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Sistema penale e patologie d’interesse psichiatrico
Patologie d’interesse psichiatrico e carcere
Il problema della gestione delle patologie psichiche in carcere è quanto mai complesso e controverso, posto che si tratta di conciliare due tematiche, quella dei disturbi mentali e della compatibilità carceraria, già per loro specifica natura sfuggenti e difficili da delimitare. L’ordinamento penale poco dice sul trattamento sanitario del reo malato di mente, ma appare evidente che nei confronti di questi soggetti occorrano mezzi d’intervento, in grado di salvaguardare al contempo la collettività e il singolo autore di reato. La crescente sensibilità degli ultimi anni nei confronti della tutela della salute delle persone detenute deriva certamente anche dalla sempre più diversificata composizione della popolazione carceraria, molto più eterogenea rispetto al passato; in essa, infatti, oggi è rinvenibile la presenza di soggetti appartenenti a categorie sociali, professionali e culturali più elevate e non alla tradizionale fascia dei meno abbienti. Secondo alcuni ciò è derivato sia dalla diffusione di reati terroristici di tipo "politico", sia dalla crescente diffusione della cosiddetta "criminalità del colletto bianco", ovvero quei comportamenti delittuosi posti in essere da politici, imprenditori, professionisti e funzionari. Le problematiche di interesse psichiatrico che il carcere propone sono sostanzialmente due: la gestione delle reazioni ansioso-depressive generate dall’arresto e dall’incarcerazione e spesso accompagnate da rimorso e vergogna, e il trattamento di forme psicopatologiche più gravi, spesso già in carico ai servizi territoriali, che deve essere proseguito e adattato in carcere. La presunzione della sussistenza di pericolosità sociale a carico dell’autore di reato psichicamente sofferente in passato ha provocato frequenti applicazioni delle misure di sicurezza provvisoria, basate su una mal riposta precedenza data alle esigenze di difesa sociale. Oggi il sistema vigente ha in parte eliminato tali disfunzioni anche se permangono comunque le note difficoltà di aggiornamento e gestione delle strutture previste dal legislatore del 1930, del tutto avulse dalle esigenze terapeutiche della moderna psichiatria. Particolare attenzione dal punto di vista clinico merita la definizione diagnostica della malattia mentale. Sono almeno tre i momenti in cui potrebbe richiedersi una diagnosi psichiatrica in ambito penale: sull’indagato!imputato/appellante già malato o comunque tale al momento della commissione del fatto; sul condannato portatore di un’infermità sopravvenuta; sull’internato in sede di riesame della persistenza della pericolosità sociale. Lo specialista incaricato, oltre che formulare la diagnosi, deve anche svolgere un corretto giudizio prognostico: una volta diagnosticata la patologia, deve infatti essere prospettata la sua evoluzione con riferimento agli strumenti terapeutici a disposizione: è quindi evidente che la prognosi clinica dipenderà direttamente dagli strumenti utilizzabili e dalla loro efficacia. Il perito dovrà fare quindi riferimento alle possibilità offerte dal sistema penale, le quali essenzialmente si sostanziano nelle misure di sicurezza (detentive e non) espressione di custodia piuttosto che di cura. Come è noto, non si rileva una maggiore commissione di delitti da parte di malati di mente rispetto al resto della popolazione; il concetto di pericolosità sociale è inoltre un concetto non scientifico e di conseguenza non desumibile dalla sola presenza della malattia mentale, bensì da più elementi di competenza non tanto psichiatrica quanto criminologica: si tratta infatti di valutare tutti i fattori inerenti non solo all’ambiente in cui si è generato il reato ma anche a tutto ciò che entrerà in contatto col soggetto in questione. Sarebbe forse auspicabile, al fine di conciliare la necessità di difesa sociale con la tutela della salute del reo malato di mente, creare una più netta demarcazione di responsabilità tra il sistema penale, che si dovrebbe limitare a determinare la responsabilità penale del soggetto, e il sistema sanitario, preponendo quest’ultimo al suo trattamento; una volta individuata dall’autorità giudiziaria l’origine della responsabilità penale in una matrice psicopatologica, dovrebbe intervenire l’autorità sanitaria e procedere al trattamento terapeutico. Forse non siamo lontani da una soluzione di questo tipo, se teniamo conto delle recenti posizioni delineate dalla Corte Costituzionale che in tema di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 222 c.p., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale. La Corte Costituzionale ha affermato tale principio con la sentenza n. 253 del 18 luglio 2003, precisando che l’automatismo di una misura segregante e "totale", come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, imposta dalla norma, quando appare in concreto inadatta, viola le esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona, e in specie del diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione. Attualmente, comunque, la normativa non prevede una distinzione di questo genere; le competenze mediche, all’interno degli istituti, sono state demandate, prima con una serie di circolari e poi in veste normativa ad opera dell’art. 13 della Legge 30 ottobre 1992, n. 444, all’organizzazione in settori operativi prevedendo una specifica area sanitaria alla quale viene preposto quale responsabile, per quanto riguarda gli stabilimenti indicati nella Legge 26/91, un Dirigente sanitario (in genere un medico di ruolo dell’amministrazione penitenziaria), e per gli altri un medico incaricato. Negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e nei centri diagnostici terapeutici (CDT) vi è un medico Direttore di ruolo; per le attività atte a fornire un valido aiuto nella individuazione e prevenzione delle psicopatologie da internamento, e le attività di assistenza e sostegno psicologico, possono essere utilizzati anche educatori, psicologi e psichiatri designati ed incaricati ai sensi dell’art. 80 O.P.
