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Progetto di ricerca-intervento. Responsabile scientifico: Susanna Ronconi
"Nuovi bisogni informativi e nuove modalità di comunicazione sul tema dell'HIV nella popolazione detenuta italiana attraverso l'attivazione della rete dei giornali del carcere nella lotta all'AIDS" (Istituto Superiore di sanità, Accordo di collaborazione scientifica 60b / 1.21)
I risultati della ricerca
Dati socio-anagrafici
Sono 811 le persone detenute che hanno risposto al questionario somministrato. Sono maschi per il 93,6%, femmine per il 6,4%, una percentuale leggermente sovradimensionata rispetto alla percentuale di presenze femminili (attorno al 4%). Le classi di età maggiormente rappresentate sono: 31-35 anni (25,6%), 26-30 (18,1%), 41-45 (12,6%). I più giovani (18-25) sono il 9,0%, i più anziani (51-60) il 6,9%, coloro che hanno più di 60 il 2,8%. Le nazionalità più rappresentate: italiana (72,4%), marocchina (4,7%), rumena (3,3%), albanese (2,7%). La maggioranza (58%) è in possesso di titolo di studio di scuola media inferiore, con grande distacco licenza elementare (12,7%) e licenza media superiore (16,6%). Il 3,3% dichiara di non aver alcun titolo di studio, l’1,8% è laureato. Tra il 7,5% che dichiara di essere in possesso di un diploma di scuola professionale, i campi maggiormente rappresentati sono quelli del settore della ristorazione (pizzaioli, cuochi), del settore elettrico e elettromeccanico, della falegnameria e dell’idraulica, della ceramistica e dell’estetica. Per quanto concerne lo stato civile, la metà degli intervistati (il 45,5%) è celibe/nubile, il 24,7% è sposato, in eguale percentuali separati e divorziati (rispettivamente il 7,3 e il 7,0%), il 13,4% convive 23,4%, con un partner fisso e il 2,1% è vedovo. Equamente divisi anche per quanto concerne la condizione di genitore: il 51,5% non ha figli, e del 48,2% che ne ha, il 51,8% (il 23,4% del campione) ha un solo figlio, 28,3% (il 12,8% del totale) due, il 12,3% (5,5% del totale) tre. In merito all’occupazione prima dell’ingresso in carcere, solo il 25,8% dichiara di essere stato disoccupato; tra loro, il 36,4% (il 9,4% del totale) risulta in cerca di prima occupazione e il 5,7% (l’1,5% dell’intero campione) seguiva un corso di studi. Tra coloro che dichiarano un’attività lavorativa, il 33,2% (il 24,9% del campione) è lavoratore dipendente in regola, il 30,4% (il 22,8%) svolgeva un lavoro autonomo e il 20,1% (il 15%) lavorava in nero. I lavoratori saltuari sono il 16,3% degli occupati (il 12,2% del totale). Prima di entrare in carcere, la maggioranza (il 69,7%) viveva in un alloggio con la propria famiglia, il 16,4% in un alloggio da solo, il 6,8% in una abitazione condivisa con amici. Solo il 2,7% e il 2,8% viveva rispettivamente presso una struttura di accoglienza e in abitazioni di fortuna.
Le esperienze carcerarie e la posizione giuridica
Passando ai dati relativi alla carcerazione in corso, il gruppo più consistente (25,8%) è in carcere da un minimo di un anno fino a 5, il 18,6% tra i 6 e i 10 anni, il 10,4% tra i 10 e 15 anni. Solo lo 0,1 è in stato di detenzione da meno un anno. La grande maggioranza degli intervistati è in fase di esecuzione pena (il 76,2%), il 12,7% in attesa di giudizio, il 4,9% appellante e il 2,2 ricorrente.
Percezione dei rischi per la salute correlati alla condizione di detenzione
Il questionario poneva due domande sui rischi per la salute che secondo gli intervistati derivano dalla condizione di carcerazione: la prima domanda era posta sottolineando il carattere oggettivo, cioè i rischi che in generale secondo l’intervistato le persone detenute corrono in carcere, la seconda chiedeva rischi percepito per se stessi. I dati che maggiormente si discostano (per quanto per valori percentuali non molto significativi) tra lettura oggettiva e lettura soggettiva riguardano:
Una leggera flessione della percezione soggettiva se confrontata a quella oggettiva per i disturbi di tipo psicologico: il 12,9% delle risposte e il 36,7% dei casi a fronte del 12,7% e del 35,3% nella percezione per sé. Il rischio di non essere adeguatamente assistiti in caso di malattia dietro le sbarre riguarda il 10,6% delle risposte e il 30,2% dei casi nella percezione generale del problema, percentuali che salgono rispettivamente all’11,4% e al 31,7% se riferiti a sé. Variazione significativa anche per i disturbi alimentari: se nella percezione del rischio "astratto" rileviamo l’8,5% delle risposte e il 24,2% dei casi, in quella soggettiva passiamo rispettivamente al 9,8% e al 27,1%. Considerando tanto le risposte relative al rischio "astratto" che quelle relative alla propria salute, possiamo osservare che i rischi maggiormente percepiti dalla popolazione detenuta intervistata sono, nell’ordine:
Percentuali molto basse sono state rilevate rispetto a violenze di tipo fisico (il 4,3% dei casi "soggettivi"), i danni correlati al consumo di droghe (il 2,3%), le disfunzioni sessuali (il 3,9%).
