l’unica soluzione. Per questo anche lei, come molti altri in precedenza, ha preso carta e penna e si è appellato a Ciampi. Quali argomenti ha usato?
Quelli "tecnici" sono risaputi e citati da tutti. Il lungo tempo trascorso, l’insensatezza dell’esecuzione della pena quando è superata l’esigenza dell’emenda e del recupero del condannato. Cose scritte in sentenza anche dai giudici veneziani che hanno confermato la condanna, ma aggiunto che i giudici precedenti avrebbero dovuto concedere ai tre ex di Lotta continua le attenuanti prevalenti sulle aggravanti e mandarli liberi. Questi argomenti si possono riassumere in una domanda: cosa chiediamo, oggi, alla detenzione di Adriano Sofri? Nulla, è la risposta. E il discorso potrebbe finire qui. Io ho voluto aggiungere una testimonianza sul Sofri detenuto, la mia è una goccia nel mare che avrei preferito tenere segreta. Non vorrei si pensasse che cerco pubblicità. A Ciampi ho raccontato tutte le cose belle che Adriano riesce a fare in un posto tanto brutto. Gesti genuini, sinceri, generosi che preferisce mantenere anonimi. Non è solo la corrispondenza che intrattiene con centinaia di detenuti. Sono anche i soldi che ci mette per fare la dentiera a uno o il busto ortopedico a un altro.
Lei vive in mezzo ai detenuti e chissà quanti meriterebbero la grazia. Perché la chiede solo per Sofri? È un’obiezione che, penso, si sarà rivolto da solo.
Lo so bene che c’è un mondo di detenuti. Ma il caso di Adriano emerge per una particolare ingiustizia. Non ho mai incontrato un detenuto che si fa voler bene come lui. Ho scritto à Ciampi per un desiderio intimo, non ho avuto sollecitazioni esterne. Altri potranno parlare del Sofri grande intellettuale, del raffinato uomo di cultura che passa da un argomento all’altro con facilità pari alla profondità, del viaggiatore che conosce tutti, compreso il papa. È tutto vero. Io parlo del Sofri in carcere. La lettere a Ciampi l’ho scritta anche in veste di presidente del Consiglio internazionale dei medici penitenziari. Quando vado all’estero io me la prendo con i colleghi che lasciano mandare sulla sedia elettrica anche i malati di mente. Tu taci, mi rispondono, che in Italia tenete in galera Sofri.
Come ha reagito Adriano quando ha saputo della sua lettera al Quirinale?
Male, sono due mesi che non mi parla. "Allora non hai capito niente neppure tu!", mi ha detto. Lui vuole uscire a testa alta, vuole che sia riconosciuta la sua innocenza. Spera in un pronunciamento della Corte di giustizia di Strasburgo. Tiene alla dignità e alla coerenza. Gli rimproverano d’essere un monumento d’orgoglio, ma io lo capisco. Non lo conoscevo prima che arrivasse al don Bosco, non ero di Lotta continua, non avevo seguito le alterne vicende del processo Calabresi. Poi ho letto tutti gli atti e mi sono convinto della sua innocenza. Il mio non è un partito preso per simpatia umana, ma per solida documentazione. Questa mia personale convinzione esula, però, dal mio appello per la grazia.
Perché non l’ha esteso anche a Bompressi?
Bompressi la grazia l’ha chiesta. I suoi familiari hanno reiterato l’istanza. Concedere la grazia a Bompressi è un obbligo, una firma da apporre sopra una montagna di referti clinici. Se Ovidio dovesse tornare in carcere, morirebbe. Se lo rimanderanno in carcere, saremmo davvero il paese di Pulcinella.
Arriverà, e quando, la grazia? Nella lettera al presidente della Repubblica lei cita una frase di Adriano. "Trascorrerò in carcere il resto dei miei giorni. Forse morirò in carcere".
Nonostante io viva in mezzo alle disgrazie e alla sofferenza, resto ottimista per natura. Penso che entro la fine dell’anno succederà qualcosa e riguarderà sia Bompressi che Soffi.
Beh, ma se Adriano uscirà, lì al don Bosco perderete tutto il bene che vi fa. State preparando i fazzoletti?
Lascerà un vuoto incolmabile. Lo so che si dice così dei morti, mentre lui tornerà a vivere. Ma sarà così: ci mancherà.
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