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Problematiche di salute psichica
Problematiche psichiche
Nei detenuti sono stati riscontrati dei disturbi psicologici durante la detenzione, specie nella fase iniziale. È possibile suddividere i disturbi mentali in due grandi categorie:
La multiformità dei disturbi psicologici e delle malattie psichiatriche e la possibilità di forme di passaggio fra l’una e l’altra rendono difficile una classificazione. In linea generalissima, si può affermare che tali disturbi possono essere ricondotti alle seguenti categorie:
Psicosi carcerarie
Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti. Esse possono essere la continuazione o l’esacerbazione e di disturbi psichici preesistenti, oppure la strutturazione di una risposta di tipo psicotico ad eventi particolarmente traumatizzanti dal punto di vista psicologico, quali l’entrata in carcere, l’attesa di giudizio, la previsione di condanna, la sentenza stessa. Consideriamo la "sindrome da ingresso in carcere", come una serie di disturbi non solo psichici, ma spesso psicosomatici, che compare tanto più frequentemente e pesantemente quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Il trauma da ingresso in carcere può diventare tanto più forte quanto maggiore è il divario fra il tenore di vita condotto in libertà e quello carcerario. La risposta del soggetto si modula in base alla sua struttura di personalità e alle abilità/capacità di adattamento in possesso, nonché all’ambiente-cella e ai compagni. La capacità di adattamento sarà superiore in un soggetto con esperienza di precedenti carcerazioni, o che riesca a trovare nel carcere punti di riferimento (detenuti che appartengono alla stessa banda criminale, alla malavita della stessa zona o più semplicemente a piccola delinquenza dello stesso paese o quartiere). È certo comunque che per molti soggetti alla prima detenzione, anche se per ciascuno in modo diverso, l’impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei momenti più drammatici dell’esistenza. Vari tentativi di umanizzazione dell’impatto con il carcere e allo stesso tempo di prevenzione dei comportamenti a rischio sono stati fatti. Il più importante è sicuramente la predisposizione, attraverso la Circolare Amato del 30/12/1987 n. 3233/5683, del Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un colloquio con ogni singolo detenuto all’atto di ingresso in istituto; tale colloquio è volto a valutare la personalità del soggetto soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi. Inoltre sono state riscontrate alcune forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal legame esistente fra la loro insorgenza e lo stato di detenzione, ed è a queste particolari patologie che gli studiosi si riferiscono quando parlano di psicosi carcerarie, cioè vere e proprie forme psicopatologiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui in detenzione e che non si osservano in altri ambienti. In tale senso Calzolari definisce le psicosi come "quell’insieme di malattie che pongono l’individuo in una situazione, temporanea o permanente, di perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato della realtà in cui vive e di mantenere tra se e quella realtà un rapporto di sintonia sufficiente a salvaguardare un comportamento autonomo e responsabile. In base ai fattori eziopatogenetici possiamo suddividerle in due gruppi; le psicosi organiche (metaboliche, disendocrine, infettive, vascolari, degenerative, neoplastiche, post-traumatiche, genetiche) e le psicosi endogene (o funzionali), includenti le schizofrenie e i disturbi dell’umore". L’ambiente delle istituzioni carcerarie può favorire la "soluzione", in chiave di malattia psichiatrica, a volte, ad una condizione di vita particolarmente difficile, nella fattispecie a quella del detenuto: si sottolinea la deprivazione sensoriale, la mancanza di affetti, di rapporti sociali, che caratterizzano l’isolamento carcerario. La situazione di "punizione" si alimenta con il vissuto depressivo, che permea i rapporti personali, le vicende giudiziarie, le prospettive di condanna e la stessa struttura penitenziaria, sviluppando processi di autocolpevolizzazione che, a loro volta, sostengono quelle forme psicopatologiche che si ricollegano con i sentimenti di colpa (ad esempio nevrosi o psicosi depressive). La carcerazione, proprio per il suo essere un evento improvviso e destabilizzante, può favorire lo sviluppo del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già fragile, che non riesce più a mantenere più il suo già traballante equilibrio; può dare il via a forme di schizofrenia che si sviluppano in tutta la loro sintomatologia dopo l’arresto, oppure in forme border line che diventano chiaramente psicotiche. Concludendo si vuole ricordare che tutte queste problematiche vengono curate ed assistite all’interno del carcere dal personale medico, in particolare dallo psichiatra dell’istituto, in quanto non è prevista una misura alternativa, che non sia quella del ricovero in O.P.G.. Dal punto di vita umano queste sono situazioni drammatiche in quanto creano angoscia e disperazione nei soggetti detenuti e producono effetti dannosi sulla psiche di un individuo, ma non sono cosi "gravi" da concedere l’incompatibilità con il carcere.