Percezione del livello di rischio relativo a diversi tipi di malattie e delle cause rilevanti di trasmissione/contagio
Il questionario, in questa sezione, si è concentrato su alcune malattie trasmissibili, indagando più in profondità sul livello di rischio percepito e sulla gerarchie di cause riconosciute come maggiormente incidenti. Tra le malattie elencate (epatiti A, B e C, TBC, scabbia, HIV, altre malattie della pelle, altre malattie sessualmente trasmesse), in una scala che prevede tre livelli di rischio (basso - medio - alto) il rischio maggiore di trasmissione in ambito carcerario è stata attribuita a malattie della pelle (53%) e scabbia (38,6%), seguiti dalle epatiti (il 31,1% per B e C, il 29% per la A). Le patologie a più basso rischio di trasmissione sono, al contrario, la TBC (per il 45% degli intervistati) "altre" malattie sessualmente trasmissibili (il 63,9%) e l’HIV, che per il 36,7% non è a così preoccupante percentuale di rischio trasmissione. Nel complesso nei dati relativi a HIV e epatiti le percentuali di chi ritiene il rischio basso, medio o alto sono abbastanza equamente divise:
Mentre l’allarme epatiti risulta maggiore di quello relativo all’HIV
Alla domanda sui maggiori fattori di rischio relativi alla diffusione di malattie trasmissibili, vi è una significativa prevalenza della mancanza di igiene nelle celle e nelle docce (il 31,2% delle risposte e ben il 78,4% dei casi), seguita con notevole distacco dai cibi crudi e non ben lavati (rispettivamente il 18,5% e il 46,6%), dalla scarsa aerazione delle celle (17,2% e 43,2%), dalla non corretta manutenzione di strumenti sanitari (11,2% e 28,1%) e dalla scarsa igiene in caso di ferite (10,3% e 26%). Percentuali poco significative per uso di droghe, rapporto sessuali e uso promiscuo di rasoi. È interessante sottolineare come sia forte, in questa descrizione, la percezione della nocività dell’ambiente carcerario in sé, la percezione della sua capacità di "produrre malattia", fino alla sfiducia nella appropriatezza di alcune misure a carico del personale sanitario, e lo stare sullo sfondo dei comportamenti soggettivi agiti dai soggetti detenuti. Una percezione che oscilla tra la lucida consapevolezza vissuta del carcere produttore di malattia (ed è qui rilevante che il campione intervistato abbia alle spalle carcerazioni medio - lunghe) e la sottovalutazione del ruolo delle scelte individuali e dei comportamenti adottati e con essa anche della possibilità e del potere reale che i singoli e la collettività detenuta hanno nel determinare miglioramenti della loro condizione. A ulteriore verifica della percezione del rischio, sono state proposte domande relative alla presenza in carcere di persone portatrici di patologie trasmissibili. Il maggior numero di presenze è stato valutato tra le persone con epatiti (per il 42,4% sono "molte", per il 18,7% "poche"), seguite da quelle con malattie della pelle (molte per il 32,6% e poche per il 18,1%). Le persone sieropositive sono molte per il 31,7% e poche per il 21,5%. I gruppi ritenuti meno numerosi sono quelli dei portatori di TBC e di altre malattie sessualmente trasmissibili.
