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Manicomi criminali al tracollo
Avvenire, 7 luglio 2003
L’allarme dai cappellani degli Opg di tutta Italia: a causa dei tagli al budget non ci sono nemmeno più i soldi per comprare gli psicofarmaci e pagare le attività riabilitative Da qui si esce solo se si è guariti. Ma i tagli ai fondi non lasciano speranza E i sacerdoti che seguono i malati aspettano da mesi una risposta dal ministro della Giustizia Castelli Da Milano Lucia Bellaspiga Manicomio criminale, lo chiamavano un tempo. Oggi Opg, Ospedale psichiatrico giudiziario, ma è lo stesso. "È sempre una contraddizione in termini: qui ci sono persone malate, da curare. Però stanno in una struttura carceraria, chiuse in cella. Non solo: con gli spaventosi tagli al budget operati di recente dal governo non riusciamo nemmeno a comprare gli psicofarmaci... Ha idea di cosa succede in un luogo che ospita centinaia di malati mentali se non c'è modo di curarli? Noi cappellani di tutti gli Opg abbiamo scritto una lettera al ministro della Giustizia Castelli, due mesi fa. Nessuna risposta". Don Daniele Simonazzi è cappellano da tredici anni all'Opg di Reggio Emilia, grande bacino che raccoglie da mezza Italia chi è stato riconosciuto infermo di mente nel momento in cui compiva il reato. Mezzo detenuti e mezzo pazienti, insomma. Una schizofrenia pagata da tutti, negli Opg: dai ricoverati in primo luogo, ma anche dagli agenti e dal personale sanitario. "Il personale fa quello che può e persino di più - continua don Daniele -, gli agenti si fanno in quattro per rendere vivibile e adeguato alle patologie il reparto, infermieri e medici, insieme ai volontari, si inventano mille attività per restituirli a una vita dignitosa. Ma se a fine mese non hai con che pagare le terapie...". E per chi vive un disagio mentale la terapia si chiama soprattutto lavoro: "Gradatamente gli psichiatri portano i ricoverati al punto di saper reggere un'attività - continua il cappellano -, semplici mansioni che danno al paziente un senso di responsabilità, l'idea del dovere, il senso di utilità, la dignità di essere qualcuno. Ed è importante ai fini della riabilitazione che ogni loro impegno sia remunerato, poco, una miseria magari, ma è necessario". "Chi passa dall'inattività demente di ore passate a guardare il vuoto alla capacità di lavorare è già a metà strada", dice don Antonio Miliddi, da ben 37 anni cappellano all'Opg di Napoli: "Sono "spesini", cuochi, "scopini", lavandai, tutti indispensabili al buon funzionamento della struttura. Ma soprattutto "piantoni": accudiscono i loro compagni di cella più anziani e meno autosufficienti, spesso anche evitando che si facciano del male". Solo a Reggio Emilia l'anno scorso su 227 ricoverati 54 avevano un'occupazione interna, ora solo nove: "Non ci sono più nemmeno quei quattro soldi per pagarli". Niente medicine e niente terapie. Ma così un Opg diventa un girone infernale dove si sprofonda dimenticati: "Già - continua don Antonio -, perché mentre in un carcere vero, dove finiscono i criminali che hanno agito lucidamente, scontata la pena ti mandano fuori, in un Opg vanno i malati, considerati pericolosi per i loro atteggiamenti, ma magari hanno compiuto una sciocchezza. Però non escono finché il referto degli psichiatri non determina la guarigione". Che senza cure - ovvio - non arriva. "Li chiamano "ergastoli bianchi": puoi star dentro una vita per una intemperanza. E se anche stai bene ma fuori non c'è nessuno che garantisca per te, resti comunque dentro". Come quel barbone che aveva rubato una coperta: "Si è fatto 4 anni da noi a Reggio Emilia. Alla fine ho firmato io per farlo uscire, sotto la mia responsabilità. Sì, perché ergastolo o libertà dipendono da una firma...".
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