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Minori: la realtà catanese vista con gli occhi di una tirocinante di scienze dell’educazione di Federica Ripamonti
Riflessioni nate da un’esperienza vissuta in prima persona, come educatrice all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni "Bicocca" di Catania.
L’origine di questo lavoro deriva, quasi esclusivamente, dall’esperienza vissuta in prima persona all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni "Bicocca" di Catania per un periodo di quattro mesi in qualità di educatrice-tirocinante. L’iniziativa di voler svolgere il tirocinio in una struttura detentiva minorile del meridione è nata dalla curiosità e dall’interesse di voler comprendere a fondo quali fossero le cause e le profonde motivazioni alla base di questo allarmante tasso di criminalità minorile presente nel distretto catanese, che vede sempre più minorenni, esclusivamente del luogo, commettere reati, spesso per conto di organizzazioni criminali anche di stampo mafioso. Quest’esperienza mi ha consentito sia di instaurare rapporti pedagogicamente significativi con storie di vita molto difficili e per le quali spesso risultava particolarmente complesso scalfire una cultura di devianza ed intraprendere un percorso di ripresa, di evoluzione positiva, di crescita e di realizzazione personale del minore ristretto, sia di inserirmi e collaborare al lavoro d’equipe, interagendo con altre figure professionali presenti nella struttura penitenziaria, per la messa in atto di una progettazione educativa e di un piano trattamentale volti a costruire, in relazioni ai bisogni dell’utenza minorile, percorsi nei quali il giovane ristretto potesse trovare spazi educativi autentici per la ridefinizione della propria vita. La lettura approfondita dei fascicoli personali di un campione di circa 40 minori ristretti in quel periodo, la presenza alle riunioni d’equipe, dirette ad un’analisi e ad una riflessione sulla personalità di ciascun ragazzo, sul comportamento penitenziario, sul percorso trattamentale seguito dal giovane all’interno della struttura e sulle sue eventuali ed effettive possibilità di una stabilità lavorativa e familiare all’esterno e la partecipazione a momenti di incontro, di ascolto e di dialogo con i ragazzi stessi, sono state determinanti e indispensabili per permettermi di delineare un quadro complessivo delle cause che stanno alla base della multiproblematicità di molte delle loro storie di vita, storie di adolescenze nelle quali mancano punti di riferimento genitoriali, opportunità lavorative, un certo grado di scolarizzazione, strutture culturali, sociali e ricreative dove poter alimentare la curiosità del sapere e nutrire la gioia del gioco. La famiglia è l’agenzia primaria di educazione e formazione, luogo di aggregazione, crescita, sostegno e condivisione di problemi. È l’ambiente nel quale il bambino vive le sue prime esperienze, impara a controllare i propri impulsi, apprende le norme sociali di condotta e riceve una soddisfazione ed un sostegno per i suoi bisogni affettivi. Essa può divenire fattore potenziale di rischio di condotte trasgressive o di un’identità deviante del minore nel momento in cui assume uno stile di vita non ottimale ed incapace di adempiere al proprio ruolo, trovandosi in difficoltà a svolgere le funzioni connesse ai primi processi di socializzazione ed impedendo, quindi, la costruzione, la crescita e lo sviluppo di una soddisfacente identità personale e sociale del bambino. Sono per la maggior parte famiglie analfabete, incapaci di instaurare rapporti relazionali e comunicativi di dialogo e di ascolto, impegnate in lavori umili e precari o disoccupate, abitanti in zone nettamente separate rispetto al centro della città. Molto spesso i genitori, in questi casi, sono del tutto assenti perché assorbiti dai problemi della sopravvivenza quotidiana, alla ricerca di espedienti per procurarsi il necessario e "tirare avanti", anche nell’area dell’illegalità, o ai margini di essa. Questa realtà multiproblematica spinge, precocemente, questi ragazzi nel mercato del lavoro, il più delle volte non regolare, sottraendoli quindi alla scuola e proiettandoli in una spirale che spesso si