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La salute in carcere
Corpo del detenuto e stato di detenzione
Nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione Levi Strauss divide le società in due tipologie: quelle che ingeriscono il corpo del deviante e quelle che lo espellono. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né antropoemia, ma solo ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Con Gallo e Ruggero si concorda che il carcere produce sofferenza e malattie, è una fabbrica di handicap psicofisici. Il potere penale si esercita sul corpo e sulla sua immagine sociale ma Gallini ricordava che questa questione dopo "Sorvegliare e punire" è stata poco tematizzata, se non solamente da alcune voci provenienti dal carcere. Eppure, ancor oggi come non mai, diventa ineludibile un discorso sul rapporto fra corpo e potere, o meglio fra persona, intesa in tutta la sua unità, nella sua identità di individuo sociale, che nessun sistema penale dovrebbe sopprimere, e il potere. Nell’attuale realtà penale, il corpo reale e l’immagine del corpo vissuta soggettivamente che fine hanno fatto? Dopo l’atto pubblico del processo, con l’internamento, il corpo del soggetto perde visibilità, diventa un uomo astratto. Il corpo inquisito è trasformato dai mass-media nei grossi casi giudiziari, e l’immagine di devianza-simbolo, non vissuta e riconosciuta dal proprietario reale come immagine di sé, diventa una comunicazione sociale. In tale senso viene cosi proposto un controllo esterno sul corpo del soggetto. Per tutti, anche per i piccoli mostri che non meritano la copertina dei giornali, si ha comunque una perdita d’identità intesa come perdita del proprio corpo e della propria memoria, tanto da arrivare ad una vera e propria scomparsa sociale dell’individuo reale. In questo modo si crea e mantiene la perdita di una possibilità di una vita di relazione. La società ed il potere negli ultimi anni si sono trasformati, si sono costruite nuove forme di controllo e di condiziona mento del corpo, si è passati da un "uomo astratto", di foucaultiana memoria, ad un "uomo-immagine", prodotto dai media, dall’interpretazione degli attori carcerari, e da quanti gravitano intorno a lui3. Ci viene rimandato un uomo-simbolo di tutte le aspettative sociali, nella sua immagine più pubblica. Un uomo vuoto al quale, in questo modo, attraverso i potenti mezzi di comunicazione, paradossalmente è stata tolta la possibilità di comunicare veramente, o meglio ci viene restituito, più che un simbolo, un simulacro. È il dramma della massima solitudine per l’uomo in quanto il presente non gli appartiene più e, cosi spogliato della propria identità, non potrà costruirsi alcun futuro. Come abbiamo finora accennato esiste un’espropriazione dell’identità del soggetto, un furto della sua immagine e della sua progettualità. Ma al corpo fisico del detenuto cosa succede? Per Pavarini la pena della prigione è una pena corporale, qualche cosa che dà dolore fisico e che produce malattia e morte: è sofferenza qualitativamente opposta a quella intenzionalmente corporale, metafisicamente voluta per far soffrire l’anima ed emendarla, e non certo il corpo. Concetto che trova concretezza quando si nota che il "vecchio" Panopticon è soppiantato dal carcere "piranesianos": si passa dalla tortura dello spazio alla tortura del tempo e della comunicazione, in una sorta di "carcere d’invenzione". In Bentham, con il Panopticon, la costruzione ortopedica dello spazio crea una interiorizzazione del potere e della norma, tanto da trasformare l’autodisciplina in autogestione della norma. In Bentham e Foucault esiste una netta separazione tra interno ed esterno, tra controllo e controllato, tra norma oggettivata e norma soggettivizzata. Il carcere immateriale produce invece un controllo interiore: trasforma mura e serrature in metafore materiali di regole ben più impalpabili e indefettibili, Perché come mi disse un ex-detenuto "il carcere è dentro di te, nella tua testa..., sarai sempre un detenuto dentro di te...e ti riconoscerai sempre attraverso di esso". Il carcere piranesiano diventa quindi il simbolo di un inferno mentale, di un "carcere metafisico", un Pannomion, una norma totalizzante, pervasiva ed interiorizzata. Il prigioniero è dunque prigioniero di se stesso, del proprio labirinto mentale, che può essere accettato solo interiorizzando le norme astratte che lo regolano. Lo spazio della reclusione non è più reclusione, è una dilatazione insopportabile, una moltiplicazione angosciosa di piani, un susseguirsi labirintico di sfasamenti e forature della prospettiva circolare, infinita, è uno "spazio vuoto". In questo irrazionale architettonico si sente "Una solitudine infinita, sconfinata, senza traccia di vita: solo pochi, piccoli uomini che sembrano soffrire per nulla, annientarsi nel nulla. [...] vi è solo l’esaltazione della materia, della pietra. Vi è si l’uomo, dal volto privo di emozione, anonimo, indifferente, quasi un ultimo simbolo di vita. Pare a volte esso salga interminabili scale, verso un’ipotetica libertà". È l’occhio della mente che non intravede alcuna via d’uscita, di libertà, nei concentrici sviluppi dello spazio illimitato della reclusione temporale. La pena si proietta in un tempo sofferente senza fine. Il carcere immateriale è restrizione illimitata e interiorizzazione di un infinito senza tempo. Precisiamo che Piranesi rappresentava nello spazio infinito la sfida ultima dell’architettura: il contenimento della forma in uno spazio immateriale, i cui limiti sono giocati solo da punti di luce, Nel carcere attuale noi assistiamo invece alla sfida del corpo dilatato a dismisura, fuori dell’umano sentire, un corpo in uno spazio infinito che, proprio per questa sua non-misurabilità, più non lo contiene, Il corpo perde l’identità, ovvero la forma, cioè la possibilità di esistere data dalla relazione con lo spazio e il tempo. Nella estensione al1’infinito di queste dimensioni si perdono le possibilità di fissare un punto di osservazione per guardare, in una visione prospetticamente progettuale, se stessi, È la perdita di vista delle "misure" che fanno si che una vita relazionale sia possibile, che esista