Giornalismo dal carcere

 

Uomini Liberi, numero di giugno 2005

(Mensile dalla Casa Circondariale di Lodi)

 

Intervista di Uomini Liberi a Giuseppe Poma, questore di Lodi

Riflessioni: l’estate, cambiamo il solito tormentone

Le nostre difficili vacanze: "Non dimenticatevi di noi"

I carcerati sono i miei vicini di casa…

Nonno, non riuscirò mai a scordarti

Un viaggio in Sicilia, con il cane accaldato

Siamo anche noi cittadini di Lodi

Il carcere non sia considerato come la discarica della società

Il pomeriggio di un giorno da cani di un ladro in disarmo

Volontariato: Il Bivacco, un ponte tra carcere e territorio

Per un permesso atteso da tanto tempo…

Una partita di calcetto per uscire dalla routine

Le radici della scienza criminologica moderna

In carcere per essere rieducati, ma non ci bastano le frasi fatte

Trovare la forza di continuare a vivere e amare

Intervista di Uomini Liberi a Giuseppe Poma, questore di Lodi

Un faccia a faccia tra guardie e ladri... con tante sorprese

 

Un incontro inconsueto. Così l’ha definito il questore Giuseppe Poma. E così l’abbiamo pensato anche noi. All’inizio non è mancata un po’ di diffidenza da entrambi le parti: uno "sbirro" è pur sempre uno sbirro per un detenuto e un detenuto è pur sempre uno che ha compiuto un reato per uno sbirro. Almeno così si crede. Le oltre due ore di colloquio hanno messo attorno al tavolo "uomini". Ognuno con la propria storia, la propria identità, ma uomini che assieme hanno condiviso pezzi della storia del nostro Paese, che, oggi, vivono il dramma del carcere in maniera diversa, ma sempre sulla propria pelle. Un incontro sorprendente.

 

Conosce "Uomini Liberi"?

"Uomini Liberi" lo conosco perché mi arriva con la "rassegna stampa", un momento importante della mia giornata che mi consente di capire meglio il territorio e la sua gente, mi aiuta a capire meglio le situazioni, a calibrare più efficacemente la nostra presenza, a correggere possibili errori di impostazione. È vero, abbiamo da tempo un nostro sito Web "www.poliziadistato.it", attraverso il quale il cittadino può segnalarci le sue esigenze o esprimere valutazioni sul nostro operato. Ma è ancora un giornale come "Il Cittadino" che costituisce il più efficace dei sensori che ci aiuta a capire meglio cosa, oggi, turbi più di ogni altra cosa la tranquillità di chi vive nel lodigiano o i bisogni di chi vive all’interno di questo carcere. La vostra iniziativa, attraverso il giornale del territorio, apre le porte del carcere alla società civile, evidenziando le risorse presenti all’interno dell’Istituto che il mondo esterno non ha potuto o voluto conoscere".

 

Cosa ne pensa del giornale?

"È un modo di far conoscere pensieri e sentimenti di una parte della società che osserva la restante parte da un osservatorio veramente particolare. Con "Uomini Liberi" abbiamo modo di comprendere come, oltre il muro di cinta, vi sono persone, uomini e donne, che hanno avuto e creato problemi, ma che chiedono di poter avere una seconda opportunità".

 

È la prima volta che entra in carcere?

"Certo, per il mio lavoro, ho avuto molte occasioni di entrare in carcere, talvolta per antichi rapporti di servizio o di amicizia con chi vi era istituzionalmente preposto, come la visita che ebbi a fare al "Bassone" di Como, con il cui direttore avevo condiviso il Liceo di una lontana città del sud. Più spesso, in situazioni molto meno tranquille: ricordo, negli anni ‘70, una drammatica protesta sui tetti del carcere di via Caimi, nella fredda Sondrio. Forte l’impressione di uomini che minacciavano di lanciarsi nel vuoto pur di avere un momento di attenzione per i loro drammi personali! Anche agli occhi di un "poliziotto" quella protesta forte, plateale, certo dolorosa, testimoniava un evidente black-out di comunicazione tra chi scontava una pena e l’Istituzione che lo deteneva tra le sue mura. Non ho avuto occasioni, invece, di entrare in carcere per ripristinare l’ordine e la sicurezza all’interno degli Istituti di pena sconvolti da gravi rivolte, come quelle di San Vittore, a Milano, negli "anni di piombo", ma vedere tutori dell’ordine deporre le armi, cravatte, cinture e quant’altro prima di entrare all’interno di quei veri e propri "gironi danteschi" ti dava, comunque, la precisa sensazione che si stava operando in un contesto del tutto inusuale, un po’ come, da cattolici, entrare in una moschea dopo essersi tolte le scarpe!".

 

Dopo l’arresto è finito il vostro lavoro o vi preoccupate anche di seguire gli sviluppi successivi?

""Piccolo è bello": in un contesto territoriale ristretto, come quello lodigiano, tutti i rapporti interpersonali sono più intensi, più ricchi, meno superficiali, con i cittadini che serviamo, ma anche con coloro che perseguiamo in presenza di fatti contrari alla legge. E, anche all’interno delle nostre Istituzioni, la qualità dei rapporti è decisamente più soddisfacente, così da rafforzare lo spirito di squadra e bandire la tentazione di dannosi personalismi: se il Questore di Roma o di Milano possono avere intuibili difficoltà a conoscere tutti i rispettivi collaboratori, non così può dirsi per quello di Lodi. Il contatto è continuo, costante, sin dal primo mattino, quando si tirano le somme dell’attività del giorno appena trascorso e ci si prepara ad affrontare le problematiche della quotidianità, nell’eterna speranza che l’attività di prevenzione, svolta dalle "Volanti" e dal "Poliziotto di quartiere" sul territorio, per scongiurare la commissione di reati, sia stata così efficace da rendere inoperosi gli investigatori della Squadra Mobile".

