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Diritto alla salute e trattamenti sanitari (da "Diritti dei detenuti e Costituzione, di Marco Ruotolo)
Il diritto alla salute della persona reclusa
La Costituzione italiana definisce la salute come "fondamentale diritto dell’individuo" e come "interesse della collettività" (art. 32, 1° comma), delineando due aspetti, quello del diritto e quello dell’Interesse, distinti ma coordinati. Lo "stato di salute" non riguarda solo il singolo ma si riflette sulla collettività, per cui la relativa tutela non si esaurisce solo in situazioni attive di pretesa ma "implica e comprende il dovere di non ledere ne porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui". Il diritto alla salute si configura, più in generale, come valore costituzionale supremo in quanto riconducibile all’integrità psico-fisica della persona (e non considerato solo quale diritto sociale a prestazioni sanitarie), per cui, se la tutela di esso non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone, tuttavia le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento degli interessi, un peso tale da determinare la compressione del nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana. Il riconoscimento del diritto alla salute quale "valore costituzionale supremo" è il risultato di una evoluzione giurisprudenziale che ha permesso di cogliere le virtualità insite nella generica formulazione costituzionale che sancisce l’impegno della Repubblica a tutelare la salute e a garantire cure gratuite agli indigenti. Virtualità che si esprimono, anche per effetto del raccordo con gli artt. 2 e 3 Cost., nell’affermazione del diritto alla salute come " diritto soggettivo" protetto contro ogni aggressione ad opera di terzi e suscettibile di una tutela risarcitoria immediata come "danno biologico", indipendentemente da qualsiasi altra conseguenza dannosa giuridicamente apprezzabile; nonché come " diritto sociale" la cui pratica attuazione è essenziale per la realizzazione di quel principio di libertà-dignità che connota e conforma l’intelaiatura della nostra Carta costituzionale e trova la sua prima espressione nella lettura integrata degli artt. 2 e 3 Cost. Proprio la singolare connotazione del diritto in parola induce ad invocarne la necessaria tutela nella più ampia misura possibile ossia entro i limiti segnati dall’esigenza di una concomitante tutela di altri interessi e dalla disponibilità di risorse umane e finanziarie nella predisposizione dei servizi sanitari. Sotto quest’ultimo aspetto, tuttavia, occorre ribadire che le esigenze finanziarie non possono legittimare una compressione del nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana. Con specifico riferimento alla posizione del detenuto, viene in rilievo un’altra esigenza, quella della sicurezza, che in concreto può determinare una limitazione nella fruizione del diritto in questione, anzitutto in ordine alla possibilità di scegliere il luogo della cura, che è effettuata dall’amministrazione penitenziaria e dall’autorità giudiziaria tenendo conto proprio delle esigenze di sicurezza nonché dell’adeguatezza o meno del servizio sanitario penitenziario rispetto al caso concreto. Il problema centrale, dunque, con riferimento alle persone recluse, è quello della estensione del "limite" delle esigenze di sicurezza, potenzialmente idoneo ad incidere anche sulle altre espressioni del diritto alla salute inteso come valore supremo, e in special modo sul diritto a trattamenti sanitari, che si traduce nella pretesa all’ottenimento dei trattamenti di miglior livello che, nelle circostanze date, gli operatori sono in grado di fornire, sul rifiuto d ci trattamenti sanitari non imposti dalla legge, che discende a contrario dall’art. 32 c.p.v., sul diritto a lasciarsi morire, sul divieto di accanimento terapeutico e sul diritto all’ambiente salubre. Tra i molti profili, quello che sembrerebbe assumere minor rilievo è relativo alla salubrità dell’ambiente, data la particolare condizione della persona detenuta che si trova costretta entro l’istituto di pena. Ma occorre aver presente che il termine "ambiente" può riferirsi ad una classe variegata di oggetti e che potrebbe venire qui in rilievo in una connotazione particolare, che si lega alla semplice considerazione per cui "oggi come oggi salute e vita in un ambiente insalubre sono considerate incompatibili l’una con l’altra", con la conseguenza che anche (se non soprattutto, visto che la "vita" si svolge in questo caso prevalentemente in un ambiente "interno") negli stabilimenti di pena deve essere assicurata una condizione che non contraddica le suddette esigenze. Il diritto all’ambiente salubre verrebbe dunque in rilievo come diritto a vivere in un ambiente "degno" per una persona umana o, più semplicemente, come diritto a vivere una vita " degna dell’uomo". In questo senso, possono richiamarsi