un futuro possibile. Per travalicare l’orrore dello spazio senza fondo e senza uscite si devono creare dei riferimenti limitativi, interiorizzarli, per superare la sensazione intollerabile della "restrizione senza restrizione" occorre immaginare nuove barriere, limiti, regole, codici altri di referenza spazio-temporale. Gallo ritiene che è indispensabile che l’ordine, la norma, la legge si tramutino in scansione dei giorni, in vincoli interiori inscritti in una rigorosa autodisciplina, capace di configurare l’autogestione della pena. Il suo tempo. Al detenuto è chiesto di farsi regola esso stesso, regola di se stesso, contro se stesso. E i detenuti si sentono mutilati, sia nel senso che sono costretti all’immobilità sia nel subire la lentezza burocratica, una paralisi che limita l’azione personale. Vivono in una condizione fisica artificiale, dove le relazioni spaziali e temporali sono costrette. Dove l’interazione fra corpo e mente subisce modificazioni negative. Il soggetto ne è consapevole e odia questa sua dipendenza, questa umiliante regressione, ma, per sopravvivere, deve usare proprio quei servizi che sono parte integrante della sua reclusione, della sua menomazione fisica. Per reagire alcuni sottraggono il corpo, ad es. usando lo strumento dello sciopero della fame, altri sottraggono la mente, creando una "normalità nell’anormalità". E dentro le mura del carcere la persona si rivela capace di resistenze che si traducono in nuove forme di bisogno di tenerezza, di innamoramento e di ironia, di cura di se stessi, del proprio aspetto, di forme alternative di comunicazione, e anche, purtroppo, di cadute nella malattia. La resistenza è la consapevolezza dei propri diritti e la volontà di esprimersi pubblicamente, è il desiderio di comunicare agli altri il proprio disagio, il proprio dolore, di rendere pubblico il diritto a esserci. È un corpo "rituale", una metafora quello del detenuto, un corpo da trasfigurare, simbolo potente di una differenza. "I corpi dei detenuti sono più belli di quelli dei loro guardiani, corpi come sfide, come cura del se, come riappropriazione; per il prigioniero il corpo reale è un territorio di resistenza: si apre l’abisso della fisicità e inizia la costruzione metaforica del proprio corpo. Ma ancora, il carcere alimenta l’ennesimo paradosso tanto che le reazioni di molti detenuti si muovono lungo le direttrici imposte dal sistema della sofferenza legale: da una parte un’implosione nervosa (esaurimento, insonnia, nevrastenia, ipersensibilità, autolesionismo), dall’altra un’esplosione (aggressività, ribellione, contrapposizione, e raramente, idealizzazione del proprio ruolo di deviante).
Il bisogno di salute in carcere
Ricerca del Ministero della Giustizia francese, affinché "fosse realizzata una analisi approfondita delle relazioni esistenti, in termini di causa ed effetto, fra le condizioni di vita in carcere e il manifestarsi o l’aggravarsi delle patologie più frequenti, riscontrate nel contesto penitenziario", Il lavoro è stato condotto somministrando ai detenuti un questionario per registrare le impressioni del loro stato presente riguardanti: modificazioni della sensibilità, della percezione di se stessi e del mondo, problemi e malesseri relativi ad una intimità turbata. I risultati sono poi stati messi a confronto con un gruppo sociologicamente affine ai reclusi ma in stato di libertà. I sintomi riscontrati nella popolazione dei detenuti sono:
Nello stato di detenzione tre patologie sono sovra-rappresentate: la dentaria, la dermatologica, la digestiva. Al momento dell’ingresso la patologia digestiva segue immediatamente quella dermatologica, a pari grado con la otorinolaringologica e polmonare; dopo sei mesi le affezioni della pelle diminuiscono di numero, le turbe dell’apparato digerente si associano a disturbi delle vie respiratorie (28%) ponendosi al secondo posto dopo le patologie dentarie. In Italia, secondo dati ufficiali, (riferiti al periodo 1 gennaio 1999 - 20 settembre 1999) le persone detenute erano circa 50.000, contro la disponibilità di 35.000 posti letto. Del totale 13.000 sono extracomunitari, 15.000 tossicodipendenti, 2.500 sieropositivi per HIV, oltre 4.000 i sofferenti di turbe psichiche anche molto gravi. Le patologie infettive, psichiatriche e gastroenterologiche sono quelle maggiormente diffuse. Da sottolineare che le patologie dell’apparato cardiovascolare colpiscono soggetti di età relativamente più bassa rispetto alla società esterna (40-50 anni). Frequenti sono anche le malattie osteoarticolari e le bronco-pneumopatie croniche ostruttive (la maggioranza dei detenuti consuma in media dalle 20 alle 40 sigarette al giorno). Di difficile gestione sono pure le malattie del ricambio e metaboliche, come il diabete mellito di tipo I e II che comportano l’osservazione di un determinato regime di vita (dieta, movimento, autogestione dei farmaci). Predominano, fra le patologie infettive, le epatiti virali non A e l’infezione da HIV, in diversi stadi. Altre malattie sono la scabbia, la dermatofitosi, la pediculosi, l’epatite A e la tubercolosi. Le sintomatologie associate di frequenza ad eziologia infettiva sono febbre e diarrea. L’AMAPI stima in circa 8500 i detenuti affetti da epatite. Sono da considerare preoccupanti pure i dati inerenti la tubercolosi, infatti nel 1998 sono stati segnalati 250 casi. Di contro la somministrazione dei farmaci di routine avviene entro poche ore o al massimo un giorno dopo la richiesta. Secondo un’indagine di Antigone gli psicofarmaci sono la categoria maggiormente somministrata, seguiti da antidolorifici, antinfiammatori, anti-ipertensivi e antibiotici. Questa graduatoria rimane quasi simile in tutti gli istituti visionati, ciò che differisce è la quantità: la somministrazione di psicofarmaci, anti-infiammatori e antidolorifici varia da percentuali del 70 -80% fino al 20 - 30% sul totale dei medicinali distribuiti. Con Antigone si riflette che "È difficile comprendere quanto l’uso massiccio di psicofarmaci, sia la risposta ad un disagio psichico diffuso nel carcere oppure sia una strategia di controllo e un modo per mantenere l’ordine interno, soprattutto nelle sezioni di tossicodipendenti".