Sindrome di Ganser
Continuando nell’analisi dei disturbi psichici, una peculiare forma reattiva alla carcerazione è la sindrome di Ganser (pseudo demenza psicogena o stato crepuscolare isterico). È un raro disturbo mentale che pur non presentandosi esclusivamente in carcere, si osserva generalmente in soggetti detenuti in attesa di giudizio. Consiste in una reazione isterica basata su di una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità. sforzandosi di apparire infermo di mente. Uno tra i sintomi psicopatologici più caratteristici è il fatto che i soggetti non sono capaci di rispondere alle domande più semplici che vengono loro rivolte. sebbene dalle risposte è evidente che hanno capito il significato della domanda e nelle loro risposte tradiscono una sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno posseduto e che ancora, senza ombra di dubbio, possiedono. Gli individui praticamente parlano fuori tema, a vanvera, trascurano la risposta corretta e ne danno un’altra simile, ma inesatta. Calcolano di traverso nell’esecuzione di calcoli semplici, mentre magari sono capaci di svolgere correttamente quelli più complessi e difficili. La sindrome di Ganser è caratterizzata da un comportamento bizzarro, da allucinazioni visive ed uditive, da deliri, da disorientamenti, da amnesia, da convulsioni isteriche, da marcata variabilità dell’umore. Il detenuto può fare cose strane durante la visita: si può spogliare ed indossare gli abiti al rovescio, chiedere un biglietto per il treno eccl2. Sul piano espressivo, non c’è dubbio che tale condizione si presenti con un quadro di una certa gravità, ovvero apparentemente si qualifichi per la ricorrenza di sensibili alterazioni delle funzioni psichiche (dell’orientamento, della memoria, dell’attenzione). "Ma si tratta di sintomatologia "pseudo demenziale", a metà strada cioè fra la simulazione e la reazione inconscia e con pressoché costante componente isterica a sostegno; può apparire psicotica ma la somiglianza è solo superficiale, a meno che naturalmente il quadro clinico non sia spia di una reale forma psicotica". La sintomatologia è contraddistinta dal puerilismo che si nota dall’aspetto recitativo o "bamboleggiante" che questi soggetti assumono. Si tratta di reazioni relativamente rare, che compaiono per lo più in soggetti dotati di modesta intelligenza o con personalità premorbosa di tipo isterico, che reagiscono a condizioni ambientali stressanti, o comunque vissute con senso di pericolo o incapacità, con il ricorso a comportamenti apparentemente "folli", ovvero che egli ritiene possano essere interpretati come tali, in maniera in parte conscia ed in parte inconscia. La sindrome ganseriana impone una diagnosi differenziale con la simulazione in quanto restano dubbi circa il fatto che sia una simulazione cosciente o incosciente. È considerata di difficile trattamento intramurario in quanto, per definizione, si risolve nella rimozione della causa che l’ha prodotta. Se la somiglianza con quadri più gravi (demenza o comunque deterioramento su base organica da un lato e psicosi dall’altro) è solo superficiale, "se manca quell’uniformità sintomatologica che riflette la globale, reale compromissione dello psichismo e che si traduce in più gravi alterazioni del comportamento che tipicamente compaiono nelle condizioni alle quali il Ganseriano tenta di assomigliare, il giudizio non potrà che essere negativo". In altri termini, la sola ricorrenza dei sintomi più esteriori della Sindrome di Ganser, ovvero un parziale disorientamento unito ad apparente perdita del patrimonio conoscitivo, non costituisce condizione sufficiente ad integrare quei requisiti di particolare gravità richiesti dal IV comma dell’articolo 275 codice di procedura penale. I sintomi possono sparire d’improvviso quando il tribunale giunge ad un verdetto, anche se questo è sfavorevole. Da sottolineare che la sindrome si presenta sempre dopo che il reato è stato commesso, quindi la sua presenza non ha alcun effetto sul giudizio medico - legale circa la responsabilità del soggetto e la sua imputabilità riferita al momento del fatto.
