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Il lavoro nel quadro della normativa penale e penitenziaria di Fabio Fiorentin
Il lavoro costituisce uno strumento fondamentale per l’attuazione degli scopi rieducativi che il trattamento penitenziario e – più in generale – la pena dovrebbe perseguire con l’obiettivo della risocializzazione del reo (art. 27 Cost.). Le principali disposizioni che si rinvengono nell’ordinamento dedicate al tema del lavoro, strutturato sia quale vera e propria pena, ovvero come alternativo ad essa o quale elemento del trattamento svolto all’interno degli istituti penitenziari in concomitanza con l’esecuzione della pena detentiva, si articolano principalmente lungo tre direttrici primarie. La
prima e più risalente nel tempo è la disciplina del lavoro, intramurario ed
esterno, all’istituto penitenziario, quale dettata dalla legge n. 354 del 26
luglio 1975 (c.d. Ordinamento Penitenziario) e dal correlato regolamento
attuativo (ora, D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, c.d. R.O.P.). Numerose
sono le disposizioni, tanto della legge n. 354/75, quanto del R.O.P. che
prendono in considerazione e disciplinano l’attività lavorativa dei detenuti,
ed anche alcune Regioni hanno legiferato in materia di lavoro penitenziario, con
la previsione di agevolazioni ed incentivi in favore dei datori di lavoro
- pubblici o privati - che assumano alle proprie dipendenze lavoratori
detenuti. Per gli imputati, il lavoro può essere svolto nei modi e termini tali da risultare compatibili con le esigenze giudiziarie connesse alla loro posizione giuridica. Elemento
comune alle due categorie di reclusi è la volontarietà del lavoro, non essendo
concepibile, in un’ottica trattamentale e rieducativa (che, per essere
genuina, deve fondarsi sulla libera e consapevole adesione degli interessati)
alcuna ipotesi di lavoro coattivo o forzato. Il lavoro penitenziario si distingue in lavoro prestato all’interno della struttura penitenziaria (ovvero nel limite del terreno demaniale di immediata prossimità) e lavoro esterno al carcere. Del tutto peculiare, come già ricordato, dal momento che non costituisce strumento trattamentale e risocializzante ma ha carattere di vera e propria modalità di esecuzione della pena sostitutiva alla detenzione, è l’istituto del lavoro sostitutivo disciplinato dagli artt. 102 e 105 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
2. Il lavoro all’interno dell’istituto penitenziario
Al lavoro interno sono dedicati gli articoli 20 e 20bis della legge n. 354/75 e gli articoli 47, 49, 50, 51, 52, 53 del R.O.P. Dall’esame delle citate norme è possibile enucleare i seguenti principi guida che informano il lavoro intramurario:
Quale parte integrante del trattamento rieducativo, il lavoro deve costituire un’opportunità di crescita professionale e preparare alla riammissione nella società libera e non costituire un’aggravante della pena da espiare. Il lavoro deve pertanto essere adeguatamente remunerato. Il lavoro penitenziario deve inoltre rispettare i principi posti dall’art. 36 della Costituzione in materia di proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato,durata massima della giornata lavorativa, riposo settimanale, ferie annuali retribuite;
Volontarietà: L’art. 20 O.P. limita l’obbligatorietà del lavoro ai condannati ed ai soggetti sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro (in tali casi, però, l’attività lavorativa non costituisce un elemento trattamentale ma è parte essenziale e costitutiva della stessa misura di sicurezza). Tuttavia, detenuti e internati che mostrino attitudini artigianali, culturali o artistiche possono essere esonerati dal lavoro ordinario per essere ammessi ad esercitare attività più confacenti alle predette attitudini(art. 51 R.O.P.). Sul carattere obbligatorio del lavoro penitenziario per i soggetti di cui all’art. 20 comma 3 O.P., la dottrina si è divisa fra quanti la ritengono sussistente, ma confliggente con i principi costituzionali di non afflittività della pena (PERA) e quanti propongono una lettura dell’obbligatorietà del lavoro intramurario quale direttiva rivolta tanto ai detenuti quanto alla stessa amministrazione penitenziaria (FASSONE), di tal che dalla norma citata deriverebbe una serie di diritti in capo ai detenuti, ivi compreso quello ad una giusta retribuzione (BELLOMIA). Invero, una lettura logico-sistematica della disposizione