 

E questo è facile o difficile?

"È più facile, in una realtà come quella lodigiana, "far squadra" all’interno della Polizia di Stato, certamente, all’interno del "comparto sicurezza", con i Carabinieri e la Guardia di Finanza, con i quali esiste una totale collaborazione, con la Polizia Penitenziaria, con le Polizie Locali, impegnate ad arricchire di ulteriori contenuti le loro tradizionali attività. Ma, anche, con chi si pone fuori dalla legge il rapporto interpersonale non cessa, neanche dopo un provvedimento doloroso, ma necessario, di privazione della libertà personale: c’è, a volte il tempo per un caffè o un panino durante l’estenuante "compilazione degli atti", tra un’imprecazione per la sfortuna ed un pentimento tardivo".

 

In riferimento agli anni del 68 cosa può muovere la massa agli atti di violenza?

"Entrato in Polizia giovanissimo, 39 anni orsono, ho vissuto in divisa l’epopea incredibile del ‘68 (‘70 in Italia) ed, oggi, ritornando ai miei ricordi di quegli anni mi capita di considerare come, sospinti da "cattivi maestri", molti miei coetanei ebbero, allora, a scontrarsi in modo violentissimo, con conseguenze molto dolorose, nel nome di ideali spesso generosi, ma espressi quasi sempre nelle forme più errate".

 

E oggi?

"Anche oggi assistiamo a schiere di giovani che, con il pretesto di una bandiera sportiva, si affrontano in cruenti scontri tra loro o contro le forze dell’ordine che tra loro s’interpongono. Ma nella loro violenza non vi è più traccia di idealità: è, spesso, una violenza per la violenza, sempre alla ricerca di pretestuose motivazioni. Indice di un malessere oscuro sul quale genitori, scuola, società civile faranno bene a non imitare gli struzzi. Forse i genitori devono tornare a parlare con i loro figli, per capirne i vuoti esistenziali, le depressioni, le insoddisfazioni e, persino, gli sfoghi incontenibili di rabbia, talora spinti sino all’omicidio".

 

La stessa situazione che accadeva negli anni 70.

"È vero, anche allora c’erano i "rivoluzionari" che arrivavano in "Porche" alle manifestazioni operaie, davanti ai cancelli dei templi industriali dell’epoca e, con sacro furore, si segnalavano per la forsennata diligenza con cui aggredivano e distruggevano innocue utilitarie, frutto di innumerevoli cambiali piccolo-borghesi. Spesso erano gli stessi servizi d’ordine degli operai, quelli veri, che li emarginavano: picconi impugnati da mani senza calli mettevano a nudo l’estraneità culturale e motivazionale di tempisti annoiati a caccia di emozioni forti. E, d’altra parte, anche in epoca più recente, manifestazioni di grande e pacifica partecipazione popolare sono state aggredite, turbate e scoraggiate da groppuscoli minoritari di violentissimi "casseurs", veri professionisti della violenza di piazza".

 

Ma torniamo al carcere, signor Questore. Noi non abbiamo molti canali per far valere le nostre idee. Chi di noi arriva ad atti estremi lo fa perché non ha più mezzi per farsi ascoltare. C’è gente che dopo due anni non ha ancora avuto il giudizio definitivo.

"Forse non avete molti canali per far valere le vostre idee, ma, senz’altro, in questo Istituto di canali ce ne sono più che altrove: prova ne sia che nei miei due anni di permanenza a Lodi non si sono registrate in questo carcere manifestazioni che siano indice di malessere, nessun gesto scomposto, scorretto, plateale. Ancora una volta, ritengo che le dimensioni della Casa Circondariale lodigiana consentano una comunicazione più efficace tra chi vi è recluso e chi ha la responsabilità istituzionale della struttura. "Uomini Liberi" ne è una testimonianza concreta, esempio virtuoso da esportare a realtà analoghe. Un recentissimo convegno sulla Giustizia, ospitato dal Tribunale di Lodi, ha evidenziato il problema della "lentezza" dei processi che, certamente, angoscia chi vive all’interno di queste mura, ma che qualche problema comporta anche per chi è chiamato ad assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica nella società civile, incidendo non poco sulla "percezione della sicurezza" dei cittadini".

 

È una macchina ingolfata. Che ne dice di un’amnistia, del condono?

"Il discorso al riguardo è di estrema delicatezza. Trovandomi all’interno di un carcere potrei affermare di essere d’accordo, ma non mi sembra corretto farlo per semplici motivi di opportunità. Provvedimenti di siffatta natura devono intercettare maggioranze qualificate, allargate, bipartisan. Per tale motivo non tutti i momenti sono buoni: bisogna che la percezione della sicurezza della società sia tale da non determinare una impennata di insicurezza, magari non del tutto motivata, ma così elevata da far apparire improponibile la restituzione anticipata alla società di soggetti ritenuti, a torto o a ragione, ancora ad altro rischio di delinquere".

 

Questo è quello che dice il ministro Castelli.