le disposizioni dell’ordinamento penitenziario che riguardano le modalità di realizzazione dei nuovi edifici penitenziari, che devono, ad esempio, assicurare la differenziazione tra locali di soggiorno e di pernottamento (artt. 5 e 6 O.P.), nonché, più generale, le prescrizioni rivolte genericamente a salvaguardare la salute del detenuto e a contenere le cause che potrebbero determinare il crearsi di un ambiente insalubre, quali quelle relative al vestiario e al corredo da fornire a ciascun detenuto (art. 7 O.P.), all’uso dei servizi igienici e alle forniture di oggetti necessari alla pulizia personale (art. 8 O.P.), alle caratteristiche dell’alimentazione e alla somministrazione del vitto (art. 9 O.P.), alla permanenza all’aria aperta per un determinato tempo giornaliero (art. 10 O.P.). Un’indagine più approfondita meritano le altre problematiche sopra accennate. Prima di passare ad essa pare, però, opportuno fornire un’indicazione sul metodo che verrà seguito nella trattazione, che d’altra parte ricalca le coordinate generali di questo lavoro. La legittimità delle limitazioni derivanti dalle esigenze di sicurezza verrà, infatti, messa in discussione laddove esse si impongano o pretendano di imporsi fino ad intaccare il "nucleo irriducibile del diritto alla salute" protetto dalla Costituzione. Non solo, la riferibilità del diritto in questione all’ambito inviolabile della dignità umana e la conseguente connotazione di esso come valore supremo idoneo a conformare le scelte legislative e giurisprudenziali assumerà rilievo decisivo per cercare di dare risposte ai problemi che non trovano ancora un puntuale riscontro nel diritto positivo. Siffatto intendimento è, peraltro, confortato dal principio costituzionale dell’umanizzazione e della funzione rieducativa della pena, nonché dalle più volte richiamate previsioni della normativa sopranazionale che proibiscono la sottoposizione del detenuto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, specie ove si afferma che la finalità del trattamento "deve essere quella di salvaguardare la salute e la dignit࣠(art. 3 delle Regole penitenziarie europee).
L’assistenza sanitaria in carcere e il "riordino" della medicina penitenziaria
Il diritto a trattamenti sanitari preventivi si configura come "tipico diritto a prestazione", che "consente che ne derivino autentici diritti soggettivi solo nel caso in cui esistano istituzioni sanitarie idonee ad offrire le prestazioni preventive e curative". Negli istituti penitenziari la suddetta esigenza è soddisfatta assicurando la presenza di un servizio medico e farmaceutico rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti (art. 11, 1° comma, O.P.), ferma restando la possibilità del "trasferimento", disposto dal magistrato di sorveglianza, dei condannati e degli internati in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi interni (art. 11, 2° comma, O.P.). I detenuti sono sottoposti a visita medica generale all’atto dell’ingresso in istituto e a periodici riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati (art. 11, 5° comma, O.P.). Inoltre è loro assicurata la possibilità di richiedere di essere visitati a proprie spese da un sanitario di fiducia (art. 11, 11° comma, O.P.). L’art. 11 O.P. fissa anche il principio della collaborazione con i servizi pubblici sanitari locali, ospedalieri ed extra ospedalieri, per l’organizzazione e il funzionamento del servizio sanitario per i detenuti, consentendo di ritenere quest’ultimo, anche per effetto delle previsioni del regolamento penitenziario, "come una funzione a cui le risorse esterne direttamente e continuamente collaborano". Ai principi delineati nell’ordinamento penitenziario non hanno però fatto seguito regole che, specie con una revisione dell’ordinamento del personale, assicurassero quell’esigenza di fornire un servizio medico "adeguato" alle necessità profilattiche e diagnostico - terapeutiche della popolazione detenuta. L’ordinamento del personale sanitario penitenziario è, infatti, rimasto indenne alle riforme in materia sanitaria, specie alla legge n. 833 del 1978 (istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale), determinando non pochi problemi di coordinamento, in un quadro che, a fronte delle carenze di personale e di strutture, del sovraffollamento di malati e dei ritardi nelle prestazioni, non vedeva certo l’Amministrazione penitenziaria come soggetto in grado di assicurare effettivamente il godimento di un diritto a trattamenti sanitari, anche in ragione del carente collegamento con il S.S.N. Il nodo, sciolto solo con la recente riforma della medicina penitenziaria (d.lgs. 22 giugno 1999, n. 230), era proprio quello relativo alla specialità dell’assistenza sanitaria nelle carceri, se cioè essa dovesse o meno tradursi in un’autonoma configurazione del servizio sanitario penitenziario. Nodo che in precedenza non era stato