dell’art. 20 comma 3 O.P. porta ad escludere che nei confronti dei reclusi vi sia un obbligo di prestare attività lavorativa: che si porrebbe, come già rilevato, in insanabile contrasto con il principio di non afflittività della condanna e con le finalità rieducative della stessa sanciti dall’art. 27 comma 3 della Costituzione. Peraltro, non può sottacersi che il rifiuto immotivato da parte del condannato di prestare l’attività lavorativa che gli venga offerta, o il negligente espletamento della stessa può essere valutato tanto in sede disciplinare da parte della direzione e del consiglio di disciplina dell’istituto penitenziario (art. 53 e 77 R.O.P.) quanto in sede di valutazione della partecipazione all’opera di rieducazione ai fini della concessione della liberazione anticipata (art. 54 O.P.) o delle misure alternative alla detenzione (es. art. 50 O.P.). Non può, d’altro canto nemmeno configurarsi un diritto assoluto dei detenuti al lavoro intramurario, bensì una mera aspettativa che rimane subordinata all’effettiva disponibilità di posti, al rispetto delle graduatorie e – nel caso di soggetti sottoposti a misure cautelari personali – alle esigenze medesime ed alle cautele connesse. Per i soggetti sottoposti alle misure di sicurezza della casa di cura e custodia e dell’ospedale psichiatrico giudiziario il lavoro è ammesso in quanto possa esplicare efficacia terapeutica;
Modalità organizzative, tecniche e metodologie del lavoro penitenziario devono riflettere quanto più possibile le condizioni di lavoro della realtà esterna per preparare il detenuto al reingresso nella società;
Per favorire la massima partecipazione dei detenuti all’attività di lavoro intramuraria (normalmente assai ridotta quanto a disponibilità) deve osservarsi un sistema di graduatorie su parametri prefissati dalla legge (art. 20 comma 6 O.P.: es. anzianità di disoccupazione, carichi familiari, etc.). Del tutto inattuato è rimasto, invece, l’ottavo comma dell’art. 20 O.P. che disciplina la formazione e il funzionamento della commissione per la formazione delle graduatorie all’interno delle liste formate con i nominativi dei detenuti, con il risultato che, di fatto, la graduatoria per l’ammissione dei detenuti al lavoro intramurario viene gestita con criteri altamente discrezionali da parte della direzione dell’istituto penitenziario, ciò che, unitamente alla scarsità di posti di lavoro disponibili, contribuisce ad allontanare il lavoro penitenziario da quegli obiettivi trattamentali di rieducazione per il quale era stato in origine pensato. Evidentemente conscio del problema, il legislatore del R.O.P. ha stabilito che "il direttore dell’istituto assicura imparzialità e trasparenza nelle assegnazioni al lavoro avvalendosi anche del gruppo osservazione e trattamento" (art. 49 R.O.P.). E’ possibile che l’amministrazione penitenziaria, attraverso convenzioni con imprese pubbliche o private, promuova la sperimentazione di nuove lavorazioni, la vendita di prodotti del lavoro penitenziario, il tirocinio e la formazione professionale dei detenuti (art. 20 bis O.P.). Particolarmente favorito è lo strumento delle cooperative sociali che operano all’interno del carcere(art. 47 R.O.P.), che appare in grado di garantire un inserimento lavorativo meno aleatorio ed effimero di quanto non accada nell’ordinarietà dei casi: il detenuto è assunto quale socio-lavoratore e può mantenere l’impiego anche successivamente all’espiazione della pena, argine temporale che spesso coincide con la perdita del lavoro, compromettendo spesso irreparabilmente le prospettive di reinserimento sociale degli ex detenuti. I posti di lavoro a disposizione della popolazione detenuta di ciascun istituto sono stabiliti dalla direzione in una tabella che viene approvata dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria (art. 47 R.O.P.). Nel lavoro interno al carcere devono comprendere anche i c.d. servizi d’istituto, cioè le attività dirette ad assicurare la funzionalità e l’igiene delle sezioni (es. pulizia , mensa, etc.). L’esclusione dall’attività lavorativa viene disposta dalla direzione dell’istituto nei casi di cui all’art. 53 R.O.P. ed ha natura sostanzialmente disciplinare. Tale provvedimento concorrerà,inoltre, a fornire elementi al giudice di sorveglianza al fine di valutare la partecipazione del detenuto all’opera di rieducazione in rapporto all’istanza di liberazione anticipata (art. 54 O.P.).
