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Premessa
Sembra paradossale argomentare del diritto alla salute poiché dovrebbe essere ovvio che è un diritto naturale dell’uomo, in altre parole un diritto dell’essere umano in quanto tale, ma la condizione particolare dello stato di detenzione è tale che il detenuto si trasforma, a volte, in un uomo "diverso" con "diversi diritti", talvolta contrastanti il principio universale secondo il quale l’uomo ha diritti propri perché essere umano, Gadamer scrive "Sappiamo approssimativamente in cosa consistono le malattie […] La salute, invece, si sottrae curiosamente a tutto ciò, non può essere esaminata, in quanto la sua essenza consiste proprio nel celarsi. A differenza della malattia, la salute non è mai causa di preoccupazione, anzi, non si è quasi mai consapevoli di essere sani […] implica la sorprendente possibilità di essere dimentichi di se [...] Consideriamo quindi la salute come un’armonia, come la giusta misura, cosi come la vedevano anche i Greci". Anche Reale definisce la salute come "la giusta proporzione, quell’armonia naturale, quell’intrinseco accordo dell’organismo con se stesso e con ciò che gli sta al di fuori". Dicevano gli antichi che quando un uomo diventa prigioniero Zeus gli toglie metà dell’anima! Ovvero per tenere qualcuno sottomesso è indispensabile annullare la sua indipendenza interiore. Il problema è quindi questo: cosa dobbiamo togliere ai detenuti per raggiungere, curiosamente, quel famoso stato di benessere chiamato salute? E se togliamo qualcosa come si fa poi a realizzare un equilibrio psico-fisico? Con quale parte dell’uomo "rimasto"? E chi è il soggetto che ho di fronte ora? Posso ancora parlare di "salute" oppure devo semplicemente di "manutenzione di uno stato di sanità meccanico"? Ma se consideriamo lo stato di salute come un equilibrio soggettivo dobbiamo assolutamente fare i conti sia con il soggetto sia con l’ambiente nel quale si esplicita questo modo di essere e con l’attore da noi considerato che vive in carcere. Il termine "ambiente" non è più un termine adeguato se vogliamo collegarlo al concetto di salute come descritto. Dovremmo, con Pisapia, parlare più correttamente di "contesto" intendendo "non solo l’ambiente fisico nel quale si sviluppano azioni ed interazioni, ma lo scenario che i soggetti contribuiscono a costruire nel momento in cui sono impegnati in processi interattivi. [...] il contesto si crea quando interessa cogliere la connessione, e quindi la compatibilità, con altre azioni che si svolgono nello stesso ambiente". Il contesto regolato re nel nostro caso è quindi quello dell’istituzione "totale", con l’esigenza di sicurezza e con la necessità che il detenuto sconti la pena all’interno dell’istituzione-carcere stessa. Ecco che l’equilibrio fra le parti, la giusta misura, l’apporto di tutte le persone che vi lavorano crea la premessa indispensabile per l’esercizio del diritto alla salute. Argomentare di salute è quindi cimentarsi per costruire un equilibrio dialettico fra il soggetto e l’ambiente, cioè fra le varie istanze istituzionali, è creare un dialogo circolare, non è solamente la cura del momento e del bisogno. In concreto parlare di salute è considerare il soggetto come "persona" inserita in un "contesto" nel quale deve avere la possibilità di esplicare il suo diritto. In carcere si assiste, inoltre, al "paradosso della custodia e della cura". Da tempo sappiamo che il carcere rappresenta la zona più buia dell’apparato di giustizia, "il luogo dove il potere di punire, che non osa più esercitarsi a viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui il castigo può funzionare in piena luce come terapeutica", De Risio, affrontando il problema della doppia pericolosità del detenuto-malato, utilizza la metafora della separazione, che "mette in risalto la modificazione dei rapporti tra individui in presenza di uno stato patologico, Il carcere è il luogo della separazione, è una scatola di pietra destinata a rendere visibile il confine fra il giusto e il deviante, […] È qui che trovano alloggio coatto l’ombra junghiana e il Dr. Jekyll e Mr. Hide, innocenti prodotti di nuove separazioni della mente e del corpo. Tali categorizzazioni sono presenti nell’individuo singolo, [...] e concorrono alla definizione della rappresentazione sociale della malattia stessa e del malato". "È il dolore del se relazionale che con la reclusione viene amputato e sottoposto a torsione [...] il recluso, attraverso i suoi sintomi dice: "Sono un essere umano, una presenza umana, e come tale vorrei essere considerato!" [...] E, a ben vedere, quella stessa catena di sintomi è la modalità curativa che il recluso, al momento intravede: il suo modo di esternare la sofferenza, di comunicarla. Una cura estenuante, come una danza senza fine che il farmaco aumenta anziché lenire. Mai, come in questo caso, è più vero il paradosso secondo cui: la malattia è la cura". E quindi un dilemma curioso sorge: è mai possibile che un carcerato venga custodito in modo tale che la sua salute psicofisica ne sia favorita? Abbiamo visto come l’affermazione del diritto alla salute in carcere passa attraverso uno snodo costituito dalla triade: cura - pena - diritti. Parlare di diritti del recluso significa sostenere che la dignità è un bene che l’umanità conserva in qualunque condizione esistenziale e, come tale, non è sacrificabile da prevalenti esigenze di sicurezza. Si potrebbe riflettere che "Quando a corpi cosi mal costituiti si aggiungono cattivi governi delle Città, e in queste Città si fanno cattivi discorsi e in privato e in pubblico, e inoltre dai giovani non vengono apprese in alcun modo dottrine che portino rimedio a questi mali, allora, in questo modo, tutti noi che siamo cattivi, diventiamo cattivi per due cause del tutto involontarie".
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