Giornalismo dal carcere

 

Voci di quinta, dalla Sezione di Alta Sicurezza della C.C. di Modena

Via Libertà, 116 - 98073 - Modena

 

(Numero 12, dicembre 2004)

 

Visita in Ospedale

Il carcere

Un vecchietto

Il mio primo permesso

 

Visita in Ospedale

Da tempo soffro di una malattia con dolori fortissimi. Sottoposto a varie visite all’interno del carcere si aspettava di decidere cosa fare. Giornalmente mi venivano somministrate pillole antidolorifiche. Avevo bisogno di una visita specialistica e di esami approfonditi. Ogni giorno dovevo fare i conti con gli stessi disturbi e le giornate si trasformavano in calvari. Dopo circa sei mesi di questa solfa un giorno mi chiamarono per andare finalmente all’ospedale. Ero contento! La mattina prefissata venni scortato all’ospedale da guardie armate: mi sembrava di andare ad un maxi processo. Arrivati al parcheggio dell’ospedale, scendendo mi accorsi che tanta gente era spaventata dalla esagerazione delle guardie armate. Erano in cinque: uno davanti che avvisava la gente del mio passaggio: due mi tenevano a braccetto ed io ero ammanettato e condotto con un laccio d’acciaio da un altro agente. Tutti armati di mitra o pistole. Nel parcheggio e nell’androne dell’ospedale era un fuggi fuggi generale. Le persone più coraggiose si fermavano a guardare incuriosite dal passaggio di un vero delinquente. Io non immaginavo che sarebbe stato così umiliante.

Mentre camminavamo per andare nel reparto ospedaliero mi accorgevo che c’era un blocco totale del flusso della gente. che era avvertita dal primo agente. Trovavo le persone attaccate alle pareti spaventatissime con i bimbi stretti per mano. Io non mi sentivo più un essere umano, ma un animale incatenato che andava a morire. In tutto quel tragitto umiliante non sentivo più il dolore, perché l’umiliazione era più forte del male. Sottoposto alla visita, durata 10 minuti, fui riportato al carcere con gli stessi problemi di prima, compresa l’umiliazione. Mi era stata fissata una data per essere sottoposto ad intervento chirurgico. Dopo poco tempo usufruivo di permesso premio, ma quando fui operato, fui accompagnato all’ospedale con le stesse modalità della prima volta, e pensare che se mi avessero dato un permesso breve avrei potuto andare all’ospedale da solo con risparmio della scorta (che costa) e soprattutto dell’umiliazione. Adesso capisco perché molta gente detenuta rifiuta le visite in ospedale!!

 

Antò

 

Il carcere

 

Il carcere è un’ombra scura della vita. Chi ha sofferto il carcere avrà sempre il rimorso di aver perso una parte della sua vita, una parte della sua libertà, una parte del suo essere. All’interno del carcere, anche senza le manette ai polsi, sei sempre legato, devi osservare le regole, per ogni cosa che vuoi fare devi chiedere il permesso; tutto è monotono, sei come un robot caricato a corda; spesso ti scarichi e devi ricaricarti per affrontare la realtà che ti circonda. Vivere in una piccola cella di circa sei metri quadri in due e a volte in tre, dove si deve cucinare, lavarsi ed espletare tutte le proprie esigenze, è umiliante. Per tutto il tempo che si trascorre in carcere si fanno sempre le stesse cose, quelli che hanno la possibilità di frequentare la scuola sono più fortunati, perché hanno un diversivo alla cella e anche perché la scuola ti distrae da tanti tristi pensieri.

La notte è sempre un tormento: alle 19 circa sei già a letto a guardare la tv, anche se durante il giorno o sei seduto o sei sdraiato sempre sul letto, infatti altro spazio nella cella non c’è. Alla tv ti guardi un film, se il compagno o i compagni di cella sono d’accordo. In compenso fumi, fumi tanto e giri e ti rigiri, ti senti legato e non puoi fare altro che alzarti e farti due passi, ma proprio due di numero, per andare in bagno. Poi stanco di questa lunga passeggiata ti rimetti a letto sperando di addormentarti. Durante la notte sei costretto a svegliarti tre o quattro volte per il rumore dei passi dell’agente, per il russare del vicino, per la televisione alta delle altre celle, per l’accensione della luce ad opera dell’agente che deve controllare se respiriamo, ma soprattutto se ci siamo ancora (ma dove vuoi che siamo!!!). La mattina, già alle 7 senti il rumore del carrello dell’infermiere.

Alle 7,30 circa arriva il carrello con il latte, briochine, cornetti, uova all’occhio di bue e pancetta, succhi di frutta a iosa, fette biscottate, imburrate, camerierina in baby doll e… poi ci lamentiamo!!! Tutto questo per avere un bicchiere di latte non Parmalat. Visto che ti sei svegliato, mano subito alla caffettiera, stringi forte dal nervoso che hai e ti prepari un caffè. Il primo caffè. Accendi la prima sigaretta e inizi la giornata fumando… in tutti i sensi. Non fai in tempo a finire il primo caffè e hai già pronta la caffettiera per un altro caffè. Arrivano le nove, che grande soddisfazione, fai la doccia e poi vai all’aria o a scuola. Il resto della giornata lo lasciamo immaginare.

Il carcere è noia, ma anche speranze perse!