3. Il lavoro nell’ambiente libero
Caratteri
del tutto peculiari – che avvicinano l’istituto alle misura alternative alla
detenzione, spesso costituendone una gradata premessa - assume il lavoro
all’esterno dell’istituto penitenziario, disciplinato dall’art. 21 O.P. e
dall’art. 48 R.O.P. Ulteriore elemento differenziale rispetto al lavoro penitenziario intramurario è costituito dalla giurisdizionalizzazione della procedura di ammissione, con il vaglio preventivo di esecutività costituito dall’approvazione dell’autorità giudiziaria competente (imputati) o del magistrato di sorveglianza (condannati e internati). Non vi sono limiti specifici al tipo di attività che può formare oggetto del lavoro all’esterno, potendo essere costituita da mansioni svolte a titolo di lavoro autonomo ovvero dipendente da datori di lavoro privati o da imprese pubbliche. Il provvedimento di ammissione del detenuto al lavoro all’esterno appartiene alla competenza della direzione dell’istituto (che deve predisporre altresì, nel caso non sia prevista la scorta, le prescrizioni cui il detenuto si dovrà attenere), ma diviene esecutivo dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza. Deve ritenersi che la disamina preliminare a detta approvazione involga non soltanto i profili di stretta legittimità del provvedimento della direzione, ma investa il merito stesso dell’atto, e,dunque, l’opportunità dell’ammissione al lavoro esterno.
Quanto ai primi, deve essere verificata:
Nell’esame
dell’opportunità del provvedimento ammissivo al lavoro all’esterno, il
magistrato di sorveglianza (o l’autorità giudiziaria competente, nel caso di
imputato) dovrà tenere conto degli elementi indicati nell’art. 48 comma 4
O.P. e cioè: del tipo di reato commesso; della durata della pena;
dell’esigenza specialpreventiva di evitare il pericolo che il soggetto
commetta nuovi reati. E’ ben evidente l’affinità con i profili valutativi
connessi alla concessione delle misure alternative alla detenzione, tanto che
alcuni autori parlano apertamente di un progressivo spostamento del lavoro
all’esterno dall’area del trattamento penitenziario a quello delle misure
alternative alla detenzione (PETRINI). Controversa è l’impugnabilità dei provvedimenti (che prendono la forma di decreti) dell’autorità giudiziaria in materia di lavoro all’esterno. La dottrina infatti perlopiù ne ammette il ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., mentre la giurisprudenza di legittimità ne ritiene per contro l’inammissibilità, sulla base della considerazione che non si tratta di provvedimenti che incidono sulla libertà personale. Strettamente connessa alla materia del lavoro penitenziario è la disciplina del profilo retributivo e, dunque, della remunerazione del lavoro penitenziario. Di tale aspetto si occupa l’art. 22 e 23 dell’O.P., mentre l’art. 24 prevede i casi di pignorabilità e sottoposizione a sequestro della remunerazione. Il R.O.P. detta norme in materia di prelievi sulla remunerazione (art. 56 R.O.P.). In via generale, può dirsi che la remunerazione del lavoro intramurario è prevista quale momento rieducativo e responsabilizzante per i detenuti (che possono amministrare la parte della remunerazione che, depurata dai prelievi di legge, va a formare il peculio del condannato: cfr. art. 25 O.P.) oltre ad essere elemento che conferisce dignità all’attività lavorativa stessa. La remunerazione non corrisponde ai salari previsti per la corrispondente figura professionale del mercato del lavoro libero, ma è stabilita in maniera equitativa ai sensi dell’art. 22 O.P., pur essendo agganciata ai C.C.L.N. nella misura in cui non può essere stabilita in misura inferiore ai due terzi del "minimo sindacale". Finora, la disposizione dell’art. 22 O.P. citata ha sempre superato il vaglio della Corte Costituzionale, che l’ha giudicata compatibile con il principio stabilito in materia retributiva dall’art. 36 Cost. Sulla remunerazione vengono effettuati i seguenti prelievi:
In
ogni caso deve essere riservata al detenuto almeno il terzo della remunerazione
(art. 145 c.p.).