Patologie della reclusione
Nel doversi rapportare ad una "istituzione totale", per usare la nota definizione di Goffman, il soggetto deve abbandonare il suo modo di essere, le sue cose, il suo modo di pensare e di fare, cioè il modo di rappresentarsi a se stesso e agli altri, Dovrà ridefinirsi, non solo rispetto se stesso ma anche verso i nuovi compagni. La cornice normativa della rappresentazione è data dalle regole dell’istituto e dal sistema simbolico vigente. Il detenuto è spogliato del suo passato, gli è dato un presente obbligato, il futuro è la sua rieducazione o viceversa? Avviene quindi questa spoliazione del soggetto all’ingresso in carcere, cioè sono recisi i contatti con il ruolo sociale che deteneva "prima"; viene privato degli effetti personali, cioè gli sono presi gli oggetti che lo potrebbero identificare (la perquisizione è una prassi normale di controllo e di disidentificazione); di uno spazio personale; della capacità di decidere autonomamente, in quanto altri decidono per lui; e impara a fare la "domandina", intesa nel suo "alto valore pedagogico e trattamentale"!. Si realizza in questo modo la totale dipendenza del soggetto - oggetto nei confronti dell’istituzione. Questa dipendenza psicologica e fisica si ripercuote nell’equilibrio della persona creando scompensi anche di grave entità. Riportiamo i dati di una ricerca condotta sulle patologie immediatamente visibili raccolte durante interviste con detenuti in unità speciali. Le patologie più frequentemente riscontrate sono:
Si ritiene però che il carcere ordinario produca gli stessi segni di sofferenza, anzi sembra quasi che il regime ordinario aumenti i livelli di stress dei detenuti in quanto richiede loro un incessante autocontrollo, "basandosi sull’autogestione della pena e sull’osservazione del comportamento, non che sulla verifica continua del processo rieducativo [...] I detenuti possono sopravvivere soltanto riducendo la distanza tra le proprie aspettative e la realtà della loro esistenza. Lo stress è insomma provocato. in larga misura, dall’indeterminatezza del regime, dalla frustrazione, dal gioco al ribasso delle proprie aspettative, che il regime impone incessantemente. Si possono aggiungere come effetti della detenzione anche:
Da sottolineare che in Italia è stata condotta una sola indagine ad opera dell’Ufficio studi e ricerche del DAP, i risultati non sembrano ne invalidare ne confortare quanto già detto, tanto che si concludeva" Anche se la detenzione raramente riesce a rieducare il condannato, nella tragica realtà dei nostri istituti penitenziari, è inaccettabile sia sul piano dei diritti dell’uomo, che anche su quello meramente utilitaristico dell’interesse della società, che essa possa contribuire a deteriorare alcuni detenuti, colpendo in modo differenziale e discriminante proprio i soggetti meno difesi nella massa".
Area psichiatrica
L’area psichiatrica rappresenta la vera emergenza degli istituti penitenziari italiani, in quanto sono il principale contenitore del dilagante disagio mentale e la cartina tornasole di una marginalità sociale costituita da tossicodipendenti, prostitute, nomadi, vagabondi alcolisti, barboni ed extracomunitari. Il carcere è una comunità chiusa che attraverso la segregazione esprime simbolicamente e fisicamente la funzione di controllo sociale sulle condotte devianti sia di tipo sociale che devianza psicopatologica. Si ritrovano soggetti affetti da parafilie di vario genere come transessuali. travestiti, omosessuali, pedofili che, spesso, non vengono seguiti dai servizi psichiatrici e dall’assistenza sociale territoriale. Il carcere diventa cosi l’ambiente rivelatore del disagio e spesso il primo momento "ufficiale" di incontro di questi soggetti con le istituzioni. Si è quindi trasformato in una struttura preferenziale di raccolta e reclusione delle persone con problemi psicopatologici, una istituzione portatrice di un’ambiguità dialettica, della contraddizione tra assistenza e repressione. Il fenomeno della "porta girevole" (revolving - door syndrome), tipico nei servizi territoriali psichiatrici, si ritrova fra carcere e territorio, "in uno scambio continuo, perverso e inarrestabile di pazienti (trasgressori - colpevoli), per i quali il contenimento diventa spesso, e soltanto, un mezzo di segregazione e di ulteriore emarginazione". Per Giordano però esiste una "psicopatologia da carcere [...] che non può che trovare in carcere, in situazione cioè di forte e costante controllo, di limitazione di libertà e sofferenza, il prodromo talora indispensabile di una cura [...] sta a noi, al nostro controllo medico, psichiatrico, civile, far si che costoro, in carcere, non trovino tanto quella punizione che soddisfa soltanto le pulsioni vendicative della società e degli operatori, bensì una pena che è nostro compito restituire al suo autentico valore medicinale, al suo valore di cura, di cura per la società proprio perché cura il soggetto". Insomma "veri e propri coatti della pena"! Come vediamo esistono ancora pareri sostenenti l’idea che la pena abbia, intrinsecamente, un valore medicinale! Esiste, di fatto, in ambienti psichiatrici, un largo consenso per tali costruzioni ideologiche! I disturbi psicopatologici alla base dei comportamenti considerati abnormi e socialmente pericolosi sono soprattutto disturbi di personalità, presenti in carcere in modo significativo, con manifestazioni di impulsività ed aggressività. Questa condotta, di incontrollabile esplosione emotiva, è acuita dalla carcerazione, rendendo molto problematica la possibilità di instaurare rapporti interpersonali. L’imprevedibilità delle reazioni emotive dei soggetti fa si che possano degenerare con caratteristiche manipolative e distruttive, soprattutto quando l’aggressività è usata per controllare l’ambiente circostante. Questi comportamenti possono legarsi a strutture di personalità asociali o psicopatiche, con caratteristiche di incapacità di comprendere le emozioni che la loro distruttività provoca negli altri e di incuranza delle conseguenze delle loro azioni, La droga e l’alcool posso essere dei fattori aggravanti dei disturbi di personalità mediante l’azione biochimica di disinibizione sui centri nervosi superiori. I pazienti con disturbi di