Sindrome da "prisonizzazione"
Una molteplicità di vissuti soggettivi sono alla base di quella che viene indicata, sul piano nosografico, come sindrome da prisonizzazione, sindrome che si articola in una vasta gamma di quadri psicopatologici che vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva sino alla sindrome ganseriana. Per Clemmer con il termine "prisonizzazione" si intende l’effetto globale dell’esperienza carceraria sull’individuo. Indica l’assuefazione allo stile di vita, ai modi, ai costumi e alla cultura generale. Quasi un percorso di adattamento progressivo alla comunità carceraria culminante nell’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con i suoi usi e costumi, con le sue singolari abitudini, con la sua cultura, con il suo codice d’onore, con i suoi esempi da imitare. Le esigenze di ordine, di controllo e di sicurezza inducono l’istituzione penitenziaria a ricercare ed alimentare l’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti, attraverso l’imposizione di "valori" comuni. Questi "valori" altro non sono che i prodotti delle finalità e delle funzioni carcerarie, indotti in vari modi, esplicitamente o implicitamente, tramite un lento e spesso inconsapevole processo di assimilazione. I detenuti "acquistano familiarità con i dogmi e i costumi esistenti nella comunità. Sebbene questi cambiamenti non avvengano in tutti gli individui, tutti sono comunque soggetti a certe influenze che possiamo chiamare i fattori universali della prisonizzazione. L’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di dati relativi all’organizzazione della prigione, lo sviluppo di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l’adozione del linguaggio locale, il riconoscimento che niente è dovuto all’ambiente per la soddisfazione dei bisogni, e l’eventuale desiderio di un buon lavoro sono aspetti della prisonizzazione che possono essere riscontrati in tutti i detenuti. Questi, comunque, non sono gli aspetti che ci preoccupano di più. Le fasi della prisonizzazione che ci preoccupano di più sono le influenze che fomentano o rendono più profonda la criminalità e l’antisocialità e che fanno del detenuto un esponente caratteristico dell’ideologia criminale nella comunità carceraria". Attraverso la prisonizzazione l’istituzione penitenziaria tende ad eliminare le differenze individuali nei ristretti, assimilandoli e fagocitandoli". I bisogni, i desideri e le esigenze personali del detenuto sono, cosi, annullati e sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità dell’istituzione. D’altro canto però Clemmer afferma anche che ogni individuo sente l’influenza dei cosiddetti fattori universali, ma non ogni individuo diventa prisonizzato per altri aspetti della cultura. Se una prisonizzazione avviene o meno - continua Clemmer - dipende in primo luogo dall’individuo stesso, vale adire dalla sua sensibilità dalla cultura che a sua volta dipende soprattutto dal tipo di relazioni che aveva avuto prima dell’incarcerazione, vale adire dalla sua personalità. Sul piano clinico Catanesi sostiene che la comune reazione d’ansia iniziale, a volte con spunti fobici e diverse manifestazioni somatiche, nel tempo di 2-3 giorni, viene sostituita dalla sindrome da prisonizzazione vera e propria oppure il soggetto, per lo più nei casi di recidivi, comincia a muoversi lungo le direttive di un progressivo adattamento. In realtà il soggetto detenuto vive sensazioni angosciose ed opprimenti, può presentare tratti fobici, che possono trasformarsi in paura per la propria incolumità fisica. Solitamente questa fase, definita di "iperestesia" agli stimoli ambientali, si esaurisce in 2-3 settimane. Si nota come all’ansia siano correlati sintomi quali insonnia, inappetenza e un’incapacità di gestire la propria emotività. Queste sono le manifestazioni più dolorose sulle quali è necessario intervenire non solo farmacologicamente, ma soprattutto psicologicamente, poiché in