Esigenze cautelari e disturbi mentali: la custodia in luogo di cura
L’art. 286 (Custodia cautelare in luogo di cura) c.p.p. prevede che "Se la persona da sottoporre a custodia cautelare si trova in stato di infermità di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capacità di intendere o di volere, il giudice, in luogo della custodia in carcere, può disporre il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero": la ratio di tale norma è evidentemente individuabile nell’intento di realizzare l’eventuale trasferimento del soggetto infermo di mente nella struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, senza il passaggio attraverso il carcere. L’attenzione alle esigenze cautelari, emerge dal fatto che la norma autorizzi e non obblighi il giudice a disporre la misura in esame, e preveda inoltre che la disposizione della misura stessa sia subordinata all’adozione dei "provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga". L’ultima parte del comma I dell’art. 286 c.p.p. stabilisce infine che il ricovero non possa essere mantenuto quando risulti che il soggetto non è più infermo di mente; in tal caso, laddove permangano le esigenze cautelari, sarà disposta la misura della custodia cautelare in carcere, o altra misura adeguata. Un problema riguardante la citata discrezionalità del giudice nella conversione della custodia in caso di forme psichiatriche ex art. 286 c.p.p. deriva dal riferimento contenuto nell’art. 73 (Provvedimenti cautelari) comma III c.p.p. alla esecuzione obbligatoria della custodia cautelare nelle forme di cui all’art. 286, "in ogni caso in cui lo stato di mente dell’imputato appare tale da renderne necessaria la cura nell’ambito del servizio psichiatrico". Tale apparente contrasto tra discrezionalità e vincolo deve essere inteso, secondo alcuni, ritenendo che il rinvio all’art. 286 sia "un rinvio a tutte le proposizioni della norma, ivi compresa la facoltà (e non l’obbligo) della sostituzione della custodia cautelare con la sua versione psichiatrica"; si eliminerebbe del resto altrimenti ogni potere discrezionale del giudice di fronte ad esigenze cautelari eventualmente assai gravi, in contrasto con altre disposizioni dell’ordinamento giuridico predisposte in modo tale da non trascurare tali esigenze. Per evitare che la malattia costituisca lo strumento per ottenere indebiti benefici e che a tal fine venga provocata o simulata, la metodologia dell’indagine processuale deve seguire, secondo alcuni, determinate linee: "accertare le infermità di cui l’imputato è affetto; stabilire se, per effetto delle infermità riscontrate, l’imputato versi in condizioni di salute particolarmente gravi, con riferimento diretto al quadro morboso in atto; in caso di risposta positiva al precedente quesito, accertare gradatamente: 1) se gli accertamenti diagnostici e le cure di cui l’imputato ha bisogno possono essere praticati nell’infermeria del carcere o in centri clinici carcerari, provvisti di strumentazioni e di personale idoneo; 2) se, in carenza di detta organizzazione sanitaria, le cure necessarie e indilazionabili possono essere apprestate in ospedali civili od in altri luoghi esterni di cura, fermo restando lo stato di detenzione dell’imputato, da attuarsi mediante servizio di piantonamento; 3) se, per la natura delle infermità e per le particolarità delle cure o la durata delle stesse, lo stato di detenzione dell’imputato in ospedale civile o in altro luogo esterno di cura, con le modalità sopra indicate, si riveli obiettivamente incompatibile con il trattamento terapeutico che nel caso si rende necessario ed indilazionabile: 4) se, in presenza di una sindrome psicopatologica specifica o di altre condizioni obiettive non altrimenti ineliminabili, lo stato di privazione della libertà personale dell’imputato, in qualunque luogo attuato, si riveli idoneo ad interferire negativamente sull’efficacia del trattamento terapeutico che si rende indispensabile nella specie, in modo da comprometterne l’esito e cosi produrre ulteriore nocumento alla persona dell’interessato, con caratteristiche di irreversibilità o comunque tali da rendere ancora più grave il suo già compromesso stato di salute".
Il trattamento delle patologie di interesse psichiatrico più gravi
Il principale problema legato alle patologie psichiatriche di particolare gravità non consiste nella prosecuzione del trattamento farmacologico, ma nella gestione del paziente nel contesto carcerario. I soggetti con disturbi psichici entrano più facilmente e rapidamente in conflitto con gli altri detenuti e sono solitamente emarginati o addirittura maltrattati; la loro particolare condizione mentale li rende soggetti a rischio, in particolar modo in situazioni di sovraffollamento, di gesti auto e/o etero aggressivi. Tali caratteristiche mal si conciliano con strutture carcerarie caratterizzate proprio dal sovraffollamento, a fronte del crescente numero di detenuti psichicamente disturbati. La gestione dei detenuti con problematiche psicopatologiche diviene ancor più complessa, per la difficoltà ad intraprendere o proseguire taluni trattamenti farmacologici, anche per i ricoverati nei centri clinici dell’amministrazione penitenziaria. Non devono inoltre essere dimenticati alcuni disturbi di personalità che creano gravi problemi al personale operativo e medico del carcere a causa della possibile frequenza di comportamenti aggressivi, polemici, ricattatori e, sovente, autolesivi, o comunque volti ad ottenere una continua, pretesa assistenza.