 

Un vecchietto

 

Camminavo in un parco quando vidi un vecchietto: stava seduto su una panchina con le mani appoggiate al bastone e la testa piegata sui pugni. Mi fermai a guardarlo, pensai che si sentisse male, così mi avvicinai e mi sedetti accanto a lui. “Signore - dissi - vi sentite male? Posso fare qualcosa per voi?”. Lui dopo un po’ alzò la testa e mi guardò: “Cosa diceva?”. “Buongiorno, dicevo se vi sentite male”. “No, no, io sto bene, mi ero abbandonato ai miei ricordi”. “Avete voglia di parlarne?”, dissi io. “Parlare? E di che cosa? Volete che vi racconto il mio passato?” “Se vi fa piacere...” risposi io. Il vecchio si mise più comodo e sorridendo disse: “Se avete pazienza, vi racconterò un pò del mio passato. Avevo circa trent’anni e venni arrestato ingiustamente: una brutta condanna a 25 anni. Ero sposato, avevo una bella famiglia, due figlie e una bella moglie. Lei, quando io venni arrestato, aveva circa 25 anni e le bambine 4 e 2 anni. Venni arrestato per un delitto mai commesso e anche se le prove erano tutte a mio favore mi condannarono ugualmente.

Stavo rinchiuso in una cella e non mi facevo convinto: piangevo, pensavo a mia moglie e alle mie bambine e soprattutto piangevo perché mi trovavo in carcere senza colpa. Ero distrutto! Per i primi anni mia moglie veniva a trovarmi e anche le bambine, ma alcuni mesi prima dell’appello mia moglie non venne più. Mi resi conto che lei non poteva sprecare la sua vita per me. Soffrivo in silenzio, pensavo a quello che avevo perso e non mi davo pace”. “Avete sofferto tanto?”, dissi io. “Eh sì - mi rispose - il carcere è brutto e poi quando oltre alla libertà si perde la famiglia le sofferenze sono maggiori”. Poi continuò il racconto come se si volesse finalmente sfogare. Io lo guardavo mentre lui con gli occhi umidi e le mani tremanti sul bastone mi faceva capire che dentro fremeva. “Dopo l’appello mi venne a trovare l’avvocato, facendomi capire che lui aveva fatto di tutto per farmi assolvere, ma non c’era stato nulla da fare. Io gli chiesi se mia moglie fosse andata a trovarlo per chiedergli di me. Lui mi rispose che non l’aveva più vista.

Ma non era stato così, perché dopo alcuni mesi venne a trovarmi mia madre, povera vecchietta! Appena mi vide si mise a piangere, si sedette e mi chiese come stavo, poi disse: “Povero figlio mio sfortunato, oltre alla libertà hai perso anche la famiglia”. Io subito le chiese se aveva avuto notizie della mia famiglia e lei con le lacrime agli occhi mi disse che non l’aveva più vista, ma in paese tanti l’avevano vista uscire la sera con l’avvocato e si dice anche che è diventata la sua amante, mentre le bambine sono oggi cresciute dalla madre di lei. Io rimasi impietrito a quella notizia, non sapevo cosa dire; mi alzai, baciai mia madre e poi tornai in cella. Mi sentivo una nullità, non potevo fare niente, pensavo che mia moglie mi tradiva con il mio difensore. A questo punto ebbi il dubbio che l’avvocato avesse fatto di tutto per non farmi più uscire. Per tutto il tempo che passai in carcere lo trascorsi pensando alla vendetta, ma poi mi rassegnai e non ci pensai più, a parte le mie figlie. Dopo aver scontato 25 anni venni finalmente liberato: quando misi piede fuori dal carcere non sapevo cosa fare, ne dove andare. Avrei voluto tornare in cella, tanto ormai quella era la mia casa. Ora sono qua e non riesco neppure a godermi questi ultimi anni di libertà, tanta è l’amarezza e il vuoto che ho nell’anima”.

 

Il mio primo permesso

 

 Sono un detenuto della 5° sezione Alta Sicurezza; mi trovo in carcere da due anni per scontare una pena di cinque. Dopo una lunga osservazione del carcere ho chiesto un permesso per la prima comunione di mio figlio. All’inizio non credevo che la mia richiesta venisse accolta, primo perché il mio reato è il 416 bis, secondo perché in Alta Sorveglianza è difficile avere benefici perché sulla carta noi siamo pericolosi. Io ho avuto due carte da giocare: la prima è che mi sono consegnato e la seconda era la richiesta di partecipare alla cerimonia per la comunione di mio figlio. Dio ha voluto che la mia richiesta venisse accolta, così il Magistrato di Sorveglianza mi ha concesso sette giorni stupendi. Amici che leggete, vi assicuro che sono stati i sette giorni più belli della mia vita. Vedere il mio bambino con quel saio bianco mentre si accingeva a prendere il sacramento ho provato

un’emozione indescrivibile. Lo guardavo e vedevo un angelo indifeso e contento, perché il suo papà era lì nel giorno più bello della sua vita fin lì vissuta. Vedevo la sua gioia quando vicino ai suoi amichetti diceva: “Questo è il mio papà!”. Ragazzi, mi sono sentito l’uomo più felice del mondo, vi auguro a tutti di provare queste sensazioni. Non esiste cosa più bella che godersi la propria famiglia e non vedere i figli crescere dietro alle sbarre. Vi saluto augurandovi una presta libertà.

 

 

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