Rischi e fattori di rischio relativi all’HIV
È stata rilanciata una domanda specifica sul rischio HIV, formulata sul rischio di contrarre e di trasmettere, e aprendo la scala dei livelli di rischio a 4 modalità: molto limitato, poco probabile, probabile e molto probabile. Le risposte si sono distribuite in modo maggioritario per il 35,9% attorno alla modalità "probabile", distribuendo in modo piuttosto omogeneo le rimanenti risposte attorno alle altre modalità (16,9% molto limitato; 17,5% poco probabile; 17,1% molto elevato). Se sommiamo le modalità probabile e molto elevato otteniamo la percentuale del 53% di persone detenute che ritengono il rischio HIV significativamente presente in ambiti carcerario. Rispetto alle cause che favoriscono la diffusione del contagio, maggioritaria quella relativa alle ferite curate con scarsa igiene (il 16,4% delle risposte e il 46,1% dei casi), seguita dall’uso di droghe per via iniettiva (rispettivamente il 14,7% e il 41,3%), modalità praticamente assente nelle risposte alle domande precedenti e ora, in relazione all’HIV, indicata come rilevante, come i rapporto sessuali non protetti, che dalle percentuali minime delle domande precedenti passa a un 12,7% delle risposte e a un 35,6% dei casi. Si può interpretare questo dato sotto ottiche diverse: un "effetto stereotipo" , per cui nonostante la domanda ponesse il quesito chiaramente in relazione all’ambito carcerario, è scattata l’attribuzione di importanza a gruppi e comportamenti "tradizionalmente" toccati dall’infezione e al tempo stesso stigmatizzati; un "effetto realismo", per cui entrando nel merito di domande meno generiche emergono descrizioni più realistiche dei comportamenti a rischio agiti . L’analisi di alcuni dati provenienti da incroci tra variabili diverse tenteranno nel proseguo del rapporto, di fornire una ipotesi interpretativa. Un altro comportamento individuale, lo scambio di oggetti taglienti, viene indicato da una percentuale significativa, il 30% degli intervistati (il 10,7% delle risposte). Significativa anche la percentuale che indica nella mancanza di informazione sanitaria un motivo di rischio: ha risposto così il 30% del campione (il 10,7% del totale delle risposte) e anche nella non corretta manutenzione di strumenti sanitari (il 32,5% degli intervistati). Igiene di celle e docce preoccupa il 27,% degli intervistati, a fronte di una percentuale molto minore (l’11,7%) che si riferisce invece alla pratica del tatuaggio. Anche la convivenza con persone HIV+ è fonte di rischio di contagio: sono solo il 4,2% delle risposte, ma riguardano l’11,7% degli intervistati, una percentuale da non ignorare. Infine, interrogati sul livello di rischio HIV correlato al consumo di droghe e ad attività sessuale in ambito penitenziario, i detenuti rispondono che in entrambi i casi sono comportamenti ad alto rischio (rispettivamente il 50,3% e il 49,2%).
Informazione e prevenzione all’esterno e all’interno del carcere
Questa sezione del questionario indaga sulle strategie informative in tema di HIV seguite dall’interessato/a. Per quanto concerne l’informazione ricercata e ricevuta da liberi, il 30,1% non ne ha mai avuta. Tra il 69,9% che si è informato, la maggioranza (il 48,1%) è stato informato dai mas media (il 19,3% delle risposte), il 44,6% ha potuto consultare degli opuscoli mirati (il 17,9% delle risposte), il 37,3% da amici (14,9% delle risposte) il 34,4% si è informato al Ser.T. (il 13,8% delle risposte), il 33,7% presso il medico di famiglia (13,5%) e il 30,8% è ricorso al partner (12,4%). Solo il 15,2% si è riferito ad altri operatori sanitari. Nel complesso dunque, mass media, materiali informativi e reti amicali e famigliari sono per lo più le fonti informative utilizzate. Tra gli "addetti ai lavori", il Ser.T. sembra - per la popolazione tossicodipendente - un servizio efficace dal punto di vista dell’informazione. Passando al contesto carcerario, alla domanda se l’intervistato/a aveva mai chiesto un colloquio su questo tema, la risposta appare netta, ed è negativa per l’82,7% dei casi. Al contrario, di HIV si parla in cella: con i compagni /e di detenzione infatti, solo il 46,2% non ha mai affrontato l’argomento, mentre il 19,2% ne ha parlato almeno una volta e il 34,5% più di una volta. Le relazioni tra pari sembrano dunque più coinvolte e interessate al tema HIV. La percentuale di chi ha mai chiesto - solo o con altri/e - qualche iniziativa specifica sul tema HIV alla direzione del carcere è del 23,4%, un dato piuttosto significativo, se si pensa che implica l’attivazione e anche una possibile negoziazione nel merito. Passando poi all’oggetto della richiesta (indichiamo tra parentesi la percentuale delle risposte), tra coloro che si sono attivati il 40,3% ha chiesto incontri informativi con i medici, il 35,8% ha fatto domanda di strumenti per una maggiore pulizia e igiene degli ambienti, il 