sciolto in mancanza di una normativa di coordinamento con la riforma del sistema sanitario nazionale del 1978 e che portava, di fatto, a ritenere l’assistenza sanitaria ai detenuti come un "servizio" reso dallo Stato per il tramite dell’Amministrazione penitenziaria. Non v’è dubbio che la medicina penitenziaria assuma connotazioni di "specialità", legata anzitutto alla particolare condizione del paziente in stato di detenzione e all’esigenza di una preparazione specialistica, che tenga conto anche degli aspetti psicodinamici del destinatario della cura, "diventando basilari le acquisizioni nel campo psicologico e criminologico". Ma l’equivoco di fondo si innestava nella implicita traduzione della specialità della materia in specialità della disciplina normativa, che avrebbe potuto legittimare deroghe ai principi e ai diritti generalmente riconosciuti alle persone malate in quanto tali. Sono queste le ragioni che inducono a guardare con favore alla nuova disciplina dettata dal d.lgs. n. 230 del 1999, attuativo della delega conferita al Governo con l’art. 5 della 30 novembre 1998, n. 419, relativamente alla riorganizzazione della medicina penitenziaria da effettuarsi nell’ambito del servizio sanitario nazionale. Si afferma, infatti, all’art. 1, 1° comma, d.lgs. n. 230 de11999, che il diritto alla salute spetta ai detenuti e agli internati "alla pari dei cittadini in stato di libertà", sia per quel che concerne la prevenzione sia per quanto riguarda la diagnosi, la cura e la riabilitazione, l’assistenza sanitaria per la gravidanza e la maternità e l’assistenza pediatrica ai bambini che le donne recluse possono tenere in istituto durante la primissima infanzia. Si configura un vero e proprio "diritto a prestazioni sanitarie", assicurato sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali. Il diritto alla salute si deve realizzare nell’ambito del S.S.N., che deve assicurare "livelli di prestazione analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi" (art. 1, 2° comma, lett. a, d.lgs. n. 230 del 1999). I detenuti sono esonerati dal sistema di compartecipazione alle spese sanitarie (ticket) e mantengono l’iscrizione al S.S.N., anche se stranieri, per tutto il periodo della detenzione. Inoltre, ogni A.S.L. deve adottare una "Carta dei servizi dei detenuti", da predisporre consultando gli stessi detenuti e le associazioni di volontariato per la tutela dei diritti dei cittadini. Il sistema delineato dalla riforma del 1999 si basa sulla ripartizione di competenze tra il Ministero della Salute e il Ministero della Giustizia, prevedendo il graduale trasferimento al primo delle funzioni sanitarie, specie in tema di programmazione, indirizzo e coordinamento tra strutture penitenziarie, amministrazioni centrali, Regioni e Aziende sanitarie locali relativamente alla realizzazione dell’esigenza primaria di tutela della salute dei detenuti. Alle Aziende sanitarie locali spetta erogare le prestazioni, all’Amministrazione penitenziaria garantire la sicurezza (art. 2, d.lgs. n. 230 del 1999). In conseguenza di questa ripartizione, si è previsto anche il trasferimento delle risorse economiche dal sistema penitenziario al Fondo sanitario nazionale, sul quale grava ora la spesa sanitaria carceraria, non che il trasferimento del relativo personale, attraverso l’equiparazione tra le figure professionali operanti negli istituti e quelle del S.S.N. La responsabilità per la mancata applicazione e per i ritardi nell’attuazione delle misure previste per lo svolgimento dell’assistenza sanitaria penitenziaria è del Direttore generale della struttura sanitaria, ma una funzione di controllo residua in capo all’Amministrazione penitenziaria cui spetta segnalare i casi di mancata osservanza delle previsioni normative alle autorità sanitarie locali, regionale e direttamente al Ministro della Salute ai fini dell’attivazione di poteri sostitutivi. Altro fondamentale principio introdotto dalla riforma del 1999 è quello della "collaborazione" negli interventi d’assistenza sociale e sanitaria da parte dello Stato, delle Regioni, delle Province autonome, dei Comuni, delle Aziende sanitarie e degli istituti penitenziari. L’organizzazione dell’assistenza sanitaria ai detenuti deve uniformarsi ai "principi di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitarietà dei servizi e delle prestazioni, d’integrazione dell’assistenza sociale e sanitaria e di garanzia della continuità terapeutica" (art. 2, d.lgs. n. 230 del 1999). La tendenza verso un effettivo riconoscimento del diritto del detenuto di essere curato trova conferma anche nel nuovo regolamento penitenziario, che tra l’altro molto opportunamente contiene un rinvio alla "vigente normativa" (art. 17) per quanto riguarda l’assistenza sanitaria dei detenuti, contribuendo a risolvere i dubbi circa l’esistenza stessa di un servizio sanitario penitenziario autonomo. Anche se non poche