"Ho incontrato occasionalmente il Ministro Castelli, mi capita, invece, di incontrare più spesso privati cittadini che vengono a denunciare in Questura le aggressioni più o meno gravi subite da malfattori incalliti od in erba. Dopo le formalità di legge, dopo i verbali ufficiali, c’è sempre un momento meno ufficiale in cui chi ha subito il torto di un furto in abitazione, uno scippo, un borseggio si lascia andare a considerazioni amare su delinquenti che non rispettano più né l’età avanzata delle loro vittime, né oggetti dal modestissimo valore venale, ma dall’enorme valore affettivo. Siffatti stati d’animo non sono i più indicati per esprimere valutazioni razionali su "amnistia" e "condono"! Aggiungansi i disastri della "globalizzazione delle (cattive) notizie": a Lodi si rubano ancora le biciclette, ma se la gente vede i telegiornali o legge i giornali con le cronache nazionali, odiosi reati (n.d.r. gli stupri delle periferie milanesi e bolognesi) vengono percepiti come perpetrati nell’appartamento del vicino, con un’impennata negativa per la percezione della sicurezza. E la tendenza recentissima non appare delle più incoraggianti".

 

Ad ottobre verrà a Lodi il Presidente della Repubblica, vorremmo invitarlo in carcere: è disposto ad aiutarci insieme ad altre autorità per avere qui Ciampi?

"L’immagine che gli ospiti di questo Istituto hanno saputo offrire alla gente di questa provincia è di indiscutibile pregio, essendosi nel tempo segnalata per le lodevoli iniziative, anche di tipo culturali, avviate in molti settori. Francamente, se me ne venisse richiesto un parere istituzionale non sarei, oggi, in grado di addurre il benché minimo motivo ostativo ad un’eventuale visita autorevole da parte del Presidente della Repubblica al carcere di Lodi. Tra i reclusi che ho incontrato in questa Casa Circondariale non vedo rabbia e disperazione: rilevo, più spesso, voglia di prepararsi a tornare nella società civile, più adeguatamente preparati ad affrontarne le difficoltà".

 

Siamo all’inizio del nostro cammino. Nel prossimo numero faremo un appello alla città affinché entri sempre più in contatto con questa realtà.

"Vorrei che la gente potesse giungere a fare dei distinguo sempre più raffinati sulle notizie proposte dagli organi di informazione. Spesso ho la fondata impressioni che talune notizie, specie se buone, non facciano la stessa presa di quelle cattive. L’informazione, poi, è soventemente strumentalizzata e disinvoltamente utilizzata a supporto di tesi precostituite".

 

Concretizziamo, signor Questore: che ne dici di una partita a pallone tra sbirri e detenuti?

"Siamo freschi di un recentissimo torneo quadrangolare che, con scopi benefici, ha riunito, a Marudo, le squadre della Polizia di Stato, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e dei Vigili del Fuoco. Proporrò la cosa all’animatore delle nostre attività calcistiche, il Dirigente della Squadra Mobile che, ottimo investigatore, è anche uno sportivo autentico dall’eccellente tocco di palla".

 

Noi la sfida l’abbiamo lanciata.

"Le sfide vanno sempre raccolte: sarei lieto che non si limitasse ad un solo confronto con la Polizia di Stato, ma che si allargasse anche alle altre Forze dell’ordine. D’altra parte questi "tornei dell’amicizia" sono appaganti già per la capacità di aggregazione che riescono a suscitare tra coloro che amano il confronto sportivo, "pulito": vincere o perdere, poi, ha un’importanza assolutamente insignificante".

 

Sarà un modo per vedere l’altro aspetto del carnefice.

"In ogni circostanza ciascuno deve onorare il proprio ruolo istituzionale e non avere il timore di essere percepito come la "controparte" da chi gioca nell’opposto campo: vale nello sport, ma anche nella vita, non si può sempre dire, fare o sostenere tesi con l’unico scopo di ingraziarsi tutti, a qualunque costo. Sono venuto in questo carcere ben consapevole di svolgere, in questa provincia, le funzioni di Autorità provinciale di Pubblica Sicurezza, responsabile, sul piano tecnico-operativo, dei servizi svolti dalle forze dell’ordine tutte a tutela dell’ordine pubblico del territorio. Ma sono particolarmente lieto di essere stato qui invitato da uomini che, pur avendo anche sbagliato nella loro vita, sono, oggi, pronti a rimettersi in discussione".

 

Così potrà capitare che fuori uno sbirro si ritrovi ad arrestare chi è qui.

"Certamente, la provincia non è vasta e gli agenti delle forze di polizia che vi operano sono quasi sempre gli stessi. Pur tuttavia il fatto di essersi già conosciuti nel tempo, di riconoscersi nei ruoli potrà consentire a ciascuno di rispettare l’altro, soprattutto sul piano umano, senza dubbio meglio di quanto possa avvenire nelle vaste ed anonime aree metropolitane. Naturalmente, a condizione che la conoscenza reciproca abbia posto in evidenza le migliori qualità umane di ciascuno".

 

Torniamo alle questioni più complicate. Perché quando un magistrato ci deve condannare applica la Legge e quando un detenuto deve godere di benefici non trova l’applicazione della Legge e vi sono privilegiati?

"I privilegi, che voi dite essere stati accordati a questo o quel detenuto più famoso sono tutti da dimostrare. Ma, se anche ci fosse del vero, la cosa non sorprenderebbe più di tanto: gli esperti dicono che questa è la società che premia più l’apparire che l’essere. È così in molti campi e non ritengo che le eccezioni siano, poi, così diffuse. D’altra parte la "discrezionalità" di taluni provvedimenti offre, spesso anche a torto, il fianco ad ingenerose accuse di parzialità: l’alternativa offerta potrebbe risultare peggiore del male, riducendo l’organo preposto a mera macchina dispensatrice di provvedimenti dovuti! Si è parlato di "ingolfamento" della macchina della giustizia."Personalmente, avendo ricordi professionali lontani, antecedenti alle grandi riforme del codice di procedura penale, penso che talune attuali lentezze siano anche conseguenza dell’introduzione di nuovi istituti di garanzia a tutela delle persone indagate. E "celerità" e "garantismo" talora sono poco conciliabili. Ricordo ancora con angoscia, trent’anni fa, durante servizi finalizzati alla ricerca di criminali comuni e politici "uccel di bosco", l’arresto, per un disgraziatissimo caso di omonimia, di una persona che rimase, senza colpe, ristretta a "San Vittore" per una settimana".

