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Carcere: pensieri positivi oltre le sbarre di Stefano Arduini
Vita, 19 marzo 2004
Non solo desolazione e noia. Nelle carceri è possibile anche reinventarsi una vita imparando un mestiere. Sono esperienze pilota che coinvolgono ancora pochi detenuti. ma, visti i risultati, promettono di crescere. Viaggio nelle buone prigioni.
A Milano il teatro-danza e le guglie del Duomo, a Roma gli abiti per le sfilate, a Velletri il vino doc, a Firenze le biciclette, a Treviso i mobili d’arte e a Siracusa pane e biscotti. Tutto rigorosamente "made in jail". Piccoli frammenti di luce su un orizzonte sempre fosco: dall’inizio degli anni 90 a oggi, il numero dei detenuti occupati è rimasto inalterato, a fronte di un’impennata delle presenze che hanno ormai raggiunto quota 56.403. La percentuale degli impiegati di conseguenza è precipitata: se nel 1990 lavorava il 40% dei presenti, al 30 giugno 2003 solo il 24,2% dei detenuti godeva di un impiego. In termini assoluti sono 13.630 i lavoratori intramurari, quasi tutti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (per lo più addetti ai servizi domestici, come la pulizia dei bagni o i servizi in cucina) e quindi senza contratto e con una remunerazione, la mercede, che al netto dei contributi stenta ad arrivare a 3 euro l’ora. Tirando le fila: sono poco più di 2 mila le persone con un lavoro vero e 3.879 gli iscritti ai corsi professionali attivati nel primo semestre del 2003.
Il terreno dietro le sbarre si conferma quindi arido, ma talvolta capace di dare buoni frutti. Nel caso di Siracusa addirittura "Squisiti", dal nome dei tipici biscotti locali. Che insieme alle paste di mandorla e agli n’zulli (dolcetti messinesi simili ai cantucci) costituiscono il fiore all’occhiello della produzione di un panificio/pasticceria che sforna quotidianamente 300 chilogrammi di pane di pasta dura e 40 chili di biscotti biologici grazie al lavoro di quattro detenuti del carcere di Cavadonna assunti dalla cooperativa L’Arcolaio. Che oltre a rifornire le due mense della prigione (quella dei 400 detenuti e quella dei 300 agenti) approvvigiona le botteghe biologiche ed equo solidali nonché molti supermercati della zona iblea. "L’attività è appena iniziata, fatturiamo 13mila euro al mese, mentre i detenuti arrivano a prendere una mensilità di 600/700 euro", annuncia Alfonso La Pira, vicepresidente dell’associazione, che sta già pensando di allargare il giro d’affari esportando la produzione tipica anche nel resto d’Italia. Placata la fame, c’è da pensare agli assetati. E chi meglio di Marcello Bizzoni? Enologo di professione, finito nei guai e oggi capocantina nella casa circondariale di Velletri, in provincia di Roma. Bizzoni, che da libero gestiva un’azienda da 12 miliardi di lire di fatturato annuo, da carcerato produce 17 mila bottiglie all’anno. Attualmente dalla prigione laziale escono sei eccellenti etichette (nel 2003 recensite anche dalia rivista Il mio vino): Novello Igt rosso, Velletri doc bianco, rosso e barricato, e vino da tavola rosso e bianco, della cui vendita si occupa una cooperativa costituita ad hoc. Dopo un buon pasto cosa c’è di meglio che un po’ di sport? E qui il ventaglio è ampio, tra i combattutissimi tornei di calcio intramurari (a Opera c’è una squadra di detenuti che gioca in Figc, mentre a Brescia e Torino agenti di custodia e carcerati studiano da arbitri); nessuno però aveva ancora pensato alla bicicletta.