34,1% ha chiesto incontri con gli operatori del Ser.T., il 24,4% con volontari, il 23,9% ha richiesto materiali informativi e il 22,7% ha chiesto di non convivere con persone con HIV+. Accostando il dato relativo all’informazione nelle reti informali e tra pari, alla scarsità dei colloqui individuali sostenuti con un medico o un operatore, al dato rilevato su un’attivazione che - quando avviene - si orienta verso le figure professionalmente preposte, possiamo pensare a livello "indiziario" a una prima indicazione: c’è una autorevolezza del personale sanitario e un potenziale rapporto fiduciario che non trovano pratica traduzione, se non quando i detenuti in forma collettiva (come suggeriva la domanda) chiedono e negoziano. Due domande chiudono questa sezione: si richiede un’opinione dell’intervistato/a sull’utilità o meno di conoscere lo stato sierologico dei compagni di cella e se debba essere conosciuto anche dagli agenti. Nel primo caso, l’83,5% pensa di sì: un dato importante, che testimonia quanto ancora sia distante l’idea di una prevenzione come pratica quotidiana di tutela della propria salute e quanto sia corrente e maggioritaria la "trappola" dell’identificazione del "soggetto a rischio trasmissione". Il dato è correlato dalle risposte ad una domanda aperta, con la quale si chiede il perché, sia della risposta negativa che di quella positiva. Rispetto a queste ultime, le risposte sono molto "mature", chiamano in causa l’etica del rispetto e della privacy, più raramente il fatto che ci si debba comportare nello stesso modo - attento e con precauzioni - con tutti. Alcuni rispondono semplicemente "non c’è motivo" oppure "è difficile contagiarsi", altri non sanno come la pensano i sieropositivi ed hanno il dubbio di invadere la loro privacy. Tra chi vuole saperlo, la gamma delle ragioni è assai ampia. Maggioritaria quella che lega la conoscenza ad una migliore prevenzione, con un’enfasi particolare nel caso di ferite: qui le ragioni dell’uno e dell’altro sono spesso coniugate ("saperlo per difendermi e anche per aiutarlo meglio"). Alcuni sono drastici: meglio non stare insieme in cella. Altri sottolineano il dato etico: onestà (da parte della persona con HIV+) è parola ricorrente. Per lo più, le risposte sembrano indicare l’accettazione della convivenza a patto di una esplicitazione dello stato sierologico che metta tutti nella condizione di "saper cosa fare se…". È evidente come questo sollevi il grande problema di come promuovere atteggiamenti di salute e prevenzione che - invece - mettano al centro la responsabilità del soggetto e lo mettano al riparo dalla "trappola" di comportamenti sicuri episodici e "tarati" sulla "certezza" dello stato sierologico dell’altro. Nel caso della conoscenza da parte del personale penitenziario, la percentuale di chi risponde affermativamente è sempre maggioritaria, ma inferiore alla precedente: il 71,4%. Il restante 28,6% afferma che saperlo implicherebbe da parte degli agenti atteggiamenti discriminatori ("c’è troppa cattiveria e ignoranza e odio", oppure "avrebbero pregiudizi negativi"), oppure che si sottolinea che il personale "non vive 24 ore in una cella" e dunque è meno esposto al rischio. Un gruppo sottolinea semplicemente il diritto alla privacy e il rispetto della legge. Tra coloro che credono al diritto degli agenti ad essere informati, due grandi motivazioni: una riguarda il diritto degli agenti a "sapere per proteggersi" ("ne hanno diritto anche loro"), l’altro - nella stessa misura - si riferisce alla possibilità dell’agente di "informare gli altri detenuti" o - in modo meno significativo quantitativamente - di decidere di "metterli in altre celle". Dunque l’agente è stretto, per questo gruppo di detenuti, tra il diritto a proteggersi (anche qui le ferite aperte sono l’esempio principe) e il dovere di proteggere gli altri detenuti informandoli. Mediamente, se nella domanda riferita a se stessi vi sono spesso motivazioni "egoistiche" coniugate a ragioni "altruistiche" (tutelo me stesso e aiuto meglio lui), le risposte alla domanda riferita agli agenti "liberano" maggiormente il desiderio-bisogno di essere protetti e anche un tono maggiormente rivendicativo. Valgono le stesse considerazioni fatte sopra, sull’importanza della "trappola" della conoscenza come limite potente alle pratiche e alla mentalità della prevenzione, cui si coniugano domande su quanto l’atteggiamento degli agenti - che altre ricerche hanno rilevato inclini a "voler sapere" e a loro volta preda della medesima trappola - incida su quello dei detenuti, in un meccanismo di reciproco rinforzo.
Offerta di servizi, assistenza e informazione all’interno del carcere