 

Come ricorda quell’episodio?

"Non me ne faccio ancora una ragione, pur a distanza di tanto tempo: qualche piccolo"ostacolo" garantista avrebbe potuto forse, allora, impedire che una persona innocente facesse un’esperienza comunque terribile! Ma la garanzia maggiore, oggi auspicabile da tutti, anche dal reo, è la certezza della pena: umana nel "quantum", giustamente sollecita nel suo iter, assolutamente testata con adeguati meccanismi di garanzia, ma "certa"".

 

La certezza della pena è necessaria ma ci dev’essere una certezza del diritto. Noi non abbiamo la certezza del diritto. Quando presenti un’istanza ti devi confrontare con la discrezionalità del magistrato di sorveglianza. Il suo intervento è stato franco. Siamo rimasti colpiti quando parla del carcere come un mondo diverso ma preferiremmo la definizione di due mondi uguali. Un’altra considerazione: nella società di oggi non c’è la vicinanza tra i giovani e le forze dell’ordine. Abbiamo l’impressione che vi sia sempre più da parte dei giovani un certo distacco nei confronti delle forze dell’ordine, non le pare che via sia questa incapacità da parte di chi ha il contatto più diretto di dare quest’idea di prossimità?

"Il mio sommo rispetto per la "libertà" dell’uomo mi ha indotto a parlare del carcere come di un "mondo diverso". Lei sostiene che il mondo del carcere è, in fondo, un mondo a se stante come il mondo sportivo, ecclesiastico, ospedaliero: io penso che da questi mondi chi ne fa parte può, in qualunque momento, magari assumendosene la responsabilità con una firma, mollar tutto e tutti ed andarsene tutte le volte che desideri farlo. Dal mondo del carcere non si può uscire alla stessa maniera se non ponendosi ulteriormente oltre il confine delle leggi. Fatta salva questa precisazione, condivido il suo desiderio di non chiamare in causa "diversità" inesistenti".

 

E circa l’asserita "non vicinanza" dei giovani rispetto alle forze dell’ordine?

"Devo dire che, negli ultimi anni, tante situazioni stereotipate del passato, si sono sostanzialmente modificate: la Polizia di Stato, dal 1981, da "corpo armato e separato dallo Stato" si è trasformata in una più moderna istituzione che ha scelto di operare in stretta sinergia con la società civile del Paese, al servizio dei cittadini, mescolata tra i cittadini della Repubblica, in uno spirito di "polizia di prossimità" che va ampliandosi e radicandosi, di anno in anno in misura crescente, in forma irreversibile. L’indirizzo dei Capi della Polizia degli ultimi venti anni, i Prefetti Vincenzo Parisi e Fernando Masone, è stato fermo, coerente, unidirezionale, risulta oggi, definitivamente consolidato dalle direttive del Prefetto Gianni De Gennaro, attuale Capo della Polizia e Direttore Generale della P.S. L’ingresso delle donne dal 1985 e l’elevato tasso di scolarizzazione (diploma/laurea) degli Agenti e dei Quadri più giovani mi consente oggi di affermare che i diaframmi che facevano di questa Polizia "corpo armato e separato" si sono dissolti per sempre, cementando sempre più i legami dell’Istituzione con l’anima più autentica e profonda del Paese".

 

Non sembra vero. Per una volta ci siamo trovati guardie e ladri a parlare faccia a faccia. Abbiamo scoperto che dietro quella divisa c’è una persona che su molte questioni non la pensa diversamente da noi. Ci siamo confrontati ad "armi pari". Speriamo che anche per Giuseppe Poma sia stato così. Speriamo di incontrarci ora sul campo di calcio. E poi magari fuori ma… a bere un caffè.

 

Riflessioni: l’estate, cambiamo il solito tormentone

 