perplessità sono state espresse rispetto alla perdita di tipicità e di autonomia della medicina penitenziaria per effetto della riforma del 1999, almeno da un punto di vista "simbolico" il passaggio al S.S.N. non sembra da sottovalutare, segnando il superamento di un modo di concepire la posizione del detenuto anche rispetto ai trattamenti sanitari che senz’altro fuoriusciva dal quadro costituzionale. La sottoposizione esclusiva all’amministrazione penitenziaria anche in quest’ambito ben poteva rivelarsi strumentale ad un uso della medicina penitenziaria rivolto a privilegiare le contingenti concezioni finalistiche della pena detentiva, rischiando di piegare l’intervento medico e farmacologico alle necessità della disciplina e della sicurezza dell’istituto. Certo, non basta un passaggio "simbolico" e occorrerebbe verificare la concreta applicazione della riforma per valutarne i benefici, ma nemmeno si può pensare che essa valga a risolvere il problema delle limitazioni alla autodeterminazione del detenuto che si esprimono nella sostanziale indefinitezza del "consenso del malato per tutte o parte delle misure che s’intende porre in atto a suo carico emettendo in dubbio il diritto alla riservatezza dei relativi documenti sanitari". Si deve, però, avere la consapevolezza che una certa limitazione può trovare la sua ragion d’essere nell’assetto comunitario del carcere e nelle esigenze di tutela degli interessi collettivi, non potendo tuttavia essere ammessi trattamenti che esulino da tali finalità. Così, la visita obbligatoria all’ingresso in istituto dovrebbe essere concepita come rivolta esclusivamente a" riscontrare che il soggetto non abbia subito lesioni o maltratta menti nella fase della cattura e delle attività di polizia" o a "rilevare cause influenti ai fini del rinvio dell’esecuzione della pena". Mentre l’isolamento per i detenuti e gli internati sospettati o riconosciuti affetti da malattia contagiosa (art. 11, 7° comma, O.P.) varrebbe ad assicurare il diritto alla salute inteso come interesse della collettività carceraria. Entro questi limiti, l’assenza del consenso può esser dunque giustificata, in quanto, come già detto, la tutela della salute implica e comprende il dovere di non ledere ne porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui. Tuttavia, se l’art. 32, 1° comma, Cost. implica "il bilanciamento del diritto alla salute di ciascun individuo con il dovere di tutelare il diritto dei terzi che vengono in necessario contatto con la persona per attività che comportino un serio rischio (...) di contagio", è anche vero che esso pone, al 2° comma, un’alternativa tra legge e consenso, poiché, o un determinato trattamento è legislativamente previsto come obbligatorio, non potendo comunque violare il limite del "rispetto della persona umana", oppure, ai fini del suo compimento, è necessario il consenso dell’interessato. Ma, in presenza della previsione legislativa, resta fermo che ove la salute di uno metta in gioco quella degli altri "non si avrà più contrasto tra la volontà del singolo, da un lato, ed un contrapposto generico "interesse" dell’altro, bensì tra la volontà del singolo ed il diritto alla tutela della propria salute degli altri componenti della collettività". In quest’ottica si è pure sostenuto, in base all’art. 32, che ben potrebbero essere prescritti con legge trattamenti sanitari obbligatori, in deroga al principio di libertà di disposizione della propria persona, ma solo ove siano diretti "non solo ad arrecare un vantaggio alla salute collettiva, ma altresì ad arrecare un beneficio o, quanto meno, non un danno alla salute dei singoli che debbono subirli". D’altra parte, il principio del "rispetto della persona umana", inteso in termini sostanziali, determina la necessità che i mezzi siano adeguati al fine, essendo l’eventuale violazione di tale principio in contrasto con l’art. 32, 2° comma, Cost. Se dunque il rispetto della persona umana può esser definito come "il rispetto della libertà di scelta del singolo, che solo può fissare le modalità e il disegno del proprio essere persona", è anche vero che tale principio non viene violato se il fine è di salvare altre persone dalla malattia che si vuole prevenire o curare. La costituzione, dunque, non esclude l’ammissibilità d’accertamenti sanitari nel caso in cui vi sia un comprovato "stato di necessità" di tutelare la salute dei terzi. Anche con riferimento ai detenuti, quindi, il criterio dovrebbe essere quello per cui va primariamente assicurata la tutela del bene salute, che, in quanto inteso anche nella dimensione collettiva, ben potrebbe implicare limitazioni alla libertà del singolo. Ma, fuori da questa ipotesi, non dovrebbe legittimarsi alcuna limitazione fondata su mere "esigenze di sicurezza ", le quali, al più, potrebbero incidere sulle modalità del tratta mento sanitario ma non sulla sua concreta fruizione.