personalità difficilmente trovano un ruolo sociale che sarebbe essenziale per iniziare a costruirsi una propria identità. Essi traggono benefici dai legami sociali e dal sostegno e continuano a perdersi se sballottati fra carcere e territorio senza un punto di riferimento. In carcere esiste la compresenza di molti fattori determinanti uno stato di sofferenza psichica: angoscia, ansia, impotenza, promiscuità, rapporti sociali imposti, espropriazione di ogni riservatezza e di intimità. Si vive sempre una patologia fatta di solitudine, di emarginazione, di sradicamento, di perdita d’identità. Ma anche problematiche legate a pregresse situazioni di disagio familiare e sociale, ove sono venuti meno modelli di identificazione strutturati, quali la famiglia, o dove all’interno di essa hanno subito delle esperienze a carattere traumatico dove la violenza è comune denominatore. Per tali individui il carcere sembra rappresentare la tappa obbligata di un percorso di marginalità destinato a consolidare la propria identità negativa. Nell’articolo del New York Times (5 marzo 1998) dal titolo: Prisons Replace Hospitals for the Nation’s Mentally, vengono riportati dati impressionanti: su due milioni di detenuti nelle carceri americane, in circa il 10% sono stati riconosciuti disturbi psicotici. Per non parlare dei gravi disturbi di personalità. In Italia per quanto riguarda le tipologie di disagio mentale sono stati individuati sei campi che interagiscono e, spesso, si sovrappongono, pur mantenendo la loro autonomia:
Come si rileva, il quadro che risulta dall’analisi e dalla sovrapposizione di tali campi è estremamente complesso e richiederebbe un intervento mirato alle singole esigenze soggettive. Brandi sottolinea che il rischio è grave: la distonia che si genera nei processi psichici (di percezione, di rappresentazione, di ideazione), di per sé grave e interiore, comporta, se rappresentata all’esterno, la possibilità di azioni lesive improvvise. La propensione all’azione autolesionista, anche grave e irreversibile, ha una tale incidenza in ambiente carcerario, da indurre a considerare questo problema come specifico. Per quanto riguarda le cure possibili non è possibile offrire una disamina adeguata della problematica, riportiamo solo però che nel Centro di osservazione neuropsichiatria del centro diagnostico e terapeutico del carcere di S. Vittore la delegazione del CTP, durante la visita, ha riscontrato che "nei due mesi precedenti erano stati usati quattro volte i mezzi di contenzione. Per questo scopo esisteva una cella specifica attrezzata, con un letto dotato di cinghie di cuoio destinate a fissare le caviglie e i polsi del paziente. Lo psichiatra responsabile ha affermato che questi mezzi venivano utilizzati soltanto in casi di urgenza clastica e in associazione con farmaci, e che in queste occasioni veniva istituita una sorveglianza stretta da parte del personale. Il CTP desidera sottolineare che, a suo avviso, il ricorso a questi mezzi di contenzione per controllare un paziente violento e afflitto da turbe mentali è difficile da giustificare, se non in casi molto rari. Un paziente di questo tipo dovrebbe piuttosto beneficiare di un trattamento in cui vengano integrati una stretta sorveglianza e un sostegno appropriato, associati, se necessario, alla somministrazione di calmanti. Naturalmente ogni mezzo di contenzione fisica applicato dovrebbe essere abolito al più presto; a questo proposito, va notato, che in ognuno dei quattro casi appena ricordati la contenzione fisica era stata applicata per tutta la notte. Gli ispettori sollevano poi il caso di un detenuto che stava da ormai due mesi in unità di isolamento. Il suo stato mentale era controverso: diversi soggiorni successivi nella vicina unità di pre - osservazione psichiatrica non erano bastati a permettere ai medici di chiarire il suo caso. Nel dubbio la presa in carico di un tale detenuto dovrebbe essere attuata in ambiente psichiatrico, piuttosto che in un’unità di isolamento" (in corsivo nel testo). Come si rileva anche dalle risposte degli ispettori del CTP sembra del tutto normale che il carcere debba curare e contenere i soggetti - pazienti alla stregua di un buon vecchio ospedale psichiatrico. Sembra non sfiorare il dubbio che la sanitarizzazione della devianza non sia una risposta adeguata al problema! Gli ispettori non si pongono neppure il problema della possibile incompatibilità dello stato di salute del soggetto con le condizioni di cura offerte dal centro clinico. Un’altra importante tematica correlata all’infermità psichica è rappresentata dalle perizie psichiatriche: molti casi giungono al giudizio da "sani" mentre, in realtà, celano patologie che riducono in modo significativo la capacità di intendere e volere. Non è raro, infatti, rilevare una discordanza tra il parere espresso dai periti ed il giudizio emergente dalle valutazioni degli psichiatri penitenziari che seguono solitamente i casi per un periodo apprezzabilmente più lungo e all’interno di una diversa condizione di conoscenza qual è la relazione terapeutica. Il rilievo non è senza valore se si consideri che non raramente la patologia psichiatrica è, se non causa del reato, almeno una importante componente e tale non è evidenziata in fase giudicante perché il soggetto è in attesa di giudizio o perché, incosciente del proprio disagio, viene in contatto con esso proprio nell’ambiente carcerario. Da sottolineare l’importante e contraddittorio, a volte, ruolo vicario della psichiatria rispetto la giustizia: è "guardiana su un versante della pulizia clinica, garante su un altro della filantropia dell’assistenza [...] deve garantire la definizione e dislocazione [...] di quel residuo istituzionale appunto, che è in quanto tale pericoloso". È una posizione pericolosa per la psichiatria ma soprattutto per coloro che devono ricorrere, da ristretti, alle cure degli specialisti. Perché il rischio che si può correre, ancora una volta, consiste nell’individuazione di una forma "morbosa e virulenta", denominata psychopathia criminalis, ovvero "...un’affezione della quale i democratici inveterati soffrono in maniera congenita e dalla quale i pensatori, gli ideologi e gli artisti in genere vengono, di volta in volta, aggrediti".