La lampadina si è accesa nella testa di Riccardo Zoppi della cooperativa Ulisse di Firenze. Ogni anno la depositeria comunale del capoluogo toscano recapita al carcere di Sollicciano 1.500 bici. "Si tratta di mezzi abbandonati che prima venivano rottamati", ricorda Zoppi. Mentre oggi finiscono nelle sapienti mani di 4 detenuti addetti all’officina interna che fra viti, catene e grasso ne rimettono in strada oltre il 60%. Passando dai manubri e sellini fiorentini al Duomo di Milano, le cose cambiano poco. Di mezzo ci sono sempre le abili mani dei carcerati. Turisti e cittadini probabilmente lo ignorano, ma l’opera di restauro della cattedrale meneghina non conosce interruzione. Da secoli se ne occupa la Veneranda Fabbrica del Duomo, l’unico ente che dal 1396 ha la patente per estrarre marmo dalle cave di Candoglia e che dal 1998 consegna il prezioso materiale allo stato grezzo nel carcere di Opera, dove 5 scalpellini si occupano del restauro di sezioni di ornato, guglie, crespe e pinnacoli. "Ci sono voluti tre anni di studio per formare questa squadra di addetti alla lavorazione dei marmi", testimonia Mafalda Occioni, consigliere d’amministrazione della cooperativa Arti@mestieri, ideatrice del progetto La libera bottega dell’arte. Di sicuro successo anche la falegnameria interna al carcere di Treviso, gestita dalla cooperativa Alternativa presieduta da Antonio Zamberlan che, grazie al lavoro di 12 detenuti di cui 5 extracomunitari, fornisce alla ditta Caramel oltre 100 modelli di mobili in arte povera, riuscendo, con le agevolazioni della legge Smuraglia, perfino a sostenere la concorrenza delle imprese dell’Est europeo che stanno costringendo alla chiusura molte altre falegnamerie del Triveneto.
Ma nemmeno in carcere si vive di solo lavoro. Anzi. Michelina Capato Sartore è una regista e insegnante teatrale. Da due anni, grazie all’appoggio di Lucia Castellano, direttore del carcere sperimentale di Bollate, alla periferia di Milano, ha avviato un corso di formazione di teatro-danza. La sua ultima rappresentazione, aperta al pubblico, è recentessima, a inizio marzo. "Abbiamo messo in scena Nel tuo sangue, una raccolta di poesie di Giovanni Testori", racconta la Caputo. La sua compagnia è composta da una cinquantina di attori e da una troupe di macchinisti, fonici e tecnici luce (tutti detenuti) che hanno imparato la professione grazie a un corso di formazione tenuto dall’associazione Estia. Ma come si lavora con protagonisti tanto acerbi di palcoscenico? "Sono i migliori attori con cui si possa lavorare", risponde la regista, "la detenzione è un’esperienza che ti capovolge resistenza, che ti colloca in un ruolo e in un ambiente estraneo, e quindi ti insegna a recitare una parte". Dal palcoscenico alle passerelle il passo è breve. Non potranno vivere il sogno di essere modelle, ma almeno potranno vestire le loro top model preferite. Grazie a un corso professionale tenuto in collaborazione con l’Istituto europeo di design di Roma, 40 detenute di Rebibbia disegneranno una ventina di abiti che sfileranno nell’edizione di luglio dell’alta moda romana.
Lavoro in galera: lontano dai facili ottimismi
Purché non sia solo una "riduzione del danno"
di Ornella Favero
Le buone notizie, si sa, si vendono poco, dal punto di vista giornalistico. Le buone notizie dal carcere sono ancora meno appetibili perché presentano un duplice rischio: immaginiamo per esempio di presentare una bella esperienza lavorativa in galera. Si rischia di sentir dire "ma allora dentro stanno anche troppo bene" (e questa è la reazione forse più rozza e facilmente contrastabile) oppure, ed è una reazione che capita anche a quelli che si occupano di carcere seriamente, c è chi si esprime così: "Quelle persone si stavano rovinando la vita, il carcere in fondo le ha fermate, ha dato loro la possibilità di ricostruirsi, di dedicarsi a una attività positiva e acquisire una professionalità spendibile anche sul mercato". Realtà innovative, come l’inserimento dei dati degli abbonati Rai alle Vallette di Torino, o la sartoria delta Giudecca, o l’azienda agricola di Velletri, proprio perché fanno pensare che le carceri, se funzionassero ovunque un po’ meglio, potrebbero rappresentare una fase dura, ma anche utile nelle vite spesso disastrate di chi vi è rinchiuso, richiedono invece uno sforzo di comprensione e di approfondimento. Il carcere, è meglio non dimenticarselo, rinchiude prima di tutto i corpi, li logora e li porta a un lento degrado, e poi rinchiude le menti, rendendole infantili perché le costringe a una continua obbedienza e dipendenza da chi ha il potere, dunque è impensabile, credo, parlare in modo "normale" di utilità del carcere. Mi sembra più realistico parlare di "riduzione del danno" da carcere: bisogna lavorare per offrire alle persone detenute delle opportunità per non "ammazzare" il tempo in galera, ma usarlo al meglio possibile, e nel frattempo impegnarsi perché rinchiudere la gente in gabbia resti l’ultima soluzione. E il danno è comunque un po’ minore in quelle carceri dove si tentano strade innovative sfruttando il bene più disponibile, il tempo, e usando la creatività per reinventare lavori artigianali, o attività come il Call Center di San Vittore,dove chi lavora deve avere soprattutto pazienza e gentilezza, qualità che forse uno in carcere impara ad apprezzare di più di chi sta fuori. Un’altra considerazione: nel nostro Paese si tende a mitizzare il valore del lavoro (anche quando non c’è), e a ritenere che una persona che in carcere prima, e in misura alternativa poi, ha un lavoro abbia quasi tutto quello che serve per reinserirsi nella società. Mi pare invece interessante il modo in cui si affronta il problema in Olanda: lì le persone detenute sono impegnate nel lavoro alcune ore, e le altre ore le dedicano ad attività culturali. E questa è una opportunità per crescere davvero, per "attrezzarsi" per la vita fuori, per costruirsi finalmente quelle competenze che il lavoro in carcere (quando c’è) da solo non può dare.