questo momento il soggetto, sentendosi perso, può andare incontro ad improvvisi gesti autolesivi. Il disturbo si trasforma poi in depressione caratterizzata dal ritiro in se stessi, la paura è sostituita dallo sconforto, sono presenti idee di rovina. L’evoluzione e la capacità di far fronte a questa forma depressiva dipendono dalla personalità, dalle risorse individuali, dal rapporto con i compagni di cella e dal sostegno della famiglia che il detenuto è in grado di avere. Un ruolo predisponente rivestono anche l’età, il recidivismo criminale, il condizionamento regionale. Si può, in accordo con Fratelli, applicare la teoria di Goffman, relativa alle "istituzioni totali" (usata dall’autore in riferimento agli ospedali psichiatrici e la loro interazione con i degenti dell’istituzione stessa), anche ai detenuti, in quanto i reclusi sono sottoposti ad un processo di "spoliazione del sé", separati come sono dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità. Sostiene sempre Goffman che all’interno dell’istituzione si verificano delle vere e proprie "esposizioni contaminanti" dovute alla soppressione della privacy ed all’imposizione di condizioni ambientali sfavorevoli e fonti di malessere. Questo perché:
In questo sistema, in cui tutto è automatizzato, sono pochi i detenuti che reagiscono, che riescono a resistere e a vincere l’ambiente; molti, invece, sono quelli che lo subiscono, In ogni sistema penitenziario vi è purtroppo una duplice contraddizione di fondo duplice: si ha la pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe a vivere nel carcere che di quel mondo è l’antitesi. Successivamente Sommer e Osmond hanno sottolineato tre effetti fondamentali della prisonizzazione:
Gli stessi autori individuano, come fattori fondamentali di stress che ulteriormente alimentano questa sindrome, l’isolamento (carenza di interazione fra interno ed esterno) e la privazione di stimoli. Altre ricerche infine hanno messo in relazione la prisonizzazione con il deterioramento mentale.
Condizioni di incompatibilità e patologie psichiatriche
Come già ribadito nei paragrafi precedenti il disturbo psichico sopravvenuto nel condannato comporta il trasferimento in ospedale psichiatrico giudiziario. Nei detenuti imputati il criterio ostativo alla custodia cautelare in carcere è definito quello delle "condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere". Cominciamo con il riportare le sentenze della Corte Suprema per definire lo "stato di condizioni particolarmente gravi": "...stato patologico idoneo, per la sua serietà ed imponenza, a pregiudicare notevolmente la capacità fisica e psichica", "una compromissione seria e notevole dell’integrità fisica e psichica del soggetto", "di rilevante pregiudizio per la salute". Come si vede non sono che formule vuote e confuse, di fatto non è chiarito quale sia in concreto la condizione di malattia! Ma ancora si legge che la "particolare gravità" "deve essere tale da un punto di vista soggettivo ed oggettivo" e tali non sono considerati "gli stati morbosi di origine psichica, soprattutto se legati all’afflittività della custodia in vinculis". Infatti se la patologia psichiatrica è direttamente riconducibile allo stato detentivo raramente ne viene riconosciuta la "particolare gravità" ameno che non sussistano motivati e gravi rischi per l’incolumità psicofisica del detenuto, quali inappetenza, rifiuto del cibo, sospetti di suicidio. Anche sentenze più recenti non hanno mostrato maggiore attenzione alla malattia psichica, anzi, considerano ostativa alla persistenza della custodia cautelare in carcere "una sindrome neuropsicologica che abbia condotto il detenuto in breve arco di tempo a tre successivi tentativi di suicidio, l’ultimo dei quali compiuto con modalità tali da rendere molto probabile il realizzarsi dell’evento letale". Autori si orientano nel definire il concetto di particolare gravità, di esclusivo carattere psichico, tale