L’infermità psichica sopravvenuta al condannato
L’infermità psichica può dar luogo a conseguenze diverse in relazione al momento in cui è accertata. Se l’accertamento è relativo al momento in cui è stato commesso il fatto, esso determina, se totale, il proscioglimento ed il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario - sempre che sussista la pericolosità sociale - per un tempo fissato nel minimo e proporzionato alla gravità del reato commesso, secondo quanto stabilito dagli artt. 88 c.p. (Vizio totale di mente) e 222 c.p. (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario). Se l’infermità sopravviene prima che la sentenza sia passata in giudicato, il procedimento è sospeso ex art. 71 c.p.p. (Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato). Se infine la manifestazione della patologia ha luogo posteriormente alla sentenza di condanna ed è tale da impedire l’esecuzione della pena si provvederà al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia fino alla cessazione della malattia e la revoca del provvedimento di ricovero, ex art. 148 c.p. (Infermità psichica sopravvenuta al condannato). Del problema dell’infermità mentale si occupa dunque l’art. 148 c.p., che impone al giudice l’obbligo di ordinare il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, o in casa di cura e custodia, del condannato affetto da infermità psichica tale da impedire l’esecuzione della pena. Nella prospettiva originaria del codice, il periodo di ricovero non veniva computato come detenzione e la pena ricominciava a decorrere soltanto quando si fosse risolta l’infermità psichica e/o il conseguente internamento. La mancata detrazione del periodo di ricovero ai fini della pena da scontare rivelava in realtà il volto repressivo dell’art. 148: tale norma portava ad infierire giudiziariamente su un soggetto la cui infermità sopravvenuta poteva non avere alcun collegamento con il fatto commesso e con la relativa condanna. L’impostazione fornita dal legislatore del 1930 orientava in modo netto l’interprete, di fronte al quesito relativo alla possibilità di imputare all’esecuzione della pena il periodo trascorso in manicomio giudiziario. Del resto la giurisprudenza non aveva mai avuto dubbi o ripensamenti nel dare risposta negativa a tale quesito, elaborando la "teoria della parentesi": se l’infermità psichica sospende l’esecuzione, questa riprende il suo corso quando sia venuta meno la causa che ha determinato la sospensione, ed il tempo anteriore al verificarsi della causa si somma con il tempo successivo; potendo la sospensione paragonarsi ad una parentesi. Prima del codice Rocco non esistevano precise disposizioni di legge che prevedessero la sospensione dell’esecuzione della pena nel caso di condannati colpiti da infermità psichica. Le uniche disposizioni al riguardo erano contenute nell’art. 469 del regolamento penitenziario del 1891, laddove si stabiliva che i condannati a pena superiore ad un anno, colpiti da alienazione mentale, fossero destinati a speciali stabilimenti, nei quali si provvedeva contemporaneamente alla repressione e alla cura, sino a che l’autorità competente "non revochi il provvedimento, nel qual caso il rimanente della pena è scontato nei modi ordinari" (art. 47 c.p. 1889). Non esistevano veri e propri manicomi giudiziari, adibiti in via esclusiva al ricovero di infermi di mente condannati o giudicabili. Soltanto con la riforma del 1931 si affermò che "i delinquenti alienati di mente dovevano essere segregati a tempo indeterminato, non già negli ordinari manicomi comuni, ma nei manicomi giudiziari, di cui l’Italia già possiede cinque". Agli ospedali psichiatrici giudiziari si cercò di dare, fin dalla loro creazione, un aspetto improntato alla terapia con norme disciplinari ispirate a senso di umanità. Tali istituti, oltre che ricoveri per malati di mente, erano spesso contesti ricettivi di simulatori e invano le direzioni dei manicomi provvedevano alla loro dimissione; dopo breve tempo essi ritornavano nei manicomi. Benché tale situazione potesse aver realmente contribuito all’introduzione dell’art. 148, furono gli stessi giuristi di allora, a quaranta anni di distanza, a riconoscere che sulla tanto discussa simulazione di pazzia da parte di condannati durante l’esecuzione della pena "si sia voluto un po’ esagerare". Nei manicomi giudiziari si espiava comunque ben più che una pena, in quanto al trattamento carcerario era unito il cosiddetto "trattamento curativo", che era spesso più duro e affittivo del primo. Non vi era afflittività di trattamento, durezza di limitazioni, sfruttamento di energie fisiche, ottusità di censure, inumanità di punizioni che potesse trovare giustificazione in asserite, indiscutibili e insindacabili esigenze terapeutiche. Il testo dell’art. 148 elaborato ed inserito nel codice Rocco non fu altro che l’applicazione "dell’indiscutibile principio" secondo cui nel rapporto punitivo la capacità del soggetto deve esistere non solo nel momento della dichiarazione di colpevolezza e dell’applicazione della pena, ma anche nel periodo di esecuzione di essa. In questo modo, qualora l’infermità psichica sopravvenuta venga a togliere al condannato la comprensione della pena nel suo contenuto morale e perciò la "sensibilità di essa", diventa impossibile l’esecuzione. Il guardasigilli Rocco nella sua relazione sul progetto del codice penale ebbe modo di affermare: "Una speciale norma regola il caso d’infermità