Le situazioni di "incompatibilità" con la detenzione
Altro fondamentale aspetto, che riguarda il diritto alla salute della persona detenuta, è quello che concerne la determinazione delle situazioni di "incompatibilità" con la detenzione. Occorre anzitutto ricordare che l’art. 147, 1° comma, n. 2, c.p., prevede il rinvio facoltativo della pena nei confronti di chi si trova in condizione di grave infermità fisica. Il tribunale di sorveglianza, competente a disporre il suddetto rinvio per i condannati, deve accertare l’incompatibilità con il regime detentivo ordinario tenendo conto di una serie di fattori documentati nella relazione sanitaria del personale specialistico e nella perizia medico - legale, tra i quali non solo l’entità della patologia ma soprattutto la possibilità di giovarsi di cure e trattamenti diversi e più efficaci di quelli che sono apprestati nelle istituzioni mediche esistenti presso il carcere. Le situazioni d’incompatibilità possono essere "relative" o "assolute". Nel primo caso può essere, ad esempio, disposto il ricovero presso un centro diagnostico terapeutico dell’amministrazione penitenziaria, nel secondo si proporrà l’alternativa tra il ricovero in un istituto di cura extra carcerario o la concessione degli arresti domiciliari. In sostanza, il differimento dell’esecuzione della pena potrà essere concesso solo in caso di grave infermità, rispetto alla quale si attesti l’impossibilità di praticare utilmente le cure nel corso dell’esecuzione, soprattutto in quei casi in cui l’accertata infermità sarebbe potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria. Una corretta applicazione delle esigenze costituzionali sottese al differimento dell’esecuzione della pena sembra riscontrabile in una sentenza della Cassazione del 1987, nella quale si afferma che l’esecuzione non può incidere sul diritto alla salute, sì che il condannato che non possa essere curato nella struttura sanitaria penitenziaria o, fermo restando la sua sottoposizione al regime penitenziario, in ospedale civile o in altri luoghi esterni di cura, ha il diritto al differimento ove non possa essere ammesso alla detenzione domiciliare. Se così non fosse - afferma ancora la Cassazione - l’esecuzione della pena non solo inciderebbe illegittimamente sul diritto alla salute costituzionalmente riconosciuto a tutti, ma si risolverebbe in un trattamento contrario al senso di umanità cui la stessa deve ispirarsi ai sensi dell’art. 27, 3° comma, Cost.. Non sono mancate, tuttavia, significative oscillazioni giurisprudenziali che vanno dal riconoscimento della rilevanza del diritto alla salute, fino al punto da implicare il rinvio dell’esecuzione anche in ipotesi di malattia che possa essere opportunamente fronteggiata nello stato di detenzione, al suo disconoscimento pur nell’ipotesi di grave debilitazione fisica conseguente a patologia anoressica. L’incompatibilità può essere anche rilevata in relazione al concreto pericolo che la patologia, da cui è affetto il detenuto, possa creare agli altri detenuti o al personale penitenziario. Negli ultimi anni il suddetto problema ha riguardato in prevalenza i soggetti affetti da sieropositività e da Aids in relazione ai rischi di trasmissione del contagio agevolati dal sovraffollamento degli istituti, dall’assenza di elementari norme di igiene e dalla possibile promiscuità dei rapporti tra i detenuti. Originariamente, per tali fattispecie, si faceva riferimento all’art. 147, 1° comma, n. 2, c.p. che, come detto, prevede il rinvio facoltativo della pena per il caso di grave infermità fisica. Successivamente, con il d.l. 14 maggio 1993, n. 139, convertito in legge n. 222 del 1993, l’art. 146, 1° comma, c.p., che disciplina le ipotesi di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena, è stato integrato dalla previsione del differimento anche per i detenuti affetti da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell’art. 286 bis c.p.p. (art. 146, 1° comma, n. 3, c.p.). Tuttavia, tanto l’art. 146, 1° comma, n. 3, c.p. quanto l’art. 286 bis c.p.p. sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui sancivano, rispettivamente, il rinvio obbligatorio della pena e l’esclusione della custodia cautelare in carcere mediante un rigido automatismo. Le decisioni della Corte costituzionale finivano per ripristinare il sistema della valutazione individualizzata della grave infermità fisica, da svolgersi con particolare riferimento all’offerta di prestazioni possibile nella struttura penitenziaria, anche in riferimento ai soggetti affetti da infezione da HIV, tornando quindi ad essere discrezionale l’esclusione della custodia cautelare in carcere per gli imputati e facoltativo il rinvio dell’esecuzione della pena per i condannati. La lacuna così determinata nel sistema per sopperire ai rischi derivanti da un rigido