quando "debba essere presente un quid pluris identificabile in una sindrome psicopatologica specifica di rilevanza tale da rendere lo stato di privazione di libertà, in qualunque modo attuato, idoneo ad interferire negativamente sulla efficacia del trattamento terapeutico, che si rende indispensabile nella specie, in modo da compromettere l’esito e cosi produrre ulteriore nocumento alla persona dell’interessato con caratteristiche di prevedibile irreversibilità o comunque tali da rendere ancora più grave il già di lui compromesso stato di salute". Ma la normativa prevede. come abbiamo già discusso, il confronto fra il concetto di "gravità" e la possibilità di trattamento intramurario, cioè la "gravità" sembra acquisire una maggiore e sicura "gravità" nel momento in cui non sono possibili i trattamenti interni, non prima ("non consentono le cure necessarie in stato di detenzione"). Chiaramente non si può pensare che in carcere sia possibile una completa guarigione ma almeno di ridurre, se possibile, o non peggiorare il quadro clinico. Questo è un dato di realtà in quanto per molte psicopatologie, ad esempio la sindrome ganseriana, la causa è proprio la condizione carceraria e, cosa molto importante, il carcere, di per se, come abbiamo visto, produce sofferenza psicologica. Se introduciamo il concetto poi di "incompatibilità" notiamo come l’interpretazione del concetto di "gravità" diventi ancora più difficile, in quanto l’incompatibilità dipende dalle possibilità terapeutiche e per la malattia psichiatrica è ovvio che le cure non sono adeguate in quanto solamente la condizione detentiva è fattore necessario e sufficiente ad escludere questa ipotesi. A tale proposito si riporta uno studio effettuato su detenuti portatori di malattia psichica e la relativa valutazione di compatibilità con il regime carcerario. La casistica è visibile nelle tabelle (1,2,3,4) dalle quali si evince che su 50 casi considerati 17 attengono a problemi di natura psichiatrica. I casi sono stati ritenuti incompatibili con lo stato detentivo. Si sottolinea che per la maggior parte riguardano reazioni carcerarie di tipo ansioso-depressivo, con sintomi di anoressia, collegate a patologie di tipo psicosomatico con un decadimento delle condizioni generali dell’individuo.
Infermità e seminfermità mentale
È importante sottolineare che l’infermità mentale assume rilevanza diversa a seconda del momento in cui viene riconosciuta e della posizione giuridica nella quale il soggetto si trova. Per comodità ci riferiremo solo all’ambito clinico penitenziario. Dalla lettura dell’art. 20, Ordinamento Penitenziario "Disposizioni particolari per gli infermi e seminfermi di mente", sembrerebbe emergere una differenza di trattamento tra soggetti affetti da infermità fisica e quelli affetti da infermità psichica, infatti per le patologie psichiche, anche se diagnosticate a seguito di perizie, non è possibile adottare il differimento della pena, anche perché il ricovero del condannato in Ospedale psichiatrico giudiziario comporta la prosecuzione della pena stessa. Quindi non sembra prevista l’incompatibilità per problemi psichici, tanto che l’unica alternativa offerta alla detenzione è il ricovero in O.P.G. Per i detenuti con condanna definitiva l’ordinamento penitenziario prevede che "nel caso di sospetto di malattia psichica sono adottati senza indugio i provvedimenti del caso. col rispetto delle norme concernenti l’assistenza psichiatrica e la sanità mentale". Tale previsione risulta applicata nel caso di infermità psichica sopravvenuta del condannato e tale accertamento è disposto dal magistrato di sorveglianza. Nella pratica: ai condannati a pena superiore a tre anni ai quali sopravvenga infermità psichica è previsto il ricovero in O.P.G. o in casa di cura e custodia. Per i condannati a pena inferiore ai tre anni si ricorre ai servizi dell’assistenza pubblica. Il ricovero è ordinato per un tempo non