psichica sopravvenuta al condannato a pena detentiva. La esecuzione di tale pena è rinviata o sospesa, secondo che l’infermità sopravvenga prima o nel corso dell’esecuzione o, in ogni caso, ove questa non possa avere luogo in rispondenza con le finalità della sanzione penale. Trattasi quindi di impedimento che, ponendo il condannato nell’impossibilità di risentire degli effetti afflittivi e correttivi della pena, esclude in conseguenza la possibilità di computare nella durata di questa il tempo del ricovero in un manicomio giudiziario e in una casa di cura e di custodia. Questo è un principio che è affermato in contrasto con quanto dispone il codice penale del 1889, il quale per un’opportuna sollecitudine riguardo alla liberazione del condannato, dimenticava l’obbligo da costui contratto di sottostare alla pena, finche questa non sia, per decorso del tempo, ovvero in altro modo estinta". L’art. 148 c.p. trovava complemento nell’art. 106 del regolamento penitenziario (r.d. 18 giugno 1931, n. 787), il quale prevedeva che "Se un detenuto dà segni di alienazione mentale, il medico dispone che sia posto in osservazione e prescrive le cautele e i provvedimenti che ritiene opportuni per accertare se l’alienazione effettivamente sussiste e per garantire la sicurezza dell’infermo e l’ordine dello stabilimento. Delle osservazioni fatte e dei provvedimenti adottati il medico informa per iscritto la direzione, la quale riferisce al ministero. Se l’infermità psichica sopravviene ad un imputato, il direttore ne informa immediatamente l’autorità giudiziaria che procede. Se l’infermità psichica sopravviene ad un condannato, durante l’esecuzione della pena, il direttore ne informa immediatamente il procuratore del Re, il quale, sentito l’ispettore sanitario del Ministero, provoca dal giudice di sorveglianza i provvedimenti indicati nell’art. 148 c.p.. L’autorità dirigente del manicomio informa mensilmente il procuratore del Re sulle condizioni del condannato per il quale l’esecuzione della pena fu sospesa. Il procuratore del Re, quando sono cessate le ragioni che determinarono il provvedimento di sospensione, ne provoca la revoca dal giudice di sorveglianza ed informa il Ministero per l’assegnazione del condannato ad uno stabilimento di pena". La creazione di quest’ultimo organo giurisdizionale era enunciata dall’art. 144 c.p., cui faceva riscontro l’art. 585 del c.p.p., il quale asseriva che giudice di sorveglianza era il Pretore per le pene che si Scontavano nel carcere mandamentale, un giudice del tribunale, nominato Con decreto del Ministro della Giustizia, in ogni altro caso. L’intervento del giudice di sorveglianza era limitato alle sole pene detentive poiché ne la pena di morte ne quella pecuniaria importavano la possibilità dell’emenda. Con l’applicazione dell’art. 148 c.p. si modificava la condizione del condannato che, dal momento del ricovero nel manicomio giudiziario, non veniva più considerato in espiazione di pena; per tale motivo, le funzioni svolte dal giudice di sorveglianza ex art. 148 c.p. erano importanti per la tutela del diritto del condannato che la pena cessasse alla scadenza fissata nella sentenza di condanna: tale diritto poteva infatti essere menomato, qualora un errato accertamento portasse ad una sospensione della pena con il conseguente prolungamento della scadenza della stessa. Per quanto riguarda l’accertamento dell’«infermità psichica tale da impedire l’esecuzione", l’incapacità esecutiva di cui all’art 148 c.p. non apparve identifica bile nell’incapacità di cui all’art. 88 c.p.p., relativo alla Sospensione del procedimento per infermità di mente sopravvenuta all’imputato. La malattia mentale che portava all’incapacità esecutiva, dovendo fare riferimento all’esecuzione, periodo di tempo di una certa durata, doveva ricavarsi da elementi clinico-psichiatrici e penitenziari di altra entità. Se la pena doveva avere per il condannato carattere assistenziale, affittivo-disciplinare, correttivo, tali caratteristiche non potevano infatti sussistere laddove il soggetto non avesse la capacità psichica di intenderne il significato. Vi fu chi sostenne che "non si è pensato che il folle condannato di oggi è colui che precedentemente, quantunque in apparenza sano, era sempre il portatore di una costituzione capace di dar luogo allo sviluppo di una malattia mentale e quindi, se la latenza morbosa al tempo del delitto non permise di riconoscerne la scemata imputabilità, è tuttavia chiaro che il reato che egli commise devesi addebitare non alla volontà di delinquere, ma alla disposizione costituzionale che poi doveva ineluttabilmente travolgerlo nel gorgo dell’infermità psichica. Quest’uomo è già minorato, perché predisposto alla pazzia, reso poi estremamente infelice per aver perduto il bene più grande che l’uomo possegga, la ragione, verrebbe ad essere punito assai più di chi freddamente, volontariamente è incorso nel codice penale. Apparisce come una spontanea invincibile espressione del sentimento umano il considerare qualsiasi malattia fisica, che duri a lungo, degna di portare ad una mitigazione della pena. Infatti i criminali riconosciuti tubercolotici sono curati, assistiti, godono dell’apposito tubercolosario della Pianosa di tutti i benefici di un trattamento ospedaliero e per essi la pena non si sospende. Non si sospenda dunque la pena nemmeno per l’altra categoria di infelici già si duramente colpita dalla malattia mentale". Patini