Le Vallette di Torino: un carcere modello
Il direttore Pietro Buffa: "Da 5 anni funziona una vera università interna, e un impianto di riciclo dei rifiuti che serve la città".
Di Pietro Buffa, 44enne direttore del carcere delle Vallette di Torino, sorprendono due caratteristiche: l’accento piemontese, un vero e proprio unicum in una galassia come quella dell’amministrazione penitenziaria quasi esclusivamente di origine meridionale, ma sopratutto l’indistruttibile entusiasmo. "Svolgo una professione che amo e alla quale ho ancora molto da dare", promette Buffa. E a giudicare dal passato c’è da scommettere che non venda fumo. Poche settimane fa, per dirne una, ha festeggiato il secondo compleanno di www.circondarialetorino.it, un sito internet, gestito a stretto contatto di gomito da agenti e detenuti, che il direttore definisce "un ponte con l’esterno, perché non solo i carcerati, ma anche gli agenti hanno idee e problemi che vale la pena far conoscere". L’integrazione con il territorio è una vera e propria fissa per il timoniere di uno dei carceri più importanti d’Italia con i suoi 1.300 ospiti (a fronte di una capienza ottimale di 950 persone), di cui 130donne. Alcuni dei quali lavorano in un impianto di sterilizzazione all’avanguardia in grado di trattare gli scarti ospedalieri che altrimenti probabilmente finirebbero all’estero o in qualche discarica abusiva.
Si dice che ci sia addirittura la fila per entrare alle Vallette. Come è possibile? Da cinque anni abbiamo attivato un polo universitario intramurario. I professori delle facoltà di Scienze politiche e Giurisprudenza dell’università di Torino vengono in carcere non solo per tenere gli esami, ma anche per fare lezione. Abbiamo 35 detenuti iscritti. Sono invece circa 200 gli studenti carcerati impegnati fra scuole di base, elementari e medie, e corsi di formazione professionale. Molti di loro vengono da fuori, hanno fatto richiesta di trasferimento per venire a studiare qui da noi.
Un miracolo? Non direi, è sufficiente un pizzico di fantasia e un adeguato sostegno economico.
Fantasia? Per fare cosa? Vuole qualche esempio? Un corso per arbitri e dirigenti sportivi patrocinato dalla Federazione giuoco calcio diretto sia ai detenuti sia agli agenti. Per restare al calcio, da tre anni organizziamo il "Torneo della speranza": 25 squadre, fra interne (due della polizia penitenziaria) ed esterne. Abbiamo, inoltre, trasformato l’aula bunker in un palcoscenico. Recentemente abbiamo rappresentato un’opera intitolata "Il paradiso terrestre": ci sono venute a vedere 800 persone. Infine, dalla falegnameria all’imputazione dati, al trattamento dei rifiuti speciali abbiamo creato 25 posti di lavoro stabile.
Per lo meno coraggioso. Qualcuno le darebbe del pazzo. Non è rischioso spalancare le porte di un carcere? Al contrario. Immaginatevi un carcere dove non entra mai nessuno. Da brividi, una bomba a orologeria.
Prima parlava di fantasia. Non crede sia rischioso affidare il buon funzionamento di una struttura simile solo all’immaginazione del direttore? Non siamo tutti così creativi… Accade in qualunque famiglia. Se sei figlio di due splendidi genitori avrai un avvenire migliore rispetto a se nasci figlio di N.N.
Torniamo al budget. Su quante risorse può contare? Non saprei. E questo la dice lunga. Ci sono diversi tipi finanziamenti europei, statali, pubblici e privati. Io però ho chiaro un aspetto: il mio compito è quello di impostare una politica locale. Perché il carcere e i detenuti appartengono a Torino.
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