automatismo nell’applicazione delle misure alternative o nel rinvio dell’esecuzione della pena finiva, però, per tradursi in una sopravalutazione delle esigenze della sicurezza e in una sottovalutazione dell’esigenza di assicurare che la pena non consista in un trattamento contrario al senso di umanità, attesa l’inadeguatezza delle strutture sanitarie penitenziarie ad affrontare efficacemente la malattia. La lacuna è stata di recente colmata con la legge n. 231 del 1999, recante "Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave", che sancisce il principio generale della incompatibilità del regime carcerario per i malati di Aids ed affetti da altre gravi malattie. La legge n. 231 del 1999 sostituisce il n° 3 dell’art. 146, 1° comma, c.p., dichiarato in costituzionale dalla Corte costituzionale, stabilendo il differimento obbligatorio dell’esecuzione della pena a favore di persona affetta da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione, e cioè "quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative". Previsioni analoghe riguardano anche gli imputati affetti dalle medesime patologie, in conseguenza delle modifiche introdotte dalla suddetta legge all’art. 275 c.p.p, per i quali è assicurato un ampio ricorso agli arresti domiciliari (presso le unità operative di malattie infettive o presso una residenza collettiva o una casa alloggio), ai trasferimenti in luoghi di cura, all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare. La custodia cautelare in carcere si configura in questi casi come extrema ratio, essendo prevista solo in presenza di gravi delitti commessi dopo l’applicazione di misure non detentive. Anche l’ordinamento penitenziario ha subito modifiche per effetto della legge n. 231 del 1999, con l’aggiunta dell’art. 47 quater che prevede, a domanda dell’interessato o del suo difensore, la possibilità di disporre l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 O.P.) o la detenzione domiciliare (art. 47 ter O.P.), anche in deroga ai previsti limiti massimi di pena, per i soggetti affetti da Aids conclamata oda grave immunodeficienza che vogliano iniziare o abbiano in corso un programma terapeutico presso le indicare strutture sanitarie. Peraltro, in questi casi il giudice può anche derogare alle limitazioni previste dall’art. 4 bis O.P., concedendo perciò le misure alternative anche ai detenuti per gravi reati di criminalità organizzata. Le suddette misure possono essere revocate se la persona risulti imputata o nuovamente sottoposta ad altra misura restrittiva per reati commessi dopo la concessione del beneficio per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. La deroga al regime detentivo delineata nell’art. 47 quater O.P. non comprende i soggetti sieropositivi per i quali si può ipotizzare il ricovero in luogo esterno ai sensi dell’art. 11 O.P., nei periodi in cui questi sono più bisognosi di cure non erogabili adeguatamente nella struttura penitenziaria. Altre ragioni di incompatibilità con lo stato detentivo riguardano le donne incinte e le donne con bambini di età inferiore ad un anno, per le quali è previsto il differimento obbligatorio dell’esecuzione della pena, nonché le donne con bambini di età inferiore ai tre anni per le quali è previsto il rinvio facoltativo dell’esecuzione.
Il diritto di non essere curato. In particolare: lo sciopero della fame nelle carceri
Uno dei risvolti più problematici della tematica qui trattata è senz’altro quello del diritto a non farsi curare e dei limiti che esso può incontrare. La dottrina e la giurisprudenza prevalenti consentono ormai di affermare l’esistenza di un vero e proprio diritto a non essere curato con il limite costituito dall’ipotesi in cui il permanere della situazione patologica del singolo possa indirettamente mettere in pericolo la salute degli altri. Non sembra possibile, in senso contrario, invocare l’esistenza di un dovere del singolo alla salute, ricavato dal principio di solidarietà e partecipazione (artt. 2 cpv., 3 cpv. e 4 Cost.), che consenta l’apposizione di limiti legittimi alle libertà costituzionalmente garantite, sia perché l’art. 32 Cost. non parla di "dovere" ed è quanto meno problematico desumere dal sistema costituzionale doveri "ulteriori" rispetto a quelli enumerati sia perché è discutibile la stessa equazione salute-integrità fisica sulla quale sembra fondarsi la tesi in esame. Comunque, anche ove si accedesse a questa ricostruzione, la concretizzazione dei principi di solidarietà e partecipazione richiederebbe pur sempre l’intervento del legislatore (art. 23 cpv. Cost.) rivolto a configurare le specifiche e determinate fattispecie doverose che pretendano di fungere da limite per le situazioni soggettive costituzionalmente garantite, con la conseguenza che non sarebbe legittimo ipotizzare