individuava alcuni notevoli benefici nell’applicazione dell’art. 148, ad esempio nel rapido esodo dai manicomi giudizi ari di un certo numero di simulatori di pazzia, ma numerose erano comunque le sue perplessità riguardanti soprattutto "il tipo di pazzia considerato dal legislatore, in relazione al quale esistevano indeterminatezze ed equivoci". Ancora Patini, occupandosi dei casi nei quali poteva sussistere la necessità di custodia in manicomio ed essere conservata però la capacità di sentire l’azione affittiva e correttiva della pena, individuava un danno nella sospensione di quest’ultima per i condannati che ne venissero colpiti. L’art. 148 in tali casi apportava un prolungamento della pena e somministrava una dose di afflizione in aggiunta a quella determinata dal giudice della condanna. L’autore proponeva la compilazione di un elenco delle affezioni psichiche nelle quali soleva conservarsi la facoltà di risentire degli effetti della pena e per queste prescrivere che, pur provvedendosi al ricovero definitivo dell’infermo in un manicomio o in una casa di cura e custodia, l’esecuzione della pena non si differisse o sospendesse. In psichiatria si andava infatti delineando una tendenza a restringere il concetto di follia: Rojas affermava che non poteva chiamarsi follia o alienazione mentale un turbamento della psiche che non fosse generale e di una certa intensità, che non avesse una certa durata, che non ponesse il paziente in grado di non comprendere o di comprendere almeno molto vagamente il suo stato morboso, che non impedisse al soggetto di adattarsi in modo logico e attivo all’ambiente, e che non gli impedisse di valersi del proprio stato a fini utilitari. Anche Cremona, pur riconoscendo alla legge un’utilità in riferimento ai frequenti casi di simulazione di pazzia, concludeva che il provvedimento di sospensione del corso della pena ai malati di mente era da condannarsi dal punto di vista umano, essendo la perdita della ragione tra le più grandi sventure umane. Il sentimento di pietà verso coloro che ne erano colpiti non avrebbe dovuto infatti permettere di aggiungere ad un male cosi grande quello della privazione della libertà per un tempo corrispondente alla degenza manicomiale. Se la sospensione della pena per sopravvenuta infermità psichica era valsa ad eliminare la presenza nei manicomi giudiziari di condannati simulatori di malattia mentale e d’individui che, essendo costituzionalmente anormali, non erano bisognosi di cura e assistenza manicomiale, per contro, in alcuni casi, aveva peggiorato la sanzione punitiva, per la possibilità da parte del condannato di valutare in tutta la gravità la sua nuova situazione, aggravando l’infermità o provocando reazioni al ritorno nello stabilimento di pena, dove era necessariamente comunicato al condannato lo spostamento di termine per la sua liberazione. Margara, a proposito dei ricoverati del manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino in situazioni giuridiche sospese in relazione ad uno stato di mente, offriva una denuncia documentata delle situazioni abnormi e inique rese possibili dal codice Rocco ed individuava due tipi di situazioni giuridiche sospese: le fatti specie di cui agli artt. 88 c.p.p. e 148 c.p.. Comune alle due situazioni era il fatto che esse comportavano (la prima facoltativamente, la seconda obbligatoriamente) il ricovero in manicomio giudiziario. Il modo di cessazione naturale di tali situazioni giuridiche sospese era il recupero, da parte del soggetto colpito da infermità di mente di una capacità di intendere e di volere sufficiente. Nel primo caso sarebbe stato il giudice procedente a pronunciare la revoca della sospensione, promovendo la ripresa del corso del procedimento; nel secondo, sarebbe stato il giudice di sorveglianza a revocare la sospensione della pena. Non infrequenti erano i casi in cui vi era sospensione del procedimento o della pena, disposta dal magistrato senza un congruo periodo di osservazione, che avrebbe invece potuto evitare il radicarsi di situazioni che non erano poi di facile soluzione. L’ipotesi del miglioramento delle condizioni del malato era di verificazione assai rara, sia perché i tipi di malattia di mente favoriti dall’ambiente carcerario dal quale i malati provenivano difficilmente potevano essere curati in un ambiente che conservava i caratteri detentivi dell’istituto di provenienza; sia perché, considerate le condizioni di struttura dei manicomi giudiziari, l’intervento terapeutico era reso difficile nonostante l’abnegazione del personale; sia, infine, perché i casi per i quali si arrivava alla situazione sospesa presentavano sovente particolare gravità o scarsa reversibilità. Potevano poi verificarsi casi nei quali il periodo di sospensione della pena trascorso in manicomio giudiziario aveva ampiamente superato la pena inflitta, e casi nei quali gli internati in manicomio giudiziario attendevano da decenni il processo. Tra l’altro, spesso, alcuni condannati venivano mandati in manicomio giudiziario perché si trattava di soggetti "ribelli, riottosi, con condotta irrequieta e disordinata", "individui i quali, durante la detenzione, evidenziano delle gravi crisi di disadattamento ambientale, per cui non si confà, per loro, il comune ambiente carcerario", "soggetti i quali, durante la detenzione, manifestano disarmonia sociale, situazioni conflittuali con l’ambiente, con manifestazioni di rivolta e di contrasto", "capaci di