4. Il lavoro sostitutivo nella legge di depenalizzazione
Come già anticipato, caratteri del tutto peculiari riveste l’istituto del lavoro sostitutivo, disciplinato nell’ambito delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689. L’impianto sistematico della citata legge, precisamente, prevede quali pene sostitutive soltanto la libertà controllata, la semidetenzione e la pena pecuniaria (art. 53 L. 689/81). Il lavoro sostitutivo viene contemplato quale modalità alternativa di espiazione della pena soltanto nel caso di conversione della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato. L’art. 102 L. 689/81 stabilisce infatti che "Nel caso in cui la pena pecuniaria da convertire non sia superiore ad un milione (di lire n.d.a.) la stessa può essere convertita, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo. Il ragguaglio ha luogo calcolando venticinquemila lire, o frazione di venticinquemila lire, di pena pecuniaria per un giorno di libertà controllata e cinquantamila lire, o frazione di cinquantamila lire per un giorno di lavoro sostitutivo". Il legislatore, pur nella consapevolezza del maggior carattere risocializzante del lavoro sostitutivo rispetto alla libertà controllata (evidenziato, peraltro, dal rapporto esistente nell’originaria formulazione dell’art. 102 L. 689/81, sopra riportata, che faceva valere un giorno di lavoro sostitutivo, ai fini del ragguaglio con la pena pecuniaria non eseguita, come due giorni di libertà controllata), non ha ritenuto di rendere obbligatorio il ricorso a tale strumento, lasciando all’iniziativa dell’interessato l’eventuale istanza nel senso indicato dalla norma citata, che deve essere rivolta al giudice dell’ esecuzione, secondo quanto dispone l’art. 237 (L) del Testo Unico in materia di spese di giustizia (D.P.R. 113, 114 e 115 del 30 maggio 2002. Il giudice, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, può decidere, in rapporto alla richiesta del condannato di essere ammesso la lavoro sostitutivo, con discrezionalità vincolata, nel senso che, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge, è tenuto a disporre l’applicazione della misura del lavoro sostitutivo. Il contenuto sostanziale del lavoro sostitutivo è illustrato dalla previsione dell’art. 105 della L. 689/81: esso consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti, organizzazioni o corpi di assistenza, di istruzione, di protezione civile e di tutela dell’ambiente naturale o di incremento del patrimonio forestale, previa stipulazione, ove occorra, di speciali convenzioni da parte del Ministero della giustizia, che può delegarvi il magistrato di sorveglianza (ora giudice dell’esecuzione). L’attività lavorativa deve svolgersi nell’ambito della provincia in cui il condannato risiede, per una giornata lavorativa alla settimana, salvo che il condannato chieda di essere ammesso ad una maggiore frequenza settimanale. Si tratta di un istituto, quello del lavoro sostitutivo, sostanzialmente disapplicato nella pratica, poiché i condannati optano nella grande maggioranza dei casi per la più comoda espiazione della pena nel blando regime di restrizioni previsto per la libertà controllata,e per le difficoltà operative connesse alla mancata stipula delle convenzioni con gli enti sopra indicati, che ha di fatto, reso non operativo lo strumento sostitutivo in esame. Nella prassi, infatti,si sono avute notevoli difficoltà ad avviare la fase contrattuale con gli enti indicati dall’art. 105 L. 689/81 utilizzando gli schemi di convenzione trasmessi dal Ministero sulla base della delega ai magistrati di sorveglianza.
5. Il lavoro di pubblica utilità nella competenza del giudice di pace
Con il D.L.vo 28 agosto 2000, n. 274, recante "Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n.468", il legislatore ha introdotto, con riferimento ai reati di competenza del giudice di pace, il lavoro di pubblica utilità strutturato quale vera e propria pena principale, oltre che quale sanzione sostitutiva nel caso di conversione delle pene pecuniarie ineseguite per insolvibilità. A somiglianza del lavoro sostitutivo, anche il lavoro di pubblica utilità può essere applicato soltanto su istanza dell’interessato. Gli elementi di affinità si arrestano tuttavia a questo punto, poiché la nuova sanzione differisce dall’istituto dell’art. 102 L. 689/81 tanto sotto il profilo del contenuto, quanto delle modalità di esecuzione, quanto ancora per il criterio di ragguaglio con il corrispondente periodo di pena detentiva e pecuniaria in caso di mancato pagamento della stessa. Precisamente, l’art. 52 del citato D.L.vo n. 274/00 stabilisce con articolata previsione, i casi in cui il giudice di pace può applicare il lavoro di pubblica utilità. Il seguente art. 54 prevede che tale pena possa essere irrogata soltanto su istanza dell’imputato. La
pena, che non può essere inferiore ai dieci giorni né superiore ai sei mesi,
consiste nella prestazione di un’attività non retribuita in favore dello
Stato, degli enti locali territoriali e degli altri enti od organizzazioni
indicati dalla norma, che sostanzialmente sono sovrapponibili all’elenco di
cui all’art. 105 L. 689/81. L’attività viene effettuata nell’ambito della
provincia di residenza, non può essere superiore quantitativamente alle sei ore
settimanali (salva espressa richiesta dell’interessato ad essere ammesso ad
una frequenza maggiore), e deve essere svolta con tempi e modalità tali da non
compromettere le esigenze di lavoro, studio, famiglia o salute del condannato. La normativa in esame disciplina altresì il lavoro di pubblica quale misura applicabile dal giudice di pace in sede di conversione delle pene pecuniarie non eseguite, secondo la scansione procedurale stabilita dall’art. 55 D.L.vo 274/00. Infine, i criteri di ragguaglio tra pene detentive e lavoro sostitutivo sono stabiliti dall’art. 58 del D.L.vo citato.
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