La sezione ripercorre quello che potrebbe essere un "percorso di offerta" di servizi informazione e sostegno dal momento dell’ingresso in istituto. Per quanto concerne la consegna all’ingresso di materiale per l’igiene e la pulizia, il 69,7% ha ricevuto strumenti per la pulizia della cella e stoviglie e il 57,7% prodotti per l’igiene personale. La varechina è stata distribuita solo al 14,2% dei detenuti, dato che interessa per le proprietà specifiche di questo disinfettante sul virus HIV. Solo il 13,9% ha ricevuto materiali informativi su regolamento e leggi penitenziarie, il 6,3% sulla salute e il 5,8% su HIV e malattie trasmissibili. Durante la carcerazione (fino al momento dell’intervista) solo il 24,2% ha potuto visionare materiali informativi sull’HIV: si può affermare che la circolazione di questi materiali non è particolarmente curata all’interno degli istituti. In ogni caso, quando vengono distribuito lo sono soprattutto ad opera di volontari e associazioni presenti in carcere (nel 36,6% dei casi), da operatorio Ser.T. o altri operatori penitenziari (il 15,8% per entrambi), nel 13,8% dei casi da medici. Il personale di custodia provvede nel 3,6% dei casi mentre è interessante osservare la modalità "orizzontale" di circolazione delle informazioni anche scritte: fanno da veicolo altri detenuti/e nel 14,8% dei casi. Alla domanda sul colloquio nuovi giunti, e se in questo colloquio c’era stata la possibilità di parlare di HIV anche solo per chiedere informazioni, la risposta è stata negativa per il 36,6% degli intervistati, mentre il 35,3% dichiara di aver avuto un colloquio con un operatore, il 12,2% con un operatore alla presenza di un agente e il 3,5% un colloquio con un operatore e "altre persone presenti". Abbiamo il ragionevole dubbio, però, che alcuni abbiamo equivocato la domanda, rispondendo in generale sul primo colloquio e non in particolare sul contenuto dello stesso che includesse anche il tema HIV. Il dubbio è attorno a quel 35,3% che dichiara di aver parlato di HIV al colloquio nuovi giunti, una percentuale che appare decisamente in eccesso. Nel corso della carcerazione, a parte il primo colloquio, l’83,2% degli intervistati non ha mai parlato di AIDS con alcun operatore. Insomma: non pare azzardato affermare che in carcere non se ne parla, almeno negli ambiti preposti, dato anche più rilevante se si considera il nostro campione, composto da persone che sono in carcere da periodi mediamente lunghi. Il restante 16,8% ne ha parlato con un medico, nel 46,5% dei casi, con un volontario ( 21,7%), con altri detenuti ( 18,6%).Il 5,4% ha fatto gruppi di discussione su questo tema. Passando a visite e esami clinici all’ingresso o nei giorni subito successivi, il 71,6% dichiara di essere stato sottoposto a prelievi, e tra loro il 52,8% a prelievo delle urine e il 94% al prelievo del sangue. Dichiara di essere stato sottoposto a test per la TBC il 30,7% del campione, per l’epatite B il 37,4%, per la C il 43,6%, per l’HIV 52,4%, per la sifilide l’11,3%. Le domande sui test specifici cui sono stati sottoposti rivelano una percentuale significativa di risposte "non so": sono detenuti che non hanno il ricordo oppure la consapevolezza di essere stati sottoposti a esami clinici, rispetto a quali patologie e con che esito. Non sa rispondere il 13,9% per quanto concerne la TBC, il 13,7% per l’epatite B, il 12% per l’epatite C, l’8,9% per l’HIV, il 17,3% per la sifilide. Per quanto concerne i test che rilevano metaboliti di sostanze psicoattive, il 29% dice di esservi stato sottoposto per gli oppiacei (il 12,7% non lo sa) e il 19,6% per cannabinoidi (il 15,4% non lo sa). È stata posta una domanda sul consenso scritto richiesto al momento del test, inserendo nelle modalità di risposta anche esami per i quali non è espressamente previsto: ha risposto affermativamente per la TBC il 2,6% (il 6,4% non sa), per l’epatite B il 5,5% (non sa il 6,3%), per l’epatite C l’8,5% (non sa il 6,8%), per l’HIV il 15,3% (il 6,9% non lo sa), per la sifilide il 2,1% (il 6,3% non sa), per gli oppiacei il 5,4% (il 4,9% non sa) e per i cannabinoidi il 3,2% (non sa il 5,3%). Sebbene naturalmente qui le risposte riguardano percezione e ricordo degli intervistati, e dunque non se ne possa dedurre che effettivamente ci sia un 22,6% a cui non è stato richiesto il dovuto consenso scritto per il test HIV, il dato è indicativo almeno della non consapevolezza di questo obbligo. Va notato poi che a queste domande sui test, a fronte di un 94% che dichiara di aver fatto un prelievo di sangue, vi sono molte risposte mancanti (mediamente un 60%), dato non assimilabile ai dati mancanti in altre questionario, cosa che testimonia almeno della difficoltà a rispondere e - credibilmente - prima ancora a ricordare. Possiamo permetterci forse di osservare come la memoria non abbia registrato un passaggio che evidentemente viene vissuto come routinario e burocratico, non come azione agita in favore della propria salute. È un elemento che offre spunti di riflessione sull’incisività - rispetto alla consapevolezza di sé e della propria salute - di azioni