un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute direttamente ricavabile dalla Carta costituzionale. La Costituzione italiana legittima trattamenti sanitari obbligatori o coattivi solo nell’ipotesi in cui "alla salute del singolo si affianchi e sovrapponga l’interesse alla salute della collettività", richiedendo a tale fine, come già detto, un intervento del legislatore che "non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana" (art. 32, 2° comma, Cost.). Peraltro, in caso di trattamenti sanitari coattivi la cui osservanza non è assistita da fiera sanzione per l’ipotesi di violazione ma può essere imposta con la forza - si sostiene, da parte di coloro che ritengono che l’art. 13 Cost. contenga norme applicabili a tutte le forme di coercizione, che debbano essere rispettate le procedure ivi previste, con la conseguenza, tra l’altro, di un rafforzamento del vincolo al legislatore se è vero che la riserva ex art. 32, 2° comma, è relativa, pur se rinforzata, mentre quella ex art. 13 è assoluta. Di là dal problema della possibile applicazione ai trattamenti coattivi delle procedure previste dall’art. 13 Cost. il quadro che emerge consente di ritenere legittima l’imposizione di un trattamento sanitario solo quando concorrano due condizioni, e cioè la necessità di tutelare la salute dei terzi che, in mancanza di trattamento, risulterebbe messa in pericolo o danneggiata, insieme al fine di tutelare la salute di colui che è sottoposto al trattamento, in virtù del riferimento all’esigenza fondamentale del rispetto della persona umana. Fuori dalle suddette ipotesi, la regola dovrebbe essere quella della libertà di autodeterminazione quanto alla propria salute, desumibile in virtù dello stretto legame tra l’art. 32 egli artt. 2 e 3, 2° comma, Cost.. E la libertà di autodeterminazione finisce per incidere sulla stessa lettura dell’art. 5 c.c., secondo il quale "gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume", articolo che può dirsi "tacitamente modificato" per effetto della "sostituzione del concetto statico d’integrità fisica con quello dinamico di salute, di cui all’art. 32 Cost.", il che comporta una profonda trasformazione di prospettiva nella problematica in esame: dal potere alla libertà di disporre del proprio corpo, intesa, quest’ultima, come libertà di decidere e di autodeterminarsi. Non si può perciò trovare un fondamento giustificativo della liceità dei trattamenti sanitari "fuori ed oltre le previsioni legislative", per cui, come è stato ben detto, l’unica alternativa è quella tra legge e consenso. Il consenso è infatti espressione di un "diritto alla disponibilità del proprio corpo: diritto che come implica il consenso ad atti di disposizioni su di esso a favore degli altri (in quanto mantenuti nell’ambito prescritto dall’art. 5 c.c.) così li esclude, anche se compiuti a salvaguardia del corpo stesso, allorché il consenso manchi". Le coordinate, ora tracciate, risultano utili ai fini della trattazione del problema con specifico riferimento ai detenuti. Esiste per essi un diritto di non essere curati? La risposta al quesito non può non passare per la trattazione di un caso concreto, quello della disposizione dell’alimentazione forzata nei confronti del detenuto in sciopero della fame. Lo sciopero della fame viene definito, dalla dottrina medico – legale, come "il rifiuto volontario, totale, dell’assunzione di cibo (in genere con l’esclusione del rifiuto di acqua), senza giustificato motivo medico, che duri per più di tre giorni". In mancanza di una specifica disciplina legislativa, dovrebbe escludersi la liceità dell’intervento medico realizzato con le modalità dell’alimentazione forzata, non essendovi dubbio che esso costituisca un "trattamento sanitario" sensi dell’art. 32, 2° comma, Cost., sia perché le tecniche da impiegare sono presumibilmente sanitarie, sia perché la pratica ha il fine di conservare in salute un individuo che attua un comportamento auto lesionistico com’è il digiuno prolungato". Non sono tuttavia mancate pronunce di segno contrario che, nell’escludere l’applicabilità della misura della libertà provvisoria nei confronti del detenuto che si trovasse in condizione morbosa in conseguenza del protratto rifiuto del cibo, hanno ammesso la possibilità di praticare il trattamento dell’alimentazione forzata. Il fondamento normativo del trattamento è stato ricercato da un lato nelle norme che prevedono trattamenti sanitari obbligatori nei confronti delle persone affette da malattia mentale (art. 34, legge n. 833 del 1978), dall’altro nelle norme che consentono l’uso dei mezzi di coercizione fisica nei confronti del detenuto al fine, tra l’altro, di garantire la sua stessa incolumità (art. 41 O.P.). Ma entrambi i tentativi di fondare la liceità e la doverosità dell’intervento sono apparsi, ad un’attenta dottrina, insoddisfacenti. L’applicazione