|
Pena, rieducazione e lavoro
Il punto della situazione Da sempre si è tentato di giustificare
l’impiego della pena individuando gli elementi che la rendono più adatta alle
esigenze di difesa sociale, in essa meglio rilevabili rispetto ad altre sanzioni
giuridiche; tali elementi sono: a) costante applicabilità;
b) possibilità, o maggiore possibilità,
di adattarsi alla pericolosità del delinquente;
c) capacità di rieducare o rendere
innocuo il delinquente;
d) possibilità di essere più
fortemente sentita, costituendo valido deterrente.
Per quanto la pena sia uno dei
fenomeni più diffusi e costanti della vita sociale, ne è stata spesso
contestata la fondatezza da parte di pensatori e scienziati che l’hanno
definita ingiusta, inutile e persino dannosa. In proposito, oltre agli utopisti
Tommaso Moro e Tommaso Campanella, vanno ricordati parecchi teorici
dell’anarchismo, tra cui primeggia la figura di Leone Tolstoj, e soprattutto
alcuni grandi sociologi e criminalisti: Girardin, Ferri, Wargha, Montero, etc.
Questi ultimi, partendo da una concezione ottimistica della vita umana, hanno
sostenuto che un’opera di prevenzione largamente e sapientemente esercitata,
può rendere inutile la repressione dei delitti. Tutti però prescindono da un
fatto di importanza capitale, e cioè che la tendenza al delitto non è
circoscritta ad una particolare categoria di individui, come nelle tesi di
Cesare Lombroso, ma ha un carattere generalissimo.
La tendenza al delitto, la capacità a
delinquere, in misura maggiore o minore esiste in forma più o meno latente in
quasi tutti gli uomini. Sorge la necessità di un opposizione a tale
propensione, individuata in una sofferenza, e il castigo diviene pertanto lo
strumento (l'unico) capace di trattenere gli uomini dal commettere i delitti.
In
realtà, a tale risultato, indubbiamente, contribuiscono anche altri fattori: i
sentimenti morali e sociali, il senso del dovere, dell’onore e della dignità
personale, l’influenza dell’opinione pubblica, le credenze religiose, etc.
(etica personale e solidarietà sociale), l’intervento educativo della scuola
e la capacità formativa di ogni situazione aggregante, ivi comprese quelle
lavorative.
Le
funzioni della pena
Per funzione della pena si intende
l’efficacia di essa, ossia l’insieme degli effetti che produce e in vista
dei quali è adottata dallo Stato.
Molte sono le teorie elaborate da
illustri filosofi e giuristi per definire la funzione della pena.
Le finalità della pena sopra descritte
sono evidentemente basate su presupposti diversi;
per garantire l’efficacia della pena è necessario che esse non siano in
conflitto.
Le teorie
più moderne, che ambiscono ad avere un fondamento giustificato di tipo
scientistico, individuano la legittimazione delle funzioni della pena non tanto
su basi ideologiche, per di più esterne all’ordinamento giuridico, quanto
nella misura in cui la sanzione è capace di perseguire gli obiettivi di
prevenzione e di controllo delle condotte umane che le vengono assegnati.
Soprattutto in relazione alla prevenzione speciale l’effettività della pena
rimane tuttora una realtà indimostrata, e non può certo oggettivamente
affermarsi che il nostro sistema “migliori”
sia la società tutta, sia il colpevole.
Sembra che dal punto di vista
legalistico (Bentham) la carcerazione rappresenti l’unica forma di pena
politicamente corretta, mentre altri studiosi che seguono il pensiero di
Beccaria, come lui ritengono la carcerazione una pena irrazionale, priva di
principi e inumana per l’intera società. Inoltre, “il tasso di recidivismo
indica che la permanenza in prigione fa dei disadattati, esacerbando, quindi il
problema del delitto”.
Un detenuto rilasciato non solo non
sembra “rieducato” ma non mostra quali possono essere gli effetti della sua
pena sul resto della popolazione. L’obiettivo dichiarato dal carcere non
corrisponde ai suoi effetti risultati, esso può essere descritto non tanto
sulla base dei suoi successi, quanto su quella delle sue limitazioni: la
limitazione della libertà dell’individuo, la coercizione di vita in un
ambiente residenziale sgradevole, e promotore di nuova criminalità.