conclude con una scelta delinquenziale, perché purtroppo la speranza che possano trovare un lavoro stabile viene raramente soddisfatta; in genere cominciano a lavorare con una sorta di apprendistato che si trasforma ben presto in un totale sfruttamento che porta questi giovani ad essere sottopagati, sfruttati e nell’impossibilità di acquisire ulteriori abilità o miglioramenti lavorativi. Ecco quindi che il minorenne inizia a delinquere già nell’adolescenza quando esordisce occupandosi soprattutto di scippi e piccoli furti, continua acquisendo via via sempre più esperienza in questo campo, approdando alla conclusione che il solo modo per acquisire riconoscimento e sicurezza economica consiste nell’entrare nel giro della criminalità organizzata. Sono determinati quartieri, socialmente deboli e culturalmente deprivati, che creano le premesse più favorevoli per un massiccio e veloce accrescimento di risorse umane disponibili per la criminalità organizzata; sono ragazzi desiderosi di uscire dalla condizione di marginalità e di mancanza di identità nella quale vivono, che vengono coinvolti, strumentalizzati e addestrati dalla mafia per fungere da manovali o da corrieri del crimine, per cifre, talvolta, ridicolamente basse: assistiamo così ad una serie di passaggi di ragazzi che dal contrabbando di sigarette e dallo spaccio di droga passano a reati contro il patrimonio (furti, furti aggravati, rapine, rapine aggravate, estorsione) fino alla commissione di veri e propri omicidi per regolamento di conti. Il ragazzino, ancora dodicenne, molto appetibile in quanto facilmente manipolabile e giuridicamente protetto in quanto non imputabile, finisce col mettere al servizio dell’organizzazione criminale le sue potenzialità e le sue competenze; una volta arruolato nel clan conquista quel riconoscimento delle sue capacità che gli sono state negate dalla società, e gli viene conferito un ruolo nel quale si identifica, perché sente finalmente di appartenere a qualcuno che gli da protezione, identità, sicurezza di un progetto e di un guadagno. Egli sa chi è, che cosa deve fare, ha chiari davanti a sé regole e confini, ricompense e punizioni per un eventuale "sgarro" e comprende che al vertice di tutte le regole c’è l’obbedienza cieca, assoluta, indiscussa che gli inibisce qualsiasi processo mentale critico nei riguardi dell’azione da compiere, la quale deve essere semplicemente eseguita secondo le modalità e i tempi imposti (l’agire è dovuto, il pensare è vietato). L’affermazione di questi potenti modelli propri della criminalità organizzata su questi ragazzi è dovuta soprattutto all’incapacità della scuola e dei referenti istituzionali sul territorio di proporre validi modelli alternativi, in grado di dare risposte in termini di appartenenza e di identità positive, che invece la criminalità organizzata offre seppure in negativo, di dare al minore opportunità di cambiamento in modo da apprendere altre regole di condotta, di attuare politiche di bonifica e di affermazione della legalità su un territorio lasciato invece ai tentacoli della criminalità organizzata. In questo panorama, quindi, uno dei fattori che concorrono a creare le condizioni di disagio e di emarginazione è, quindi, imputabile al fallimento della scuola, seconda agenzia di socializzazione e di educazione fondamentale per lo sviluppo e la crescita del minore. La scuola sostanzialmente è tutt’oggi selettiva, volta a informare più che a formare, con programmi improntati ad una didattica tradizionale non flessibile nei contenuti, la cui pretesa è che il ragazzo sia in grado di seguire e stare al passo con il programma, e rigidamente strutturata su modelli cognitivi comportamentali che non consentono a soggetti, che stanno sperimentando un proprio percorso di identificazione, di avere ritmi, modalità e riscontri, adeguati alle loro condizioni personali. La scuola ha il compito di assicurare a tutti gli alunni della classe, oltre all’apprendimento, un processo di integrazione e di socializzazione, ma, in questi casi, non è in grado di gestire il rapporto con il ragazzo "difficile", accogliendolo e aiutandolo a transitare verso l’anno successivo, finendo col provocare l’allontanamento e il conseguente