inscenare, rendendosene istigatori o protagonisti, fatti gravi di violenza". L’internato in manicomio giudiziario veniva punito e lo si poneva in condizioni igieniche, ambientali, alimentari, tali da mortificarlo continuamente aggravando così il suo stato di malattia. Se le due esigenze pratiche da soddisfare erano quelle di "punire" e "custodire", risultano spiegati i lunghissimi periodi di tempo che, a causa della sospensione del procedimento o della pena l’imputato o il condannato trascorrevano in manicomio giudiziario, la scarsa reversibilità di queste situazioni, la superficialità delle analisi dei medici, l’indifferenza dei magistrati, etc. Con la sentenza 19 giugno 1975, n. 146, e senza che fosse necessario esaminare anche la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 27 comma III Cost., la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità dell’art. 148 c.p. nella parte in cui prevedeva che il giudice, nel disporre il ricovero in manicomio giudiziario del condannato caduto in stato di infermità psichica durante l’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale, ordinasse che la pena medesima fosse sospesa e nella parte in cui prevedeva che il giudice ordinasse la sospensione della pena anche nel caso in cui il condannato fosse ricoverato in una casa di cura e di custodia ovvero in un manicomio comune. L’incostituzionalità derivava dalla palese violazione dell’art. 3 Cost.; la Corte poneva in evidenza l’ingiustificata disparità di trattamento, per l’imputato ed il condannato colpiti da malattia mentale rispettivamente nel corso del procedimento e dopo la sentenza di condanna. Nel primo caso si aveva la sospensione del procedimento ex art. 71 (Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato) c.p.p., ma non della custodia cautelare; nel secondo caso la pena era differita o sospesa ai sensi dell’art. 148 c.p. per poi riprendere a decorrere in carcere una volta cessato l’impedimento. La disciplina della infermità psichica del condannato configurava infatti non una ipotesi di rinvio o di sospensione della pena, bensì soltanto una causa di mutamento obbligatorio del suo regime esecutivo, dovendo l’intervenuto periodo di ricovero essere computato nella stessa pena. Sempre in tema, la Corte Costituzionale, nella sentenza 111/96 ha poi dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 148 c.p. in riferimento agli artt. 3, 27 e 32 Cost. nella parte in cui prevede il ricovero in OPG del condannato affetto da grave malattia psichica sopravvenuta, rientrando nella discrezionalità del legislatore la scelta del trattamento differenziato rispetto alla grave infermità fisica. La Legge 180/78, sopprimendo gli ospedali psichiatrici civili, rese ancor più difficile l’interazione fra carcere e strutture esterne per esigenze di ordine psicopatologico, al di fuori dei casi di urgenza. Di converso la scelta della disciplina diversificata, e dunque di tutela differenziata della salute, non trova altra giustificazione se non sotto il profilo della sicurezza sociale. Il trattamento degli infermi psichici è discriminato anche nei confronti dei soggetti di pari categoria che non delinquono, avendo essi diritto, in seguito alla Legge 180/78, ad un trattamento terapeutico non di tipo custodialistico e segregante come quello che caratterizza la malattia mentale in carcere. Un aspetto più volte sottolineato ma meritevole di ulteriore approfondimento riguarda l’azione simulatrice, ovvero il comportamento che si manifesta nella produzione intenzionale di sintomi fisici o psicologici falsi o grossolanamente esagerati, motivata da incentivi esterni come evitare il lavoro o un procedimento penale, oppure ottenere farmaci. La simulazione può interessare un ampio spettro di sintomatologie: psichiatriche, neurologiche, otorino-laringoiatriche ed internistiche. L’intenzione fraudolenta si appalesa nel fingere malattie o menomazioni inesistenti, nell’esagerare i sintomi di una reale malattia, nel procurare, mantenere od aggravare patologie o, infine, nel procrastinare un’infermità ormai scomparsa, finche il soggetto non abbia raggiunto il suo scopo o si renda conto dell’inutilità del perdurare in tale pantomima clinica. La scelta del modus simulandi varia in relazione al livello intellettuale posseduto dall’individuo, al suo grado di suggestionabilità e alla capacità di mettere in atto meccanismi psico-fisici riflessi controllabili attraverso la volontà. L’accertamento clinico su tali pazienti deve prevedere una non sempre facile opera di discernimento delle reali condizioni di salute: non si possono, infatti, sottovalutare i sintomi lamentati, altrimenti si potrebbe metter a rischio la salute del recluso; d’altro canto non si possono sottovalutare neppure le esigenze di sicurezza e l’interesse della giustizia all’esecuzione della condanna definitiva. La valutazione della malattia psichica deve essere effettuata sulla base di elementi soggettivi, non facilmente imitabili, ma non è inverosimile che una malattia inizialmente simulata possa poi evolversi, in soggetti caratterialmente deboli, in un quadro francamente morboso. La somatizzazione tipica delle malattie psicosomatiche, ad esempio, è fenomeno che si presenta in una serie di manifestazioni emozionali, talora difficili da decifrare, con le quali il soggetto esprime il suo turbamento interiore, e può comprendere semplici sensazioni di malessere cosi come vere e proprie patologie organiche. Nota comune