inferiore ad un anno, se la pena prevista non è inferiore a cinque anni. Se la pena prevista è minimo dieci anni o l’ergastolo la misura ha una durata minima di tre anni. Se esiste la pericolosità sociale del condannato il ricovero ha la durata minima di sei mesi. il giudice può sostituire questa misura detentiva con quella della libertà vigilata, solo se il condannato non ha già diminuzioni di pena in quanto affetto da intossicazione cronica di alcool o da sostanze stupefacenti. Per quanto riguarda le cosiddette "misure di sicurezza psichiatriche" la durata minima è prefissata in misura diversa a seconda della pena massima prevista per quel tipo di reato. La legge stabilisce che il giudice possa graduare la pena ma non la misura di sicurezza. che è fissata per il tipo di reato commesso. Le misure di sicurezza sono flessibili in quanto possono essere espiate non solo dopo la reclusione ma anche prima o dopo la pena, interrompendone temporaneamente il decorso. La legge prevede la seminfermità mentale quando all’imputato sia riconosciuta una diminuzione della capacità d’intendere e di volere, cioè la sua capacità di autodeterminazione. Il seminfermo subisce un trattamento particolare. per cui è considerato imputabile. ma la pena è diminuita e si applica la misura di sicurezza. Le misure di sicurezza detentive non sono cumulabili, se ne applica sempre una sola. Se le misure sono di tipo diverso, se vi è, si applica quella psichiatrica. Se un soggetto sta scontando una misura di sicurezza di tipo non psichiatrico, e viene colpito da malattia mentale, sarà internato in O.P.G. per trasformazione della misura, dove rimarrà finche non sarà giudicato guarito. Tutto ciò sembra confermare l’attenzione alla salute mentale del condannato, ma fa notare come le misure alternative con finalità di cura sono subordinate alla durata della pena, per cui, a parità di disturbo mentale, il condannato può fruire o no di cure adeguate. Ciò a causa di un conflitto che viene a crearsi fra il diritto dell’individuo alle cure e il dovere del sistema penale di subordinare quel diritto al grado di minaccia sociale desumibile dalla gravità del reato, la cui misura è indicata dalla sentenza. La malattia psichica, dunque, non esprimendo una situazione di incompatibilità, comporta un trattamento diversificato nella misura in cui non sono offerte alternative al ricovero in O.P.G. o in casa di cura e di custodia (ex art. 219 codice penale). La legge 180/78, sopprimendo gli ospedali psichiatrici civili, rende difficile, peraltro, una interazione con le strutture esterne al di fuori dei casi di urgenza. Sottolineiamo che il trattamento degli infermi psichici è discriminato anche nei confronti dei soggetti di pari categoria che non delinquono, avendo essi diritto, a seguito della 180/78, ad un trattamento terapeutico non di tipo custodialistico e segregante come quello che caratterizza la malattia mentale in carcere. Una proposta di cambiamento è presente nel "progetto Grossi", disegno di legge n. 177 del 1983. I firmatari del progetto si propongono di abolire la legislazione speciale per i malati psichici, vorrebbero abolire la nozione stessa di incapacità di intendere e volere, dichiarando quindi il soggetto imputabile, equiparandolo ai soggetti che commettono reati in stato di ubriachezza, di stupefazione, o in stato emotivo o passionale, abolire quindi l’internamento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, sostituendolo con il carcere. Abolire inoltre la distinzione fra imputabili e non imputabili, considerando tutti gli autori di reato responsabili delle loro azioni, ma inserire, nel settore dell’esecuzione, trattamenti differenziati all’interno delle stesse strutture penitenziarie. In ultima analisi si propone di abolire la pericolosità del malato di mente autore di reati e delle misure di sicurezza collegate allo stato di malattia.
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