Area infettivologica - immunologica
Le malattie infettive sono un problema importante in tutte le comunità chiuse, soprattutto nelle comunità penitenziarie in cui si verificano situazioni abitative, alimentari e comportamentali che ne facilitano la diffusione e l’acquisizione. È rilevante segnalare che l’eterogeneità della provenienza della popolazione detenuta costituisce un rischio rilevante per l’importazione e la successiva diffusione di patologie non presenti o non più attuali e comuni nel nostro Paese. L’analisi delle patologie infettive più frequentemente segnalate in carcere indicano che:
Analizziamo in particolare:
Infezione da virus dell’epatite. L’infezione da virus dell’epatite è la forma infettiva più frequente. Colpisce con maggior frequenza i soggetti tossicodipendenti nei quali è spesso associata all’infezione da HIV. I canali di trasmissione possono essere diversi a seconda dell’agente patogeno, ma, in generale, l’epatite virale predilige le vie ematiche sia per via parenterale (inoculazione di sangue e suoi derivati, uso di aghi, siringhe, strumenti chirurgici, trapianto di organi infetti) che attraverso la lesione non visibile della cute o della mucosa oro-faringea, uso di articoli da toilette, contatto sessuale, graffi, morsi, trasmissione fetale. Ai fini della prevenzione e cura è necessario distinguere gli individui:
Attualmente tra gli esami di screening infettivologico, all’atto di ingresso, non è, purtroppo, compresa la ricerca obbligatoria dei diversi agenti virali. La difficoltà di diagnosi risiede anche nelle caratteristiche subdole della patologia ed un sospetto di infezione sussiste solo per quelle categorie di soggetti come i tossicodipendenti che costituiscono il maggior gruppo a rischio. Ma in definitiva i comportamenti tra i detenuti (l’uso in comune di oggetti personale) e il cronico sovraffollamento rendono difficile l’opera di prevenzione.
Infezione da HIV. L’infezione da HIV è la malattia più allarmante. L’agente eziologico responsabile della patologia è un virus il cui decorso infettivo può avere diverse manifestazioni cliniche. Inoltre, in molti soggetti l’infezione da HIV può provocare la produzione di anticorpi senza alcuna manifestazione di sintomi clinicamente rilevanti. Parimenti, in assenza di test, la presenza dell’AIDS può essere testimoniata dall’esistenza di patologie (epatiti, TBC, dermatiti etc.) che generalmente accompagnano il decorso della malattia. La quasi totalità dei casi di AIDS viene ricondotta ad una serie di gruppi cosiddetti a rischio: gli omosessuali, i tossicodipendenti per via endovenosa, gli emofilici o politrasfusi ed i soggetti aventi rapporti sessuali con gli appartenenti ad uno dei predette categorie (l’ambiente carcerario ne offre una significativa rappresentanza). Tutti i soggetti sieropositivi, indipendentemente dalla manifestazione clinica della patologia, possono trasmettere il virus: tale fattore rappresenta il motivo principale di allarme nell’attività di prevenzione del contagio che si può definire, per le caratteristiche ambientali, problema specifico del carcere, Il dilagare dell’infezione ha, in pratica, trovato l’istituzione impreparata, a contrastare la diffusione per fattori propri ambientali e strutturali "predisponenti": sovraffollamento, mancanza di prevenzione, promiscuità, circolazione della droga, comportamenti sessuali a rischio, tatuaggi, uso in comune di articoli personali. Un detenuto affetto da AIDS, o quantomeno da una forma minore, comporta numerosi problemi di gestione per l’Amministrazione penitenziaria, sia a livello di prevenzione che di cura. Il soggetto deve essere periodicamente sottoposto a complessi accertamenti: per monitorare l’evoluzione della patologia e gli specifici interventi sanitari e farmacologici; per evidenziare le frequenti infezioni (toxoplasmosi, candida, etc.) e malattie (epatiti, TBC, sviluppo di neoplasie tipo sarcoma di Kaposi) alle quali gli affetti di HIV, in quanto immuno-deficenti, sono esposti. L’Amministrazione ha, per tempo, dichiarato la sua impotenza a gestire la patologia. Concorde anche la Commissione Nazionale della lotta contro l’AIDS nell’affermare che "il permanere in ambito carcerario comporta per il malato di AIDS, il rischio di una riduzione del tempo di sopravvivenza, e per gli operatori rischi di contagio delle patologie ad alta trasmissibilità". L’opera di prevenzione è fondamentale come lotta a questa patologia ma si dovrebbe conoscere l’esatta dimensione del fenomeno, ma in base alla legge n. 135 del 5.6.1990, nessuno può essere sottoposto al test in questione senza il suo consenso, "se non per necessità cliniche nel suo interesse". Il risultato è che la maggior parte della popolazione detenuta si rifiuta di sottoporsi allo screening infettivologico e solo la sua condizione personale (tossicodipendente, prostituta, omosessuale) può indurre, nel personale medico, il sospetto della presenza della malattia.