del comportamento somatico è la ripetuta richiesta, da parte del soggetto, di nuovi esami, nella speranza di avere un riscontro obiettivo finalizzato al beneficio. La valutazione clinica dello stato patologico deve quindi comprendere un giudizio sul grado di compromissione dell’organo o della facoltà mentale (criterio diagnostico), sull’evoluzione della patologia (criterio prognostico) e sull’intensità dei presidi terapeutici necessari (criterio terapeutico). In ordine a questi parametri il medico dovrà valutare se gli accertamenti diagnostici o le cure, ove necessario, possano essere praticati nell’infermeria del carcere o in centri clinici carcerari ovvero, in carenza di personale e strumenti idonei, se debbano essere apprestati in strutture sanitarie territoriali; dovrà altresì rilevare le situazioni in cui lo stato di detenzione risulti incompatibile con la malattia e il trattamento terapeutico, così come, in presenza di una psicopatologia, dovrà valutare se lo stato di privazione della libertà personale si riveli idoneo a interferire negativamente sulla terapia in modo da comprometterne l’esito. Secondo quanto stabilito dall’art. 112 del R.P. l’accertamento delle condizioni psichiche degli imputati, dei condannati, ai fini dell’adozione dei provvedimenti previsti dagli artt. 148 c.p. (Infermità psichica sopravvenuta al condannato); 206 (Applicazione provvisoria delle misure di sicurezza) e 212 (Casi di sospensione o di trasformazione di misure di sicurezza) II comma c.p.; 70,71,72 c.p.p. (Stato di capacità dell’imputato); 111 comma IV R.P. (Ospedali psichiatrici giudiziari, case di cura e custodia, istituti e sezioni speciali per infermi e minorati fisici e psichici), "viene espletato nel medesimo istituto in cui si trova il soggetto e, solo in caso di insufficienza di quel servizio diagnostico, in altro istituto o, in presenza di particolari motivi, in OPG, casa di cura e custodia, istituto o sezione per infermi psichici e infine nei presidi territoriali". Sempre il R.P. all’art. 20 prevede una serie di provvedimenti riguardanti l’infermo di mente: controllo della corrispondenza, ammissione al lavoro o ad attività ergoterapeutiche, partecipazione alle rappresentanze, sottoposizione a sanzioni disciplinari di cui gli accertamenti, i giudizi e le indicazioni del sanitario costituiscono i presupposti. Un altro aspetto rilevante che è stato affrontato dal nuovo R.P.. attiene al destino sanitario dei pazienti dopo la detenzione, stante la mancanza di un collegamento con il SSN: la preoccupazione circa la continuità terapeutica costituisce il presupposto della disposizione dell’art. 89 (Dimissione) con il quale si stabilisce che "i dimessi che necessitano, a causa di gravi minorazioni psichiche, di un ricovero in un luogo di cura, devono essere trasferiti alla più vicina appropriata istituzione ospedaliera". In caso di intrasportabilità, la norma prevede la sospensione della dimissione e la possibilità per l’infermo di rimanere in istituto per assicurargli le cure necessarie, ovviamente con l’attenuazione del regime carcerario. L’art. 20 stabilisce inoltre, in materia di infermità mentale, l’ingresso del SSN nell’istituto per rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari la individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale: i disturbati mentali sono infatti soggetti la cui personalità psicopatica è all’origine della condotta criminosa spesso recidivante. L’art. 20 cerca quindi di favorire il rapporto del malato con l’esterno e in particolare con la famiglia, onde evitare un rafforzamento dell’effetto di isolamento che evidentemente non aiuta il soggetto a superare la propria malattia, e cerca di favorire la cura di questi soggetti attraverso un coinvolgimento del servizio pubblico territoriale durante la detenzione. Anche l’art. 113 (Convenzione con i servizi psichiatrici pubblici) del R.P. prevede che la gestione degli Ospedali psichiatrici giudiziari possa essere affidata al SSN mediante convenzioni. L’intervento psichiatrico si estende poi alla previsione di un trattamento diversificato che consenta l’assegnazione alle strutture psichiatriche solo nei casi necessari: l’art. 111 del R.P. (Ospedali psichiatrici, case di cura e custodia, istituti e sezioni speciali per infermi e minorati fisici e psichici) prevede infatti l’esecuzione negli istituti ordinari anche per coloro che siano condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente. In tal modo, da una parte si selezionano i soggetti realmente bisognosi dell’internamento, dall’altra potranno essere evitate quelle ricadute negative che l’inserimento in una struttura istituzionalizzata comporta, inserimento che è ripudiato dai nuovi criteri dell’assistenza psichiatrica: tale operazione presuppone ovviamente un potenziamento dei servizi d’istituto. L’art. 111 R.P. prevede, infatti, l’assegnazione all’OPG di personale infermieristico necessario con riferimento alla funzione di cura e di riabilitazione dei soggetti affetti da infermità oda minorazioni fisiche o psichi che e l’art. 20 comma IX dispone che i detenuti e internati tossicodipendenti che presentino anche infermità mentali siano seguiti in collaborazione dal SER T e dal servizio psichiatrico. Tale operazione richiederebbe, in verità, l’inserimento della figura dello psichiatra nei Ser.T. oltre ad ulteriori interventi sulle modalità di raccordo e funzionamento degli stessi servizi nel sistema penitenziario.