Un’altra volta l’estate è alle porte, il tormentone vacanze ha inizio; le solite domande, le solite risposte che ogni anno coinvolgono tutti, a conferma che il dimmi dove vai e ti dirò chi sei, rappresenta realmente ciò che conta in questa società: "l’immagine", qui però andrei ad innescare una problematica legata al consumismo che già in passato trattai, per questo è meglio sorvolare.Il mare naturalmente è la meta prescelta dalla stragrande maggioranza, prenotazioni, mezzi di trasporto, il last minute, anche se forse è meglio non parlarne perché è segno di poca disponibilità economica in un periodo dove tutti devono ad ogni costo apparire, come se ci si debba sentire in colpa di essere povera gente che vive onestamente con lo stipendio, "è un problema che tocca tutti, non ne vale la pena!!". La prova costume, che da mesi mette in crisi soprattutto le donne, sottoposte a diete ferree e full immersion nello sport per modellare a dovere il proprio corpo a rappresentanza di chi "si vuol far credere di essere", insomma tutta una serie di pseudo preoccupazioni che riempiono il dialogare e il divagare in questo mare di frivolezze. Colonne pazzesche sulle autostrade danno il via al primo grande esodo, " alla faccia delle partenze intelligenti", appaiono i primi cuccioli abbandonati ai bordi delle carreggiate, qualche timida proposta aleggia nell’aria per soccorrere chi veramente con l’arrivo del caldo soffrirà realmente: anziani, disabili e comunque persone con disagi. Ecco li, ci siamo: costumi provocanti rigorosamente alla moda che evidenziano una perfetta forma fisica, una timida abbronzatura che promette grandi cose, l’illusione che per qualche giorno il tempo si fermi e nessuno recrimini le grandi assenze che ogni anno comportano gravi disagi Ogni anno la storia si ripete ed ogni anno sembra che non ci siano soluzioni risolutive, soccombere all’urgenza sembra l’unico rimedio disponibile, progettualità e prevenzione sono chimere. È strano per noi osservare questo susseguirsi incessante di eventi che non portano mai a nulla di realmente efficace e concreto. È sempre comunque stato cosi, al punto che nella sofferenza quotidiana ci si riconosce, si entra a far parte di un sistema spietato che a lungo andare, non fa poi cosi male, perché migliorare lo status non entra più nei nostri desideri, l’ambizione è spesso accompagnata da un senso di colpa nato dalla nostra storia, dalla storia dei nostri genitori ed è qui che entrano in gioco le strategie più subdole di chi governa il nostro paese. Ad ogni accenno di malessere; con una mano danno e con due tolgono, lo sappiamo tutti ma per il motivo sopra citato, ci crogioliamo in questo sistema col timore che tutto possa ulteriormente precipitare. Vestiti di teatralità per mascherare chi veramente siamo, ci sforziamo di entrare a far parte del mondo delle elite per qualche giorno fingendoci a nostro agio, elite che da tempo si contendono la spiaggia migliore fingendo privacy, per non averne.Concludo questo cocktail facendo appello a tutta la popolazione lodigiana e non, ricordandovi che la barriera che ci separa è già stata abbattuta più volte, quindi ogni iniziativa da parte vostra sarà accolta a braccia aperte da noi ristretti, fatevi avanti. Inoltre, come punto di riferimento; vista la grande disponibilità del nostro comandante Raffaele Ciaramella che nel limite delle sue possibilità e col ruolo che ricopre non si è mai sottratto a nuove iniziative, avete Andrea Ferrari, "assessore alla cultura di Lodi" che in questi anni si è dimostrato squisitamente disponibile e attento a tutte le nostre problematiche.Per una estate più serena il vostro contributo arricchirà entrambe le parti, è una promessa. Carlo Bernardi Pirini

 

Le nostre difficili vacanze: "Non dimenticatevi di noi"

 

Una famosa canzone diceva "l’estate sta arrivando" ed è proprio questo che ci spaventa, perché l’estate è la più bella stagione dell’anno, tutti ansiosi delle vacanze, il mare, il sole le giornate sono più lunghe, la televisione ci fa vedere tutto e di più, le feste mondane nelle più svariate e belle località dove i vip fanno sfoggio di invidiabili abbronzature.Per noi come sempre è tutto il contrario perché diventa molto più difficile affrontare la detenzione, le giornate sono lunghe e difficili da passare, il caldo in cella è spesso insopportabile, il tutto sembra fermarsi.

Molti di noi hanno meno colloqui e anche per quanto riguarda le istituzioni tutto si ferma, gli stessi avvocati diventano introvabili e le iniziative che in questi ultimi mesi sono indubbiamente aumentate in alcuni casi si ridurranno. L’appello che noi vogliamo lanciare e di non lasciarci soli nella tristezza di una detenzione.Proprio partendo da questo vorremmo suggerire delle piccole iniziative che le amministrazioni carcerarie potrebbero prendere in esame, piccoli eventi ma molto importanti nel nostro contesto, aiutandoci a superare un’altra estate, una delle tante che dobbiamo passare qui dentro, stemperando quella tensione che inevitabilmente aumenta in noi per le condizioni in cui ci troviamo.Con l’arrivo del caldo sono molte le persone, soprattutto anziane che rimangono in città e che sono sole, io credo che sarebbero felici a dar luogo a iniziative che li porterebbe a offrire a noi un po’ del loro tempo. Sappiamo che per la sicurezza e la gestione del carcere tutto è molto difficile ma magari con un po’ di impegno riusciamo a fare un qualcosa di propositivo e forse di unico nella nostra realtà. C.B.

 

I carcerati sono i miei vicini di casa…

 

I carcerati sono i miei vicini. In questa stagione di finestre spalancate li sento vociare da ragazzoni mentre giocano a palla nell’ora d’aria, li vedo infervorati nella discussione, come farebbe un qualsiasi gruppo di adolescenti all’oratorio. Alle loro voci fanno da contrappunto le campane della Maddalena; chiesa simbolo per Lodi, stagliata con la sua imponenza verso il fiume, a segnare il confine ultimo delle acque. Sacro baluardo a protezione dalla mai ammansita furia dell’Adda.Chiesa di popolo, non di nobiltà, la quale si concentra sul (cosiddetto) colle dove l’acqua benedicente arriva solo dal cielo. Anche la galera, mi viene da pensare, è popolo e confine. Considerazione banale nella sua semplicità, ma che da sempre riflette la realtà dell’universo carcerario come stato di separatezza di persone che nella stragrande maggioranza dei casi provengono da condizioni sociali, di ricchezza in particolare, non particolarmente elevate. Le mura del carcere segnano, come i leoni nelle cartine dell’antichità, la fine del mondo conosciuto, una realtà che normalmente viene ignorata, relegata ad un’indifferenza che qualche volta si traduce in stereotipi grossolani, basati sulla dabbenaggine di considerare il detenuto un "qualcosa" di assolutamente diverso da noi. Lo sconcerto di chi ha conosciuto persone detenute (io avevo un caro amico condannato all’ergastolo, graziato dopo avere scontato 27 anni di carcere) non deriva da questa presunta alterità del condannato rispetto alla stragrande maggioranza delle persone, ma piuttosto dalla "banalità del male" da quanto, cioè, possa essere "facile" commettere reati, anche gravissimi, e subirne le conseguenze tra cui, appunto, il carcere. Questa considerazione non sposta il problema della pena e non giustifica alcun comportamento illecito in nome di un determinismo esistenziale secondo cui, in qualche modo, date certe circostanze, saremmo tutti ladri e assassini.