abbandono della scuola da parte dell’alunno. Tale concetto è riassunto da Barbagli in un’affermazione: "se gli allievi provenienti dalle classi sociali subalterne hanno un cattivo rendimento scolastico non è soltanto perché sono culturalmente deprivati, ma perché questo è esattamente ciò che la scuola e gli insegnanti si aspettano da loro". (Scuola di Barbiana, lettera ad una professoressa: "la scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde"). Possiamo quindi affermare, in questi casi, che non sono i ragazzi ad abbandonare la scuola ma è essa stessa ad allontanarli, a non farsi carico dei loro problemi, a non decifrare i loro messaggi di aiuto e a non essere capace di cogliere il loro profondo, anche se nascosto, desiderio di appartenenza a quella struttura dalla quale si sentono progressivamente esclusi, come diversi ed indesiderati. Sta alla scuola, con il supporto delle risorse territoriali e di adeguate politiche educative, creare le condizioni o le precondizioni necessarie per garantire a tutti un percorso formativo qualitativamente valido, efficace ed efficiente, attivando una serie di strategie volte ad ovviare alle difficoltà e alle lacune individuali che i minori presentano facendo ingresso nella scuola, destinando risorse finanziarie ai meno abbienti ed applicando metodi didattici differenziati a favore di gruppi ed istituzioni scolastiche ubicate in aree o quartieri periferici svantaggiati e poveri, evitando, allo stesso tempo, di formare classi o scuole "ghetto". Dai dati statistici ufficiali del Ministero di Grazia e Giustizia, relativi alle entrate dei minori negli IPM d’Italia, emerge che sono proprio queste categorie di minori appartenenti alle regioni meridionali ad essere spesso presenti nel nostro sistema penale ed a non poter beneficiare in maniera significativa delle misure innovative previste dalla normativa (d.p.r. n. 448/88). Il sistema delle misure cautelari (prescrizioni, permanenza in casa, collocamento in comunità, custodia cautelare in carcere), come quello delle misure alternative (l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la liberazione condizionale, la liberazione anticipata), non sembrano sempre rispondere a un principio di equità di trattamento nei confronti dei minori distribuiti in tutte le classi sociali, permanendo aree giudiziarie in cui il ricorso al carcere sembra essere più frequente costituendo, molto spesso, l’unica risposta possibile per frenare la criminalità minorile, a causa, soprattutto, della mancanza di risorse esterne (programmi territoriali, enti locali, risorse del privato sociale, politiche e servizi sociali) in grado di affrontare e farsi carico del problema del disagio giovanile, e di predisporre di misure sostitutive alla carcerazione. Obiettivamente, però, la detenzione in carcere continua ad essere, nel distretto catanese, il provvedimento sanzionatorio maggiormente applicato per questa categoria di minorenni, autori di reati. In queste aree il carcere svolge il ruolo tradizionale che storicamente gli è stato affidato, ossia quello di strumento di contenimento di soggetti che provengono da realtà di emarginazione e povertà e di strumento simbolico di punizione nei confronti di piccoli criminali che suscitano paura e allarme sociale, al fine di allontanarli dalla società e proteggere i cittadini. Quindi spetta, principalmente, all’educatore penitenziario la presa in carico di questi soggetti ed il compito di progettare ed elaborare un percorso educativo capace di restituire al minore una visione positiva della propria persona, delle proprie attitudini e potenzialità, aiutandolo nel cammino verso il superamento di quelle condizioni negative che hanno facilitato il suo ingresso nel tunnel della devianza. A Bicocca la mafiosità è parte integrante di quasi tutta l’utenza minorile ristretta: i valori della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione sono il messaggio dominante ricevuto dai minori che dunque sono portati a identificare i loro idoli negativi proprio nel boss mafioso o nell’uomo d’onore del quartiere. L’educatore, partendo da una fase di ascolto e di dialogo, deve riuscire piano piano a coinvolgere il ragazzo nel progetto di