Infezione da bacillo di Koch (tubercolosi). È ormai certa la ricomparsa di casi di tubercolosi nella popolazione detenuta39. La tubercolosi è una malattia infettiva, infiammatoria e cronica, in genere localizzata ai polmoni ma che può colpire qualsiasi organo (è comune, infatti, l’infezione dei reni che spesso si estende alla vescica e ai genitali). L’agente patogeno responsabile è il bacillo tubercolare che si trasmette per inalazione di aria inquinata da micro - goccioline di secreti infetti, ma non è escluso che possa trasmettersi per contatto con urina infetta. La resistenza individuale alla tubercolosi dipende dallo stato di salute e dalle condizioni generali di vita: un cattivo stato fisico, un ambiente affollato ed insalubre, la malnutrizione ed altre condizioni sfavorevoli possono diminuire le difese corporee e favorire l’insorgenza della malattia. Come per le altre patologie diffusive, il problema principale nel carcere è costituito dalla condizione di promiscuità e dalla mancanza di interventi organici in via preventiva attraverso la programmazione di esami radiologici e clinici. In teoria il malato dovrebbe rimanere in isolamento o comunque beneficiare di una condizione ambientale migliore. Esiste anche in questo caso la difficoltà di attuare uno screeening infettivologico verso soggetti (ad es. extracomunitari) restii a sottoporsi ai relativi test.
L’area tossicologica
I tossicodipendenti rappresentano nel carcere una larga fetta della popolazione complessiva, nel rapporto di Antigone al 31 dicembre 1999 erano 15.097, il 29,26% sul totale della popolazione detenuta, cui si sommano i 2.392 tossicodipendenti in "affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari". Negli istituti questa numerosa presenza comporta problematiche a vari livelli: gestionali, in quanto il soggetto è prevalentemente organizzato intorno all’opzione tossicomane; preventivi poiché portatore delle più svariate patologie di tipo infettivo che abbiamo appena analizzato: Aids, tubercolosi, epatiti, etc; inoltre il tossicodipendente è un soggetto che abbisogna non solo di cure organiche ma anche di supporti psicologici se non talvolta psichiatrici. Nella quotidianità la tossicodipendenza richiede un’assistenza completa a partire da quella farmaco logica (somministrazione di metadone} per arrivare ad una presa in carico in toto del soggetto, nella quale gli aspetti di tipo psicologico e sociale siano presenti in maniera determinante e qualificante. È importante inoltre che il tossicodipendente non sconti la pena in carcere come un normale detenuto, che gli vengano concesse le misure alternative per realizzare la possibilità di un vero recupero in una comunità terapeutiche. Purtroppo, nonostante le buone intenzioni, il problema tossicodipendenza in carcere rischia di prolungarsi fin tanto che non si attui una vera politica sanitaria che ottenga come primo risultato la scomparsa della droga negli stessi istituti. Accanto alla tossicodipendenza va annoverata la categoria dei "farmacodipendenti", fortemente rappresentata. Gli antidolorifici, gli ansiolitici egli antidepressivi accentuano questo problema con conseguenze incalcolabili in quanto sono capaci di agire a livello cerebrale e di modulare, cosi, la risposta comportamentale, specie se, come spesso succede, il detenuto, crea miscugli terrificanti con farmaci, stupefacenti e alcool. Inoltre si assiste all’abuso di farmaci impiegati diversamente dall’indicazione terapeutica (o in assenza, quando si tratta ad es. di agire non sulla malattia ma su di una modificazione dell’umore, dello stato del soggetto). I prodotti incriminati sono costituiti da: ipnotici (barbiturici), tranquillanti (benzodiazepine), sedativi maggiori (neurolettici). I disturbi, simili a quelli corre lati all’uso di stupefacenti, sono costituiti da:
La soluzione alla farmacodipendenza è primaria nella battaglia contro le forme di dipendenza nel carcere. Difatti questi soggetti assumono spesso farmaci, in dosi e combinazioni tali da provocare una risposta chimica simile a quella prodotta da una sostanza stupefacente. In secondo luogo il problema farmacologico è legato alle varie sindromi di detenzione di cui abbiamo già discusso e alla mancanza di risposte adeguate ai bisogni effettivi dell’individuo. Il carcere dunque oltre ai malati mentali, alle devianze sessuali, sforna anche delle persone caratterialmente deboli e farmacodipendenti. Il numero complessivo dei soggetti alcol-dipendenti, ovvero certificati come tali, è invece irrilevante, Antigone segnala 671 detenuti, pari all’1,3% del totale dei detenuti, cui vanno aggiunti i 124 che usufruiscono dell’affidamento in prova in casi particolari, come per i tossicodipendenti.