Sindromi reattive alla carcerazione
Il carcere rappresenta una comunità interna ad un’altra, nella quale esistono vere e proprie regole di condotta, una sorta di codice di comportamento dei detenuti che va dalla lealtà verso gli interessi della propria classe alla preordinata non collaborazione con il personale. Il detenuto tende a conformarsi ai valori vigenti in carcere; si tratta di una reazione istintiva, una sorta di adattamento alle dure condizioni di vita in carcere e una risposta al continuo senso di insicurezza e paura che esso trasmette. Dal momento in cui un soggetto è privato della libertà personale il suo modello di comportamento muta sensibilmente. Alle forme di disadattamento più o meno marcato si aggiungono forme di patologia mentale a carattere reattivo psicogeno derivanti dalle condizioni di vita in carcere, nonché oggettivi rischi di deviazioni sessuali. La stessa permanenza in istituzioni chiuse contro la propria volontà, provoca spesso reazioni psicopatologiche di varia tipologia e gravità clinica, per le quali occorre sempre tentare di individuare fino a che punto esse siano determinate dalla fragilità psichica dell’individuo e quanto invece siano realmente riconducibili al prolungato stato di detenzione in carcere. La tematica delle reazioni alla carcerazione risulta piuttosto complessa, dal momento che assai varie ed articolate sono le modalità espressive di risposta in relazione alle variabili legate alla struttura di personalità, al ceto sociale, alla matrice sociale dell’accadimento, alle condizioni ambientali per giungere alle modalità di reazione e adattamento personale ai compagni di cella. Se ben maggiori sono le capacità di adattamento di chi abbia già subito precedenti carcerazioni o che trovi in carcere volti noti come detenuti correi o comunque già conosciuti, più difficile e traumatizzante sarà il processo adattativo per soggetti che entrano per la prima volta in una struttura le cui caratteristiche risiedono nella rigidità organizzativa e nella limitazione della libertà. Anche per i primi possono nascondersi comunque delle difficoltà, nascenti dalla necessità di mostrarsi esternamente a proprio agio per non deludere le aspettative del gruppo di appartenenza; nel contesto carcerario il giudizio di incapacità a sopportare le condizioni di carcerazione costituisce una stigma "infamante" in gergo carcerario, assai riprovevole, certamente più del motivo della stessa detenzione. L’impatto con la struttura carceraria costituisce per tutti i soggetti alla prima detenzione un momento particolarmente traumatico e drammatico. Anche l’apparato burocratico - organizzativo degli istituti penitenziari, con le proprie esigenze amministrative e di sicurezza, contribuisce a definire quel percorso "di spersonalizzazione, di demolizione della propria immagine, di annichilimento dell’auto-stima che sembra essere l’inevitabile tributo da pagare alla permanenza in carcere". In linea teorica il carcere non dovrebbe comportare una negazione dei diritti dell’individuo non compressi dalla sanzione penale, ma nell’ambito della detenzione la dipendenza assoluta dell’individuo lo rende incapace, di fatto, di fronteggiare personalmente qualsiasi necessità. Da un punto di vista clinico è piuttosto comune che alla iniziale ansia, che si manifesta in vari modi, segua nel volgere di pochi giorni una vera e propria sindrome di prisonizzazione oppure si giunga, soprattutto per quanto riguarda i recidivi, ad un ben riconoscibile adattamento. Infatti nei primi giorni sono presenti frequentemente reazioni quali l’insonnia, l’inappetenza ed in generale notevoli difficoltà nel gestire la propria sfera emotiva; in seguito il soggetto può ritrovare un certo equilibrio facendo ricorso alle proprie risorse adattive, ma non è escluso che alla iniziale fase di "ansia" segua una fase specificatamente depressiva. Di grande rilevanza sono le conseguenze delle vicende giudiziarie che interessano direttamente il recluso: generando reazioni di impronta euforica o disforia a seconda delle risultanze dibattimentali. L’intervento sanitario assume quindi una importanza fondamentale; al trattamento farmacologico, se necessario, dovrebbe sempre accompagnarsi un adeguato sostegno psicologico. Assolutamente determinante per il superamento di questa fase "depressiva " è il mantenimento delle relazioni familiari: visite e lettere offrono al detenuto un sostegno che può consentirgli di non sentirsi abbandonato a se stesso e/o colpevolizzato. Fermo restando che nella realtà penitenziaria si riscontrano sindromi di carattere vario, e spesso difficilmente classificabili nell’ambito di una categoria ben definita. le reazioni alla carcerazione che più frequentemente si riscontrano sono:
Volendo riassumere i quadri morbosi presi in considerazione, accomunati dall’insorgenza in corso della detenzione, possono in realtà essere suddivisi in due gruppi proprio in relazione alla "fase" della detenzione cui appartengono:
Appartengono al primo gruppo le sindromi ganseriane, che spesso si accompagnano a percezioni erronee e immaginazioni deliranti; per quanto riguarda invece l’insorgenza delle forme morbose riconducibili al secondo gruppo, è possibile affermare come essa non sia quasi mai acuta, ma preceduta da prodromi pseudonevrotici, seguiti via via da allucinazioni auditive, esperienze di nocumento, idee deliranti.
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