Vale per ciascuno il principio responsabilità, ma vale anche la consapevolezza che con quelle persone condividiamo un’ umanissima caducità e imperfezione (oltre al gioco del calcetto, naturalmente) che ci affratella in qualsiasi circostanza. Pertanto, una società rispettosa dei diritti di tutti deve fare i conti con se stessa e, nella fermezza delle regole, aumentare le occasioni di scambio tra il carcere e la società.Un saluto a tutti da un tifoso delle vostre fantastiche partite. Simone Pizzati

 

Nonno, non riuscirò mai a scordarti

 

Caro nonno… ti ricordi ventiquattro anni fa, quando la mamma mi diede alla luce, ed io capivo che eravate tutti entusiasti, perché vi sentivo ridere, mentre io piangevo; la prima cosa che videro i miei piccoli occhietti era una fascia di luce e per me era sorprendente.Man mano che crescevo, mi attaccai molto di più ai miei carissimi nonni, perché praticamente per metà della mia vita si occuparono loro di me. Era come avere due mamme e due papà.Arrivato alle superiori dove volevo imparare il mestiere di cuoco e pasticcere, mi resi conto che nella pratica ci sapevo veramente fare, ma erano i libri che mi disturbavano: praticamente non mi piaceva studiare. Allora un bel giorno mi ritirai; era meglio per tutti, anche per non far sprecare dei soldi ai miei nonni e ai miei genitori. Mi piaceva di più lavorare, anche perché col lavoro avrei acquistato maggior indipendenza.Quel giorno che aspettavo con ansia finalmente arrivò; mi ricordo che ero uno sbarbatello, avevo 16 anni e mio nonno mi fece una domanda: "Uè Giuanin, te ghe voià da vegnì a laurà cun mi, che gò bisogn…". Io entusiasta non ci pensai due volte e gli risposi: "Certo nonno" e lui: "Duman matina a vot ure, te racumandi!…".

E da quella mattina fino al giorno della mia carcerazione per quasi otto anni ho lavorato con lui e con mio zio, sì perché era una piccola impresa, che si può definire, familiare.Mi ricordo che pur di vedermi contento, mio nonno mi pagava tutti i venerdì ed io, come al solito, arrivavo alla domenica che non avevo più una lira; dove finivano questi soldi?Avendo preso un brutto giro, li dilapidavo in alcool e in fumo; insomma volevo divertirmi, ma questo divertimento alla fine dove mi ha portato? In carcere, in questo inferno, dove puoi trovare facilmente la porta d’entrata, ma quella d’uscita si può dire che è un vicolo cieco. Questo fatto fece soffrire molto le persone a me care e soprattutto mio nonno che aveva riposto su di me tante speranze.

Finalmente dopo 50 anni di lavoro, riuscì ad andare in pensione; pensate che aveva iniziato a lavorare all’età di 14 anni! Proprio quando era arrivato il momento di riposare e godersi la tanto agognata pensione, gli venne un infarto. Fu ricoverato al "Policlinico di San Donato", dove fu sottoposto ad un intervento chirurgico al cuore. L’operazione sembrava fosse andata bene; infatti dopo due mesi che telefonavo a mia nonna, finalmente un giorno mi rispose lui, il nonno: era tornato a casa. Lui scherzando, disse: "Uè, m’ann mis un coer noeuf". Dopo poco tempo, essendo sorte delle complicazioni, fu nuovamente ricoverato in ospedale, dove le sue condizioni andarono via via peggiorando. Io ebbi la fortuna di vederlo un’ ultima volta, avendo ottenuto dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarmi in ospedale a fargli visita. Ho provato una emozione fortissima. Gli ho parlato tanto, anche se la visita è durata solo dieci minuti. Purtroppo le sue condizioni non gli hanno permesso di rispondermi, ma i suoi occhi sono stati più eloquenti di tante parole. Questo sguardo carico di sofferenza, caro nonno, mi accompagnerà per tutta la vita, fino a quando non lo rivedrò un giorno, pieno di gioia, in Paradiso. By Jamaica

 

Un viaggio in Sicilia, con il cane accaldato

 

"Finalmente si parte, si va in vacanza!", dice la mia compagna, ad alta voce, mentre indaffarata prepara l’ultima valigia con dentro il necessario.Anche il mio cane sente nell’aria questa atmosfera di gioia; sa che, come ogni anno, lo porteremo con noi e che non saranno gli amici ad occuparsi di lui bensì i suoi tanto amati padroni e compagni di giochi.Dopo aver accertato che anche la mia vecchia macchina sia pronta ad affrontare il viaggio, via a tutto gas!