recupero, valorizzando e potenziando le sue parti "buone", in modo che prevalgano su quelle "negative", nella speranza di riuscire ad attuare un miglioramento ed un cambiamento indispensabili per un’evoluzione positiva della personalità e della struttura psico-sociale del minorenne, per una condotta diversa e più funzionale alle regole della società, e per la costruzione di una nuova identità secondo i principi del rispetto della convivenza civile. Per impostare un’efficace politica di intervento su questi minori occorre necessariamente ricordare che la maggior parte di questi ha fatto ingresso nella criminalità organizzata perché alla ricerca di un’identità che la società non è stata in grado di riconoscere loro. È fondamentale che in carcere il progetto educativo, oltre a confermare le loro capacità di poter far bene e di poter realizzare qualcosa di positivo anche nella società civile, trasmetta a questi ragazzi la certezza che anche la nostra società può riconoscere loro un ruolo, e che dipende dalle loro capacità se quel ruolo sarà vincente, e che questa vittoria è l’unica autentica, perché fondata e costruita sulla libertà personale, precedentemente ad altri consegnata. L’educatore deve saper infondere a questi ragazzi l’esigenza, il valore e l’importanza di una cultura della legalità, base fondamentale di ogni attività e componente chiave della cultura di ciascun cittadino, facendogli introitare le regole della società civile e staccandolo dalle regole del contesto di sottocultura, in modo che una volta uscito dalla struttura penitenziaria non ricada nell’area dell’illegalità e della delinquenza, ma riesca a trovare un lavoro che gli dia un riconoscimento, in termini di denaro e di prodotto finito, e che gli ponga delle mete dando un significato al suo quotidiano e al suo futuro; altrimenti ogni progetto ed investimento saranno stati inutili perché il riassorbimento nell’ambiente sarà inevitabile, preparandogli un’esistenza fatta di continui ingressi in carcere. "Catania, capitale della criminalità, Catania città senza futuro, occorre una mobilitazione di tutti i settori, mass-media e istituzioni, per operare sul fronte minorile". Così scrive Titta Scidà, ex presidente del Tribunale dei Minorenni di Catania. La sua affermazione parla chiaro: fattori quali, l’abbandono dello Stato e la sua incapacità di dare risposte vincenti sulla mafiosità che si espande, le condizioni di miseria e sfruttamento, l’indifferenza e le carenze colpevoli delle amministrazioni locali, la crisi della scuola e dei processi di socializzazione, il fascino irresistibile della mafia....non consentono di offrire lavoro, educazione, protezione, assistenza e valori al giovane di un quartiere malfamato di una grande città come Catania; ciò ci induce a pensare quanto sia potente la malavita organizzata e quanto ragionevolmente potrà continuare ad esserlo ancora a lungo. In questo panorama è necessario soprattutto un intervento che deve innanzitutto affermare la legalità, tendere a recuperare il governo del territorio e a qualificare gli apparati di sicurezza. È necessario spezzare il circolo tra dispersione scolastica e lavoro minorile, sommerso e non tutelato, tra devianza minorile e criminalità organizzata, partendo da una strategia di prevenzione perché il recupero è troppe volte illusorio: è molto difficile convertire a un onesto lavoro un ragazzo che con lo spaccio di droga incassa una consistente cifra di euro al giorno ed ha già acquisito una sua identità di ruolo. C’è molta necessità di 1) prevenzione secondaria, essa diretta a favore di ragazzi definiti, secondo certi parametri, a rischio di devianza, e si concretizza nella messa appunto di strategie di intervento sul quartiere a sostegno della famiglia e del minore, nel presupposto che il rischio di devianza, quale presunta e potenziale pericolosità sociale, venga ridotto se sono disponibili sul territorio strutture di presa in carico delle difficoltà familiari e del disadattamento scolastico, attive nell’organizzazione del tempo libero e nella bonifica delle aree periferiche e se, soprattutto si predispongono e si offrono a questi giovani opportunità di apprendistato lavorativo e poi di lavoro. (progetti sostenuti