cliniche che si inseriscono in rituali (per altro vissuti negativamente) di ingresso in una istituzionale totale, accomunati ad altri rituali di "spogliazione". Per quanto concerne la comunicazione dell’esito dei test, a fronte di un 30% di risposte mancanti, il 34,4% ha ricevuto la risposta a voce dal medico, il 10,4% non lo ricorda, il 9,2% ha avuto in consegna un documento e anche un colloquio, al 7,5% è stato consegnato un documento e il 4,8% dichiara di non averne saputo più nulla. Alla domanda se a seguito dei test avessero appreso di avere qualche patologia, quale intervento era seguito, un 30% del campione risponde affermativamente: tra loro, il 27,3% ha avuto "un lungo colloquio con il medico", il 33,2% ha avuto "un colloquio" con un operatore, il 6,7% soltanto una comunicazione scritta. Ben il 33,2% di loro afferma di "non aver avuto la possibilità di parlarne in modo approfondito". Nella seconda parte di questa sezione, si chiedono informazioni e giudizi sull’accesso alle terapie: rispondono sia persone che hanno cognizione diretta, in quanto interessati alle cure, sia persone che sono a conoscenza indirettamente del tipo di prestazioni offerte. Alla domanda sulle modalità di accesso alle terapie metadoniche, il 24,7% non risponde e il 37,2% dice dio non essere informato; il 17,3% e il 16,8% affermano rispettivamente che il metadone viene dato solo a chi già lo assume all’esterno e a chi ne faccia richiesta, comunque solo a scalare. Solo il 3,3% dice che è disponibile anche a mantenimento, per terapie protratte. Per quanto concerne le terapie per l’AIDS, il 68,7% non ne sa nulla, per il 5,3% in carcere si possono seguire le stesse terapie che sono disponibili all’esterno, il 5,2% pensa che siano accessibili ma non siano le stesse seguite all’esterno, il 3,3% dice che non vengono rispettati orari di somministrazione. Solo il 2,2% afferma che le terapie sono accessibili e regolari. Il 50,1% è pessimista sulla adeguatezza elle visite specialistiche per le persone con HIV, e solo il 10,4% afferma che sono adeguate. La dieta alimentare particolare per persone con Aids non esiste per il 61,9% degli intervistati, mentre 14,4% la valuta inadeguata e solo l’1,4 dice che è soddisfacente. Nel complesso quindi la percezione dei detenuti è di una sostanziale inadeguatezza del sistema di presa in carico dei problemi delle persone con Aids. Sulla collocazione delle persone sieropositive in carcere, la maggioranza (il 67,6%) dice che sono nelle sezioni con tutti gli altri, percentuali molto basse affermano che si trovano in sezioni separate (5,5%), al centro clinico (3.0%) o al centro clinico solo in caso di Aids conclamato (3,5%). La conoscenza dello stato sierologico delle persone sieropositive è stata resa nota dagli interessati nel 45,3% dei casi: una percentuale che significativamente testimonia un diffuso atteggiamento di responsabilità e fiducia al tempo stesso. Ma una percentuale significativa (il 25,2%) lo apprende da chiacchiere di corridoio, mentre solo il 3,1% dice di averlo intuito da alcuni sintomi e il 3,0% afferma di averlo richiesto esplicitamente. Nelle risposte aperte, sono state segnalate, tra l’altro, l’averlo capito dal tipo di terapia distribuita in cella. È stato poi chiesto agli intervistati di esprimere gradi diversi di accordo/disaccordo con alcune affermazioni relative alla collocazione delle persone con HIV+: "è meglio che stiano in luoghi separati": il 21,3% esprime totale accordo a fronte del 23,9% di massimo disaccordo, accordo e disaccordo seguono rispettivamente con il 14,1% e il 10,9%; "non devono essere discriminati": totale accordo per il 25,5% e massimo disaccordo per il 16,2%, il 17,5% è d’accordo, l’11,2% in disaccordo; "si può convivere, basta evitare contatti fisici": pienamente d’accordo il 20,3%, totalmente in disaccordo il 13,9%, accordo e disaccordo rispettivamente 23,4% e 12,5%; "si può convivere, basta evitare l’uso comune di alcuni strumenti": pieno accordo per il 33,0% e pieno disaccordo per l’11,7%, accordo per il 22,3% e disaccordo per il 7,3%; "non solo si può convivere ma bisogna stare loro vicini e aiutarli": totale accordo per il 27,9%, accordo più tiepido per 25,4%, disaccordo per il 6,2% e netto di accorso per il 9,5%; "bisogna combattere ogni discriminazione"; il 31,6% è pienamente d’accordo, il 24,0% in accordo, il 4,9% in disaccordo e il 6,7% in netto disaccordo. Nel complesso, la popolazione intervistata appare divisa al proprio interno: nettamente divisa per quando concerne paure e prudenze, meno divisa quando entra in campo la dimensione solidale, umana e etica. Esiste la percezione dei diritti dell’ "altro" detenuto, ma spesso su di essa prevale la paura del contagio e la percezione che il contagio possa dipendere anche dalla semplice convivenza permane in una quota non trascurabile sebbene non maggioritaria del campione intervistato.