È il primo di agosto e la giornata è così calda che, non avendo l’optional dell’aria condizionata, poiché il mio cane ha già allagato il portabagagli di sudore che sgocciola continuamente a tempi di record dalla sua lunga lingua e profumando di conseguenza l’abitacolo con l’alito (Chanel n° 17), decidiamo a pieni voti di viaggiare con i finestrini dell’auto completamente aperti, assicurandoci di legare bene Zeus (questo è il nome del mio cane) con il guinzaglio, per evitare eventuali tentativi di suicidio per via del caldo che, dicono, alle bestie e non solo a loro, possa dare alla testa.

Di tanto in tanto ci fermiamo, giusto per permettere a Zeus di fare i propri bisogni, sgranchirci le gambe, bere un caffè e fumare una sigaretta (possibilmente fino all’inizio del filtro, visto che durante il viaggio il vento, fumando apparentemente con noi, ci permetteva di arrivare massimo al terzo tiro di sigaretta, facendoci risparmiare in salute fisica ma facendoci arrivare quasi all’esaurimento nervoso!).

Dopodiché, saliti nuovamente in auto, giro la chiave d’avviamento con un po’ di timore, stringendo con la mano sinistra il corno rosso, per paura che il meccanico non si fosse ricordato di avermi messo a punto l’auto, facendosi però ugualmente pagare per il disturbo di avergli occupato l’ingresso dell’officina e causandogli anche una brutta reputazione di fronte agli amici che tutt’ora ridono di lui.Ma sono stato fortunato ed anche questa volta la mia utilitaria di sesta mano è partita!Inserisco la prima, guardo negli occhi la mia amata, cercando, come solitamente fa il mio cane quando non gli rivolgo la parola per intuire il mio stato d’animo e comportarsi quindi di conseguenza e dopo essermi accertato o meglio, aver intuito nei suoi occhi calma apparente, ripartiamo.Sono siciliano e come quasi tutti i siciliani, dove posso portare in vacanza la mia dolce amata? In Sicilia!

Il viaggio bene o male stava andando per il meglio, fino a quando, arrivati a Villa San Giovanni, pronti per imbarcarci, scorgemmo in lontananza un posto di blocco della finanza.Sarà stato il mio fascino estremo, sarà stata la mia auto quasi pezzo da museo, saranno stati i miei occhi, spalancati per lo spavento, oppure il loro sospetto che il mio pastore tedesco lo possa aver rubato ai carabinieri dell’antidroga, fatto sta che, con le armi spianate e con il faro puntato addosso, ci fermano.Tutto mi potevo immaginare tranne la loro insistenza nel chiedermi il permesso di soggiorno, nonostante gli avessi già mostrato patente, libretto, carta d’identità, codice fiscale ed un’autocertificazione di mio padre e mia madre che dichiaravano di non volermi più in casa, essendo già più che maggiorenne!

Finalmente, dopo che il capo pattuglia finì di conversare con mio padre, mia madre, mio nonno, mia nonna e mia cugina, che nonostante i quattrocento chilometri di distanza, insisteva nel volerlo invitare a cena, giusto per il destino che li ha fatti conoscere ci lasciarono andare. Io, per non peggiorare la situazione, per non incombere in un altro evento sfortunato misi l’auto in folle e la spinsi, senza arrecare altro disturbo alla mia amata ed al mio cane, che nel frattempo mi continuava ad allagare il portabagagli. Giuseppe Sciacca

 

Siamo anche noi cittadini di Lodi

 

Siamo detenuti del carcere di Lodi, del tuo carcere, cara città, del vostro carcere, cari cittadini di Lodi e vogliamo innanzitutto rivolgervi un saluto, un po’ imbarazzato per la verità, ma pur sempre cordiale e sincero. L’appellativo di detenuto ingenera quasi sempre nell’opinione pubblica un senso di negatività, perché lo si applica, nel proprio immaginario, ad una persona collocata in un luogo ben individuato, il carcere, e in un tempo non ben definito, non per tutti uguale, ma pur sempre reale.Lo si pone quindi automaticamente fuori da un contesto abituale, quasi fosse un alieno, uno che vive una situazione fuori dal reale.Eppure noi viviamo in Lodi, respiriamo la stessa aria, beviamo la vostra acqua, percepiamo, anche da dietro le sbarre, che voi ci siete, cari cittadini di Lodi, sentiamo il clacson delle vostre macchine, le bitonali dei mezzi di emergenza, sentiamo i rintocchi delle vostre campane e, a volte riusciamo a cogliere, dai discorsi di chi viene da fuori, qualche particolare, qualche spaccato della vostra vita quotidiana.Eppure noi ci siamo con le nostre colpe, con i nostri reati, con le nostre condanne; siamo qui a scontare una pena che, giusta o sbagliata, in questo contesto arrischia di annullare del tutto la personalità dell’individuo, perché si riesce a sopravvivere solo se ci si adegua in tutto e sempre ai ritmi e ai dettami della vita del carcere. I contatti con l’esterno sono definiti e rigidamente controllati: sei colloqui al mese; una telefonata alla settimana, il tutto con parenti stretti.Resta la possibilità della corrispondenza che però spesso è a senso unico, in quanto il detenuto ha tanto tempo e tanta voglia di scrivere, ma dall’altra parte non si ha più né la dimestichezza né il tempo per la tradizionale corrispondenza.Ecco perché ci consola la voce, il rumore della città; ecco perché riusciamo ad apprezzare cose che, in libertà, non ci sfioravano nemmeno, come uno squarcio di cielo sereno, il rintocco di una campana o il profumo della primavera.Resta però la solitudine, con tutte le sue negatività, con tutte le sue angosce che, senza rimedio, possono portare alla disperazione. È vero che a volte si è soli anche nel mezzo della frenesia della vita cittadina, ma è una solitudine diversa, una solitudine a volte scelta, a volte subita per l’indifferenza degli altri: la nostra è una solitudine imposta, voluta da un sistema che ignora, ad ogni piè sospinto, la natura socievole dell’individuo, nonché l’importanza dei rapporti umani, specie in una azione, come si suol dire, di "recupero". Ecco perché vi chiediamo una mano, cari cittadini di Lodi: non lasciateci soli, fateci sentire la vostra presenza in modo attivo.