dalla legge n. 216/91 dallo Stato); 2) prevenzione terziaria diretta a ridurre il rischio della recidiva e costituita dalle politiche amministrative e giudiziarie mirate ad evitare che un ragazzo che ha commesso un reato ricada nel delitto. I ragazzi ai quali è diretta sono, infatti, più duri, più adulti, meno permeabili agli stimoli che gli operatori esercitano; sono poco disponibili a farsi coinvolgere nel progetto di recupero; sono abituati alla privazione della libertà per essere stati più volte in carcere, per cui la reggono meglio; sono più sprezzanti e sfidanti. Perciò i programmi di prevenzione terziaria vanno impostati ed elaborati con molta attenzione per ottenere il coinvolgimento e, nel lungo periodo, il cambiamento nei ragazzi ai quali sono diretti. Spesso questi ragazzi fingono di collaborare con l’educatore e di accettarne gli orientamenti, perché sanno indossare bene la maschera utile a coprire la loro refrattarietà al cambiamento; sta all’operatore cercare di smascherarli, mettendoli a nudo per individuarne quell’elemento positivo sempre esistente in fondo ad ogni ragazzo sul quale far leva. Per questi ragazzi appare, talvolta, inevitabile l’allontanamento dal contesto inquinato, essendo necessario interrompere la relazione con i giovani criminali della zona, pur senza sradicarli completamente, cioè permettendo loro di mantenere i riferimenti affettivi con quelli tra i familiari che appaiono collaborativi con il progetto. Punto qualificante della strategia di recupero deve essere la conferma al ragazzo della sua capacità di poter far bene, di poter realizzare qualcosa di positivo anche nella società civile, che considera nemica. Questi ragazzi, che costituiscono lo zoccolo duro della criminalità minorile, saranno i delinquenti adulti di domani; quindi ogni intervento deve essere messo in atto per ridurre quel rischio. Ciò richiede investimenti nei progetti e, soprattutto, la convinzione che il successo è possibile, perché questi ragazzi non sono "delinquenti per definizione", ma è possibile attuare in essi un cambiamento per la costruzione di una nuova identità. La costruzione di identità richiede, come presupposto necessario nell’elaborazione dei progetti di prevenzione terziaria, la valorizzazione e il potenziamento delle "parti buone" della persona, in modo da suscitare una lotta interna all’individuo tra esse e le "parti cattive" (è poco produttivo investire le energie per cercare di distruggere le parti negative), dal cui esito dipende il successo del progetto. Il lavoro costituisce una delle opportunità più importanti e significative da offrire al minore che, per l’incapacità educative della famiglia e della scuola, rimane abbandonato nella strada, senza più difesa contro i tentacoli della mafia; il lavoro costituisce terreno fertile nel quale il giovane può finalmente radicarsi e costruire la nuova identità individuale e il suo ruolo sociale. Occorre, però, che muti completamente la situazione attuale, in cui il lavoro minorile è nero e sottopagato; infatti nel vissuto di un ragazzo che si è reso responsabile di un fatto delittuoso ci sono quasi sempre esperienze lavorative saltuarie, discontinue, sottopagate e non qualificanti. Un ragazzo in crescita è alla ricerca di un’identità, e il lavoro è in grado di conferirgli una ben precisa identità, perché dandogli un riconoscimento, anche in termini di denaro oltre che di prodotto finito, gli pone comunque degli obiettivi e delle mete, e da un significato al suo quotidiano, al suo futuro perché gli promette di fare progetti (es. laboratori di pittura, teatro, artigianali). La mancata occupazione, al contrario, è una prospettiva inquietante che crea sfiducia e disorientamento nei ragazzi e contribuisce a rafforzare la morale "del tutto e subito". Se il lavoro arriva in tempo prima che il boss del quartiere lo abbia valutato e gli abbia offerto un’opportunità, il ragazzo potrà essere sottratto all’area dell’illegalità e della delinquenza, perché potrà resistere alle lusinghe della malavita, essendo già iniziato in lui un processo di costruzione dell’identità secondo i principi del rispetto delle convivenza civile.
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