Intervista ad una infermiera
Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi (La città vecchia, Fabrizio De Andrè). Rizzini presenta questo squarcio nel quartiere più buio della città dicendoci che: "Questo è il racconto di P.C. ex infermiera libero professionista m un carcere dell’Italia settentrionale, che sperava di fare l’infermiera tra gli uomini e con gli uomini in una realtà diversa da quella che la maggior parte dei suoi colleghi aveva scelto una volta finita la scuola". P.C. che alla fine del suo racconto dice "io stavo alle regole perché avevo bisogno di lavorare" ma è lei la prima a non crederci quando afferma "se il gruppo infermieristico fosse unito si potrebbe anche pensare con un po’ di utopia di costruire e cambiare qualcosa". Rizzini suggerisce di provare a leggere ciò che ha registrato e trascritto, come se P.C. fosse li davanti a voi. L’autore sottolinea che ha cercato di fare pochissime correzioni, solo l’essenziale, per permettere una lettura scorrevole e il più possibile comprensibile e per il resto ha lasciato tutto come P.C. gli ha chiesto di fare perché "altrimenti è inutile". Nell’intervista P.C. ha chiesto di non rivelare la sua identità, perché "è meglio così e perché non è detto che se io sono delusa della mia esperienza con la burocrazia, la gerarchia e il potere lo siano anche altri infermieri penitenziari...e poi non è detto che nelle carceri sia così come ho detto io. Mi auguro che altri colleghi abbiano più autonomia". "... comunque, se tu mi chiedi come l’infermiere in carcere si approccia al reinserimento e al recupero del carcerato, io ti dico chiaramente che non faccio nulla, che non ho la possibilità di fare nulla... come l’infermiere si pone nei confronti dell’emarginazione... io non ho nessun potere di gestione e di progettazione degli interventi perché il mio è un lavoro esclusivamente di esecutore. Io do la pastiglia, sempre do del lei e non ho nessun tipo di rapporto con chi è nella cella perché ho comunque sempre vicino a me l’agente penitenziario che mi controlla e ci controlla, e poi, comunque, il mio pormi non è sicuramente uguale a come si può porre un infermiere in una struttura sanitaria pubblica o privata, perché per me che ero infermiera in carcere con un contratto da libero professionista era sempre conveniente farsi gli affari propri, senza esporsi troppo, perché comunque il contratto mi veniva rinnovato anno per anno e c’era sempre il rischio che non mi venisse rinnovato, con il rischio di rimanere a casa, come d’altronde succede per tutti quei lavoratori precari che per paura di essere licenziati spesso non hanno altra scelta che stare zitti e spesso subire molestie morali e l’abuso di potere...e tu capisci bene che quando si ha bisogno di lavorare è sempre meglio farsi gli affari propri; per un infermiere libero professionista è diverso che per un infermiere ministeriale che viene assunto con un concorso e poi c’è sempre e comunque. Il fatto che vai contro a mille, duemila, tremila persone quindi te ne stai nella tua piastrella e vivi lì, non ti muovi; non sei protetto da nessuno, non c’è una capo sala... nella mia realtà era così: c’era un direttore sanitario medico che c’era e non c’era e quando esponevamo delle problematiche infermieristiche eri da solo e se su sette colleghi sei da solo stai nella tua piastrella, non ti muovi ed esegui. Quando vai a lavorare in carcere sei una infermiera ma sei una infermiera che non fa quello che gli ha insegnato la scuola. Quello che ti hanno insegnato non lo fai perché non lo puoi fare, non hai autonomia decisionale, sei un esecutore. Ti trovi al di là delle sbarre dei tuoi coetanei a cui viene d’istinto dare del tu e sai che non lo puoi fare, devi sempre avere e dare rispetto e sottolineare quando loro non te lo danno perché poi se ne approfittano. Questa è la realtà. Ti dico che io non avevo ne cartellino, ne nome sulla divisa eppure loro sapevano il mio nome, il cognome, dove abitavo e cosa facevo, se ero sposata...quindi puoi capire che, se io gli permettevo anche di darmi del tu, come è capitato, quando davo il metadone diventava naturale chiedertene due ml in più, tre ml in più... quindi avere rispetto vuol dire che sanno che con te non possono fare determinate cose. Adesso, dove lavoro, se la capo sala ti sente dare del tu non te la mena più di tanto; in carcere le guardie ti chiedono se lo conosci, come mai ti chiama per nome e tutte queste cose; in certe carceri italiane addirittura durante la somministrazione della terapia non devi guardare in faccia il detenuto e anche se nella realtà dove lavoravo io questo non succedeva, comunque non ti potevi rivolgere a loro con espressioni del tipo; "buongiorno, dormito bene questa notte?" ma solo con "buongiorno", "buonasera", ‘pastiglie" e "mi dia il bicchiere", sempre in maniera molto asettica. In alcune case circondariali so che addirittura i carcerati non possono e non devono nemmeno guardarti in faccia ma stanno con gli occhi bassi perché è una loro regola di comportamento all’interno del carcere, perché comunque non ti devono riconoscere. Non ti devono riconoscere fuori perché a me è capitato di incontrare ex detenuti a cui non ho fatto niente ma se gli avessi fatto qualcosa...e poi il problema grosso è che tu da sola devi somministrare la terapia a ottanta, cento persone e devi fare in fretta e comunque non avresti il tempo di fermarti...e poi con il metadone è un casino perché tu lo dai ma c’è chi lo nasconde, lo tiene in bocca, fa finta di prenderlo e lo sputa... una serie di cose a cui poi fai l’abitudine...ci fai l’occhio e l’orecchio e vai di corsa come un automa. Le urgenze che ho visto quando lavoravo sono state un infarto, qualcuno che si è mangiato una lampadina per tentare il suicidio o chi si tagliava le vene ma lo faceva passandosi sopra il limone in modo che il sangue possa coagulare e quindi sanno benissimo che poi alla fine non vanno incontro ad un vero e proprio pericolo di vita...lo fanno per attirare l’attenzione ed essere spostati. Poi ho visto gli scioperanti della fame che arrivano ad un livello tale che si collassano e quando succede viene avvisato l’agente penitenziario che a sua volta chiama in infermeria dove si avvisa il medico che va alla cella con l’infermiere e valuta se è il caso di trasportarlo in infermeria o no, e passano comunque sempre circa dieci minuti, se sei fortunato, anche perché non sempre il medico arriva con le scale ma deve anche prendere tre o quattro ascensori. Dove lavoravo io eravamo undici. Quattro infermieri