Valutazione sui servizi informativi e medici ricevuti
Sono state poste alcune domande di valutazione relative alle domande precedenti su servizi informativi, test, cura e assistenza. Mediamente per ogni domanda il 15% "non sa valutate", percentuale che sale al 24-27% per le domande relative al trattamento delle persone con HIV/AIDS. Le informazioni ricevute in tema di HIV/Aids sono valutate del tutto insufficienti dal 34,5% del campione e scarse dal 19,7%. I molto soddisfatti sono l’1,1%, quelli soddisfatti il 3,9% e quelli discretamente soddisfatti il 10,0%. I test clinici sono stati richiesti in modo corretto secondo il 15,0% (discreto), per il 10,2% le modalità erano buone, per il 4,7% ottime. Del tutto insoddisfatto il 19,9% mediamente insoddisfatto il 12,5%. In relazione alle modalità di comunicazione dell’esito dei test, risultano insufficienti per il 20,8%, scarse per il 12,3%, discrete per il 12,7%, buone per il 9,6& e ottime per il 5,2%. Passando alla valutazione del trattamento sanitario per le persone HIV+, il 27,6% lo reputa scarso e il 16,0% insufficiente, mentre è discreto per il 7,3%, buono per il 2,8% e del tutto buono per l’1,1%. Nel complesso, il modo con cui vengono trattate in ambito penitenziario oscilla tra il 23,7% di "insufficiente" e il 18,9% di "scarso", solo lo 0,7% lo reputa ottimo, il 4,9% buono e l’8,1% discreto. Nel complesso il grado di soddisfazione del campione intervistato è basso: maggiormente per le informazioni (non) ricevute e mediamente per i test, mentre la percezione maggioritaria per quanto concerne le persone con HIV/AIDS è che non siano abbastanza prese in carico e adeguatamente trattate.
Informazioni e conoscenze in tema di HIV/AIDS
Questa sezione si propone specificamente di sondare le conoscenze in tema di HIV e AIDS dei detenuti intervistati. Sono state poste domande dirette su modalità di contagio, comportamenti a rischio, aspetti legali. Per cominciare, abbiamo chiesto un’autovalutazione sulla propria conoscenza in tema di HIV e malattie trasmissibili: il 32,45 pensa che sia discreta e il 19,2% buona, mentre si sente insufficiente il 13,2% e scarso il 16,9%. Sulla definizione di "AIDS" - a fronte di tre risposte chiuse - il 69,4% dà la risposta corretta, ma un 20% non risponde alla domanda e il 10,3% sbaglia risposta. Sulle vie di trasmissione, se tutti sono ferratissimi sulla via sessuale e sullo scambio di siringhe (segnalati dal 90,0% degli intervistati), molti hanno informazioni scorrette sui altre modalità: il 18,1% segnala i servizi igienici, il 28,5% le punture di insetto, il 17,7% l’uso comune di stoviglie. Solo il 59,0% conosce la trasmissione verticale madre-bambino. Con riferimento ai liquidi organici che veicolano il virus, il 21,8% segnala la saliva e il 6,8% il sudore, mentre sperma e secrezioni vaginali vengono segnalati rispettivamente dal 77,8% e dal 65,7%. Al quesito relativo al disinfettare un ago o una siringa le risposte segnalano una notevole incertezza: se il 76,4% indica la bollitura e il 31,6% l’uso di varechina, c’è anche chi predilige "sciacquare ripetutamente con acqua" (16,2%), "scaldare l’ago con l’accendino" (33,4%), "sciacquare con alcool" (28,9%). Ben 168 intervistati non rispondono alla domanda. Altrettanto imbarazzo crea la domanda sul "periodo finestra" (tre risposte chiuse): sono in 234 a non rispondere, il 16,5% afferma che è il periodo in cui non si trasmette il virus e il 10,1% che è il periodo in cui ci si può ancora "negativizzare". La risposta corretta riguarda il 44,5% degli intervistati. Sulle precauzioni che due persone con HIV dovrebbero prendere per tutelare la loro salute, il 33,9% pensa che non ne debbano prendere alcuna nel rapporto sessuale e il 23,5% dove che possono usare la stessa siringa. Ma il 77,7% dice che è meglio usare precauzioni per non passarsi diverse infezioni e il 61,1% sceglie la risposta che sottolinea l’esistenza di ceppi diversi del virus. Infine, per quanto concerne le norme legali, la confusione è notevole: ben il 68,3% pensa sia un obbligo di legge comunicare il proprio stato sierologico al partner e, per il 33,2% al datore di lavoro. Il diritto all’anonimato è sancito solo per il 54,5%, mentre il test è reputato obbligatorio all’interno di istituzioni (caserme carceri ecc) per il 40%, e nel caso di attività lavorative che hanno a che fare con il cibo nel 60,1% dei casi
Mappa dei bisogni informativi e di prevenzione
L’ultima sezione del questionario richiede espressamente una valutazione sui più importanti bisogni informativi e un’indicazione sul "che fare" in ambito penitenziario. La sessualità è l’argomento che maggiormente si vorrebbe trattare (il 60,1% dei casi, il 21.9% delle risposte), seguita da approfondimenti sulle vie di trasmissione (53,9% - 19,6%), la prevenzione dei rischi correlati all’uso di droghe (44,3% - 16,1%), il diritto alla cura (38,6% - 14,1%), gli aspetti normativi (23,6% - 8,6%). Concretamente, per la prevenzione in carcere si dovrebbe (percentuale dei casi - percentuale delle risposte): distribuire materiali informativi (61,3% -22,4%), organizzare gruppi di discussione (38,0% - 13,8%), avere più colloqui con gli operatori (28,9% - 10,5%), avere colloqui con medici e infermieri e migliorare l’igiene (entrambi il 26,1% dei casi e il 9,5% delle risposte), mentre chiede accesso a disinfettanti il 20,4% (il 7,4% delle risposte). Il 22,1% suggerisce di separare le persone con HIV/AIDS (l’8,0% delle risposte). Il 2,4% chiede aghi e siringhe e preservativi. Infine, in favore delle persone con HIV, le iniziative maggiormente richieste sono state (percentuale dei casi - percentuale delle risposte): garantire loro le terapie (59,4% - 21,0%); facilitare le scarcerazioni (56,9%- 20,1%); facilitare i ricoveri in ospedale (41,3% - 14,6%); migliorare l’assistenza medica (33,1% - 11,7%); organizzare gruppi di auto-aiuto (27,6% - 9,7%); migliorare le condizioni di carcerazione (24,6% - 8,7%).
