Il fumo in carcere

 

In carcere, stop alle sigarette

 

Famiglia Cristiana, 13 ottobre 2002

 

Il tabagismo è diffuso tra il 90 per cento circa dei detenuti. Per combatterlo c’è bisogno di supporto psichiatrico e programmi terapeutici.

 

Il carcere è uno degli ambienti confinati che favorisce di più il consumo delle sigarette. Un parere qualificato è quello di Sergio Fazioli, direttore sanitario della casa circondariale Rebibbia - nuovo complesso di Roma. li carcere è un contenitore di sofferenza psicologica e di disagio, dove vi è una notevole carenza di comunicazione.

li messaggio del fumo è quello del desiderio di libertà, di autonomia, una risorsa palliativa che occorre sconfiggere per combattere la dipendenza. Migliorare la comunicazione sarebbe una valida misura: in carcere, per parlare con un medico o con un direttore al di fuori delle normali visite mediche, un detenuto deve inoltrare una domanda il cui iter può richiedere anche diversi giorni. In un reparto di 500 detenuti ci sono solo uno o due educatori e uno psicologo. A Rebibbia, su 1.600 detenuti presenti, con 7.000 ingressi l’anno, le visite mediche sono 27.000 - 30.000 l’anno, effettuate da sei medici di reparto e due medici di guardia. Possono sembrare molte, ma in realtà una persona viene visitata in media sì e no quattro volte all’anno.

Esiste, tuttavia, anche qualche dato positivo: a Rebibbia è stato istituito il primo reparto di osservazione psichiatrica, durato per 20 anni, fino al 1997, attualmente sostituito da un servizio di psichiatria ambulatoriale. Il supporto psichiatrico è molto importante per smettere di fumare. Come precisa Fazioli, con l’aiuto degli psichiatri si cerca di proporre alle autorità competenti l’idea di un sistema premiante, il modo migliore per convincere la persona detenuta a smettere, o anche a diminuire, il consumo di tabacco.

Questo sistema potrebbe consentire uno sconto della detenzione di alcuni giorni l’anno a chi ha una pena inferiore a quattro anni, in analogia con quanto accade ai detenuti tossicodipendenti che accettano un piano di trattamento. Se si calcola che più del 90 per cento dei detenuti sono fumatori, e che circa la metà ha una pena inferiore a quattro anni, moltissimi potrebbero far parte di un programma terapeutico. Per questo progetto si potrebbero usare i fondi messi a disposizione dalle ASL per le patologie d’abuso. Ma bisognerebbe anche affrontare il problema del tabagismo tra gli agenti e gli operatori penitenziari. Se un detenuto rinuncia alle sigarette, non è giusto che qualcun altro fumi davanti a lui.

 

 

 

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