La
risocializzazione del condannato
E’ oggi, quindi del tutto evidente che
la pena non possa più essere considerata come un semplice castigo; emblematico
in questo senso l’art. 27 della nostra Costituzione in cui è sancito il
principio per cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Con
riferimento all’Ordinamento italiano, l’Art. 27 della Costituzione, il quale
prevede espressamente il trattamento inteso come un programma correzionale, che
prenda inizio con la pronuncia della sentenza di condanna e raggiunga il
completamento con la cessazione d’ogni controllo, ha trovato attuazione con la riforma penitenziaria del 1975.
Con la
legge 26 luglio 1975, n. 354 l’amministrazione penitenziaria è venuta ad
acquisire l’indispensabile strumento normativo per adeguarsi ai precetti
costituzionali dell’umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo per
i condannati.
Per la
prima volta la materia penitenziaria è stata
disciplinata con legge invece che con atti amministrativi di carattere generale.
La Legge 354/75 mostra l’evidente
sfavore verso la completa esecuzione della pena inframuraria, ed introduce la
possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione, in pratica
sancendo la fine del principio assoluto di intangibilità della sentenza di
condanna.
Misure alternative alla pena
detentiva
Il principio della funzione rieducativa
della pena ha ispirato l’introduzione nel nostro ordinamento delle Misure
alternative alla detenzione, le quali, sostituendosi alle pene detentive ed
abituando il condannato alla vita di relazione, rendono più efficace l’opera
di risocializzazione. Ricordiamole brevemente.
Affidamento
in prova al servizio sociale
“Il condannato a pena detentiva non
superiore a tre anni ed al quale non sia stata applicata una misura di sicurezza
può essere affidato al servizio sociale” per un periodo di prova, può essere
quindi posto al di fuori dell’istituto di pena per tutta la durata della pena
ancora da scontare, salvo, naturalmente la revoca della misura. I presupposti
per ottenere tale beneficio consistono in pratica dopo l'introduzione della L.
Simeone (n. 165/98), nella durata
della pena: quest’ultima non deve superare i tre anni.
E’
inoltre necessario che, dopo un periodo di osservazione della personalità di
mesi uno, le prescrizioni, che l’affidato deve osservare nel corso della
misura, siano sufficienti alla sua rieducazione e a prevenire una sua ricaduta
nel reato. Competente per la concessione dell’affidamento in prova al servizio
sociale è il Tribunale di Sorveglianza. All’affidato vengono imposte delle
prescrizioni che ne agevolano l’inserimento nella società: svolgere attività
lavorativa che dia sufficiente garanzia, non avere rapporti personali che
possano occasionare il compimento di reati, dimorare o meno in certi luoghi,
adoperarsi in favore della vittima del suo delitto. Il servizio sociale
controlla il comportamento del soggetto e lo aiuta nel reinserimento nella vita
sociale, riferendo periodicamente al giudice di sorveglianza. L’affidamento
viene revocato ogni qualvolta il comportamento dell’affidato appaia
incompatibile con la prosecuzione della prova; al contrario il periodo di prova
che ha esito positivo estingue la pena ed ogni altro effetto penale.
Una figura specifica di affidamento
in prova è quello che si applica in casi particolari, disciplinato dall’art.
94 del D.P.R. 9-10-1990, n.309 (così come modificato dalla L. 14-07-1993, n.222
e definitivamente consacrato dalla Simeone ): si tratta dell’affidamento in
prova relativo a condannati tossicodipendenti che abbiano in corso o intendano
sottoporsi ad un programma di recupero.. Costoro possono chiedere in ogni
momento di essere affidati in prova al servizio sociale qualora la pena
detentiva loro inflitta o ancora da scontare non superi i 4 anni, e purché
abbiano in corso o intendano intraprendere un programma riabilitativo, la cui
sussistenza ed idoneità deve essere accertata e certificata dal servizio
pubblico per le tossicodipendenze.