della disciplina contenuta nell’art. 34 della legge n. 833 del 1978 presuppone che si dia per scontato che il rifiuto protratto di alimentarsi sconfini sempre, a partire da un certo momento, in disturbo mentale, rendendo perciò stesso lecita qualsiasi misura obbligatoria e coattiva nei suoi confronti. Peraltro la stessa legge n. 833 del 1978 prevede che i trattamenti sanitari obbligatori possano essere disposti solo "nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici" (art. 33, 2° comma), e sarebbe "difficile negare che una coazione diretta a vincere il rifiuto, cosciente e volontario, di alimentarsi interferisca in tale sfera". Né va dimenticato che l’art. 32, 2° comma, Cost., va interpretato nel senso che il trattamento sanitario può essere imposto per legge solo quando sia in gioco, oltre alla salute dell’interessato, anche quella di terzi, per il resto dovendosi configurare un vero e proprio " diritto ad essere malato". Né può valere il richiamo all’art. 41 O.P. che consente l’uso della forza nei confronti dei detenuti qualora sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza e tentativi d’evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti. Lo sciopero della fame non si traduce, in effetti, in un "atto di violenza", né il fine di garantire l’incolumità del detenuto può giustificare un’attività che non si ridurrebbe nella "immobilizzazione" del soggetto, autorizzata dall’art. 41 per fare fronte a situazioni di emergenza, ma realizzerebbe una specifica e attiva "manomissione" della persona; altro sarebbe contrastare con la forza la commissione di atti positivi di violenza altro impedire un comportamento puramente omissivo e passivo come il digiuno. Non sembra dunque possibile riscontrare alcuna giustificazione costituzionalmente ammissibile per un trattamento "differenziato" nei confronti dei detenuti "in una materia che investe il godimento di diritti così strettamente legati all’eguale dignità di ogni persona", non potendo nemmeno ritenersi che la responsabilità dell’istituzione carceraria sulla vita dei detenuti autorizzi "a varcare i limiti imposti dal rispetto della persona, della sua autonomia e dei suoi diritti", specie in casi, come il digiuno, che rientrano nella sfera dei comportamenti strettamente personali non interferenti con i diritti altrui. Le medesime ragioni sembrano dunque invocabili, nei confronti dell’eventuale introduzione di una disciplina legislativa che preveda espressamente la disposizione dell’alimentazione forzata nei confronti del detenuto che versi in "imminente pericolo di vita", non potendo trovare giustificazione nell’art. 32 Cost. una disciplina dell’alimentazione coattiva limitata ai soli scioperanti della fame detenuti. In sostanza, non sembra ipotizzabile un trattamento "particolare" nei confronti dei detenuti che valga a disconoscere, solo per essi, il diritto a non essere curati. Altro è, infatti, ipotizzare un intervento medico in attuazione dell’obbligo di soccorso nei confronti di chi corre pericolo di vita e non è in grado di scegliere alcunché, altro è riconoscere un generico potere di intervento coattivo in caso di digiuno volontario. Nella prima ipotesi, infatti, l’intervento prescinde dalle cause che hanno determinato la patologia e si giustifica esclusivamente in relazione alla condizione in cui il soggetto versa. Nella seconda ipotesi, invece, il medico dovrebbe comportarsi secondo quanto prescritto dall’art. 50 del codice di deontologia medica del 1995, che così dispone: "quando un recluso rifiuta di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarlo sulle conseguenze che tale decisione comporta sulle sue condizioni di salute. Se il recluso è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive ne collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterlo". In conclusione, ben potrebbe affermarsi che la vera garanzia del diritto del detenuto a non farsi curare risieda proprio nella mancanza di una previsione legislativa che consenta l’alimentazione forzata in caso di sciopero della fame. Si potrebbe infatti sostenere che il principio costituzionale dell’autodeterminazione imponga al legislatore di astenersi dal disciplinare la materia, proprio in quanto si arriverebbe a fare ciò che la Costituzione non ha inteso fare, e cioè a collocare su una diversa posizione di un’ipotetica scala gerarchica il valore della "vita" e quello della "dignità" della persona. Ma, quella che a noi sembra la conseguenza di una scelta costituzionale è stata troppo spesso intesa alla stregua di una lacuna normativa da colmare ricorrendo ad altre previsioni esistenti nel sistema, finendo in molti casi, da un punto di vista applicativo, per negare lo stesso diritto a non farsi curare in capo al (solo) detenuto.
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