Osservazioni sulla base di incroci tra alcune variabili
Attraverso l’incrocio di alcune variabili emerge qualche informazione ulteriore. Su possibili correlazioni tra le informazioni ricevute - e le modalità di offerta delle informazioni - e le conoscenze in possesso degli intervistati. Considerando due delle risposte alle domande della sezione sulle conoscenze su HIV/AIDS, emerge per esempio che tra coloro che danno la giusta definizione di "AIDS", il 43,6% ha avuto almeno una volta una consulenza dal medico penitenziario, il 22,3% da un volontario, solo il 4,3% da un operatore penitenziario, il 7,4% da un lavoro di gruppo tra detenuti e operatori e ben il 22,2% da altri detenuti. Per quanto concerne una domanda non delle più ovvie (che cos’è il "periodo finestra"), tra coloro che danno la giusta definizione il 43,1% ha avuto un colloquio con il medico, il 26,2% con un volontario, il 3,1% con un operatore penitenziario, il 6,2% ha avuto l’occasione di fare un lavoro di gruppo e il 18,5% ne ha avuto informazioni di altri detenuti. Se consideriamo invece la percezione soggettiva relativa al proprio grado di conoscenza, vediamo che tra tutti coloro che hanno ricevuto la consulenza del medico, solo il 9,8% lo reputa insufficiente, a fronte del 18 di chi ha parlato con un volontario e il 15% di chi me ha discusso con altri detenuti. La conoscenza è valutata discreta e buona rispettivamente dal 23,5% e 27,5% di chi ha parlato con un medico, il 33,3% e il 22,2% di chi ha avuto al consulenza di un volontario e il 30,4% per entrambe le valutazioni tra chi ne ha parlato in cella. Per quanto riguarda il rapporto con operatori penitenziari, le risposte "discreta" e "buona" conoscenza riguardano rispettivamente il 3% e il 12,5% di coloro che li hanno consultati. Le percentuali - che pure vanno interpretate con cautela - possono suggerire non solo la correlazione tra livello informativo e possibilità di ricevere una consulenza, ma anche che alcune figure - forse anche per la specificità del contesto relazionale oltre che per le specifiche abilità di counsellor - riescono a comunicare più efficacemente. La relativa autonomia del volontario rispetto alla struttura e il patto di confidenzialità con il medico, che lo tutela per certi versi dalla tradizionale "invasività panottica" del carcere, sono fattori che possono incidere positivamente sulla comunicazione e sul suo esito. Allo stesso modo, la comunicazione tra pari - a prescindere dal livello di abilità e conoscenza dei singoli - suggerisce una modalità comunicativa, orizzontale, empatica e fatta di condivisione di esperienze oltre che di "nozioni", capace di aumentare il livello di ricezione delle informazioni ricevute in un contesto che è di scambio e non di ascolto passivo. Passando al tema dei bisogni informativi, confrontando la valutazione soggettiva dei propri livelli di conoscenza in tema di AIDS, si può osservare che tra coloro che si reputano insufficientemente informati, la domanda di informazione riguarda soprattutto la prevenzione del contagio per via sessuale e informazioni di base sul contagio (il 57,1% e il 55,1%), seguita da informazioni sul contagio attraverso uso iniettivo di droghe (45,9%) e per via trasfusionale (26,5%). Tra coloro che si reputano ben informati o anche ottimamente informati, la percentuale che richiede informazioni di base è molto elevata: il 61,1% sulla sessualità e il 52% sulla trasmissione in generale, mentre sono basse le percentuali di chi vuole essere informato su aspetti meno generali, di approfondimento, su cui il questionario ha messo in evidenza le maggiori lacune (gli aspetti normativi e sulla privacy, per esempio, con il 27%). Se analizziamo le percentuali di chi afferma di avere gradi diversi di conoscenza e chiede informazioni di base, vediamo che non ci sono differenze così significative tra chi dice di saperne molto e chi dice di saperne poco. Si può pensare a una generalizzata sopravvalutazione delle proprie conoscenze, di una sicurezza che - nel corso della compilazione del questionario, ha avuto modo di confrontarsi con qualche dato di realtà (tra l’affermazione sul proprio livello di conoscenza e la domanda di ulteriori informazioni c’è il piccolo test di verifica sulle conoscenze).
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