SemilibertàLa riforma del 1986 puntava a rimuovere
una palese incoerenza prospettatasi nell’esperienza applicativa; la
giurisprudenza infatti esigeva, ai fini dell’applicazione della misura, che il
condannato avesse iniziato l’esecuzione della pena al momento dell’istanza:
la necessità di non interrompere un percorso rieducativo già avviato in sede
extramuraria condusse all’introduzione di una modalità di accesso alla
semilibertà che prescindeva dalla instaurazione della detenzione. Ispirato
all’analoga soluzione adottata in tema di affidamento in prova, il dettato del
comma 6 dell’art.50 ord. penit. prevedeva che la semilibertà per le pene non
superiore a sei mesi potesse essere “altresì disposta” prima dell’inizio
dell’esecuzione qualora il condannato avesse dimostrato la propria “volontà
di reinserimento nella vita sociale”; la semilibertà per pene non superiore a
sei mesi si presenta quindi sotto una veste anomala, innestata sul ceppo della
figura madre destinata ai condannati a pene medio-lunghe. Ma la semilibertà
“ordinaria” svolge funzioni transitorie tra il regime di piena detenzione e
la scarcerazione finale, che la tipologia riformata non possiede.
La semilibertà ordinaria è concessa
sulla base dei progressi compiuti durante il trattamento, ed è finalizzata a
facilitare il graduale reinserimento sociale del soggetto.
La disciplina della semilibertà prevede
che i condannati alla pena dell’arresto di qualunque entità o della
reclusione non superiore a sei mesi possano essere ammessi a trascorrere parte
del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative,
istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Il limite dei sei mesi
suddetto vale solo per la reclusione, per cui i condannati all’arresto possono
sempre essere ammessi a godere della semilibertà. Nel caso di pena detentiva
superiore ai sei mesi al detenuto è concesso il beneficio solo dopo aver
scontato metà della pena o due
terzi nei casi dei reati di maggior allarme sociale. La semilibertà è concessa
dal Tribunale di sorveglianza, ed è revocata se il condannato si dimostra
inidoneo al trattamento, ovvero se il condannato rimane assente dall’istituto
per più di dodici ore o non vi faccia rientro. Con la L.356/92 recante
“Provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” si è posto il
divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione (tra cui la
semilibertà) ai soggetti che abbiano riportato condanna per alcuni tipi di
reato: associazione di stampo mafioso o finalizzata allo spaccio di
stupefacenti, sequestro di persona con finalità di rapina o di estorsione, etc.
La concessione è, tuttavia, ammessa allorquando il condannato svolga attività
di collaborazione con la giustizia e non vi siano a suo carico elementi tali da
lasciar presumere attuali collegamenti con la criminalità organizzata.
Liberazione
anticipata
La liberazione anticipata consiste in
una riduzione di pena di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di
detenzione scontata, concessa a quei condannati a pena detentiva che abbiano
fornito prova di partecipazione all’opera di rieducazione. E’ necessario
ricordare che l’articolo 54 ord. penit. è stato oggetto di un intervento
della Corte costituzionale, la quale lo ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo relativamente alla parte in cui non consentiva la concessione della
liberazione anticipata ai condannati all’ergastolo. Nel computo del tempo è
valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare a detenzione
domiciliare.
La finalità principale dell’istituto
consiste nel rendere più efficace il reinserimento del condannato nella società;
la prospettiva di ricevere tale beneficio costituisce un incentivo per il
condannato a collaborare attivamente all’opera di rieducazione.
Detenzione domiciliare
Si tratta di una forma di espiazione
della pena presso la propria abitazione. La pena della reclusione non superiore
ai quattro anni e la pena dell’arresto possono essere scontate anche nella p
|
puntualità;
| |
conoscenza,
utilizzo e manutenzione delle attrezzature usate;
| |
tenuta dei ritmi di lavoro;
| |
continuità durante la giornata e la settimana;
| |
capacità
di organizzare fasi lavorative di piccola e media difficoltà;
| |
ordine e pulizia personale;
| |
modalità
di relazionarsi con i compagni, con gli operatori e con il
coordinatore/responsabile di settore.
|
Non deve spaventare il rischio di recidiva: assai di più faccia paura, e stimoli di conseguenza il cooperatore, l'incapacità a comunicare e relazionare con la persona condannata; se ciò dovesse accadere ogni lavoro offerto, seppur positivo ed appagante, risulterebbe mero veicolo di transizione fra l'uscita dal carcere e il prossimo rientro.