e sette generici già in pensione. Il rapporto era pessimo perché comunque anche se gli spiegavi le cose per fargli capire che la responsabilità di quello che facevano era comunque nostra, facevano apposta a fare il contrario e se ne sbattevano perché ti dicevano che loro, non tutte certo, non ne avevano per le palle di essere comandate da una ragazzina... loro erano tutte ex qualcosa in pensione e scherzi, "che una bambina ", così mi chiamavano, "che ha finito la scuola da poco e che può essere mia figlia mi viene a dire cosa devo fare". Quando gli dicevi "guarda che non puoi scaricare il gardenale perché la legge non te lo permette e soprattutto non lo puoi dare di tua iniziativa" si mettevano a ridere o magari si incazzavano insultandoti e non sempre se tu gli davi la compressa da distribuire lo facevano o comunque, se lo facevano, lo facevano male dicendoti "ho dato la compressa" e magari poi la buttavano. Pensa che quando gli è stato detto che, compatibilmente con i turni, non potevano toccare gli stupefacenti ed avere la chiave della cassaforte ci è mancato poco che una infermiera venisse picchiata. Tutto questo era ancora più difficile da gestire mancando la figura della capo sala... noi dipendevamo da un medico che era il direttore sanitario e tra noi infermieri si tentava di avere una linea comune di lavoro, anche perché tutti parlavano professionalmente la stessa lingua, ma poi, essendo pochi, quel poco che si riusciva a costruire veniva immancabilmente distrutto dalle generiche anche perché gli infermieri erano pochi e non potevano garantire la presenza per ogni turno di conseguenza la pianificazione dell’assistenza infermieristica non esisteva perché eravamo troppo diversi noi e loro. Pensa che quando io sono arrivata in carcere il passaggio delle consegne non esisteva mica, era già tanto avere un saluto perché loro erano abituate a lavorare tra di loro, e quando siamo arrivati noi infermieri ci hanno visto come dei nemici da combattere...come quelli che hanno studiato e vogliono fare i maestri, "noi non abbiamo mica studiato ma ce la siamo sempre cavata, quello che conta è l’esperienza, cara mia". Eravamo troppo diversi per pensare ad una pianificazione dell’assistenza, sempre che in carcere si possa pianificare qualche cosa come in una corsi d’ospedale o come ci hanno insegnato a scuola; ci siamo noi e ci sono loro; le generiche, gli agenti penitenziari, i medici e spesso i detenuti che, bisogna dirlo, per la maggior parte non gliene frega nulla di essere recuperata, neanche quando stanno male; e poi il problema è che se il gruppo infermieristico fosse unito si potrebbe pensare anche con un po’ di utopia di costruire qualcosa, ma da solo assolutamente no, perché comunque qualsiasi proposta deve passare attraverso mille teste che devono capire e approvare; devi proporre al direttore sanitario,fartela approvare, poi passa alla approvazione della direzione del carcere... per carità, tutte cose giuste, però... sempre hai a che fare con persone che di infermieristica non hanno niente a che vedere... persone esterne che mettono sempre davanti a tutto la sicurezza... ripeto, è giusto per carità, però... ad esempio quando sono arrivata io non esistevano i registri dello scarico degli stupefacenti e nemmeno del passaggio delle consegne, o meglio, c’erano ed erano una cosa obbrobriosa; non firmati e non controllati, quindi mi sono dovuta mettere quasi a pregare per fare capire che si rischiava grosso. Tutte le volte dovevo dire "guardi dottore che non si può fare cosi perché per legge se succede qualcosa "... mesi e mesi per fare capire che le cose andavano cambiate. Io posso spiegare come si deve fare ma se manca la cultura... se lui vuole ascoltarmi e ha cervello, mi dice "ok, va bene", altrimenti... Penso che il carcerato malato viene si considerato come un malato ricoverato in una struttura pubblica, cioè una persona che ha un bisogno che va soddisfatto e risolto in quel momento, però è comunque sempre un detenuto. Se io al malato normale do una compressa di Plasil non ho nessun problema, ma io so che se invece do una compressa di Plasil ad un detenuto, con quella compressa ci può fare di tutto. I detenuti sniffano l’Aulin, di conseguenza se in ospedale dico "ma sì, la prenda dopo oppure la prenda quando mangia" non posso fare la stessa cosa con un detenuto perché usano qualunque cosa per farsi del male o per essere trasferito o al centro dell’attenzione. È sempre un detenuto e ci sono detenuti che sono persone ragionevoli, ma c’è gente come gli albanesi o i marocchini che non hanno la nostra mentalità, o hanno esigenze e una cultura diversa... come gli altri detenuti italiani... come noi. Mi chiedi come l’infermiere penitenziario si pone nei confronti dell’emarginazione sociale e morale di chi è in carcere? Non ha nessuna possibilità di autonomia perché a livello di contatti è deludente, a livello di interventi zero...nel senso che io vedo l’emarginazione del tunisino ma non ci posso fare niente perché io, come infermiere, non ho nessuna possibilità di pianificare insieme, che ne so, all’infermiere del SERT o all’educatore... viene fatto tutto dal direttore sanitario che ha contatti con il medico. È il medico che discute con il direttore sanitario e questi, a sua volta, con il direttore del carcere. L’infermiere in definitiva... vuoi che te lo dica chiaramente? Non interviene e no ha nessun ruolo se non quello di esecutore materiale e basta. Se lavorando in ospedale io so che per la vecchietta è stata fatta la domanda per la casa di riposo una volta dimessa, in carcere, come infermiere, non so nulla e forse non sono tenuto a sapere nulla... è così... io eseguo gli ordini del medico senza nessuna possibilità di collaborazione e poca gestione del mio lavoro... "obbedir tacendo" come mi disse un giorno un agente penitenziario... io non ho nemmeno la possibilità di valutare se chi è in cella ha un problema grave o no. Noi dipendiamo dal medico ed è il medico che conosce i suoi problemi e il detenuto non li viene a dire certo all’infermiere e, anche se dovesse farlo, noi non possiamo fermarci a parlare con lui come faremmo in ospedale perché comunque abbiamo sempre vicino l’agente penitenziario a cui dobbiamo sempre, anche in maniera inconscia, rendere conto. Triste? Non lo so, io stavo alle regole del sistema perché avevo bisogno di lavorare e quando ho trovato di meglio, in ospedale, più sicuro economicamente e legalmente, me ne sono andata...cosa dovevo fare?"
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