Ci sono mille modi per esprimere la vostra sensibilità nei nostri confronti, ci sono tante organizzazioni che già lo fanno.Non lasciateci soli, aiutateci a conservare intatta la nostra umanità, siamo uomini anche noi, abbiamo mogli e figli che ci aspettano e che vogliono ancora la nostra tenerezza e il nostro affetto. Purtroppo, così come è pensato, il carcere non produce nulla di buono nelle persone, anzi già è una fortuna se uno riesce a mantenere il proprio carattere e la propria personalità, perché all’interno del carcere spesso le persone sono costrette dalle circostanze ad esprimere solo cattiveria e aggressività, quando non vera e propria rabbia.Aiutateci a vivere o almeno a sopravvivere; non abbiate paura di parlare di noi, di pensare alla vita del carcere. È nostra ferma convinzione che, se siamo nei vostri pensieri, prima o poi saremo anche nei vostri cuori e, se la memoria non ci inganna, noi conosciamo il grande cuore della tradizione lombarda e questo alimenta in noi non poche speranze. Ermanno Capatti

 

Il carcere non sia considerato come la discarica della società

 

A Lodi come in tutto il territorio lodigiano esistono istituzioni pubbliche, associazioni, comunità e anche singoli cittadini che, ognuno per la propria competenza e ruolo, svolgono un lavoro quotidiano impegnandosi per migliorare e far progredire la società in cui viviamo.Fra questi soggetti da oltre cento anni esiste una realtà particolare che si trova a Lodi in via Cagnola numero 2: il carcere.Come è vissuto o come vorrebbero vivere il rapporto con queste istituzioni chi vive in questo carcere? È possibile un maggior impegno da parte di tutti per un ideale riavvicinamento tra "dentro" e "fuori"? Incominciamo col dire che le istituzioni cosiddette pubbliche hanno per lo più rapporti formali ed ufficiali con chi vive in carcere. Mentre noi vogliamo dire in primo luogo che dietro le porte del carcere ci sono esseri umani che chiedono aiuto e hanno voglia e necessità di instaurare un dialogo per cercare di farsi conoscere e "rompere" quei pregiudizi che ci sono verso le persone detenute.

Desideriamo che le porte del carcere siano più aperte verso la comunità esterna; abbiamo "fame" di integrazione verso la società civile. Vogliamo che il carcere sia un luogo di pena ma anche la premessa di una riabilitazione che deve costruirsi con un rapporto fiduciario con le istituzioni che rappresentano lo Stato e la società. La nostra Costituzione afferma: "Reinserimento del reo nella società". Ma solo con il vostro reale interesse a noi e con il vostro aiuto riusciremo a reinserire chi vive in carcere, questo mondo che invece si tende ad emarginare e a vedere come un peso. Leggi che lo permettono ci sono, spesso manca la volontà di concedere fiducia anche a chi ha sbagliato. Aiutateci a far circolare idee nuove: il carcere deve essere la risposta alla sensazione di insicurezza della società civile. Il carcere non può essere la discarica della società. Dateci possibilità di un futuro e noi lo costruiremo. Vi sono poi le istituzioni sociali, le associazioni, le comunità, la chiesa ed anche con queste realtà operanti sul territorio che chi si trova in carcere ha desiderio di intrattenere ed incrementare le relazioni.In carcere c’è già una chiesa, proprio come fuori, una chiesa che tutti i sabati celebra l’Eucarestia, che prega e si confessa. Abbiamo una Chiesa che insegna il Vangelo e che ci aiuta a trovare la fiducia in noi stessi e nella vita, di sentirsi una persona normale. Abbiamo un cappellano che visita tutte le celle, diventa amico dei detenuti, un confidente, un contatto con l’esterno. Ma noi chiediamo non solo a queste istituzioni ma anche a tutte le persone, spinte da una carità fraterna, che basta poco farsi "samaritani", essere solidali, senza rumore, svolgere una collaborazione con noi che viviamo in carcere, una cooperazione destinata ad alleviare i nostri problemi, con spirito costruttivo, avendo presente il valore di ogni persona ed il senso di solidarietà con chi è nella sofferenza o nel bisogno. Vogliamo ricordare che tra le sette Opere di Misericordia Corporali raccomandate ad un buon cristiano c’è la visita ai detenuti. Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli sforzi e le iniziative per cambiare la percezione del mondo del carcere, abitato da uomini che pagano le proprie colpe, ma che restano uomini e basta poco per ridare dignità e speranza a che vive dentro una cella.Sorriso

 

Il pomeriggio di un giorno da cani di un ladro in disarmo

 

Milano. Zona ovest. Mese di maggio, giornata soleggiata e molto ventosa. Giro un po’ per il corso senza una meta apparente. Sono sicuro che chi mi conosce, se m’incontrasse, non mi riconoscerebbe. Barba lunga di un mese, resa corvina assieme ai capelli (normalmente sale e pepe) che, con l’aiuto di una tinta provvisoria, mi hanno trasformato e forse ringiovanito. Occhiali neri avvolgenti, un cappellino da baseball scolorito, portato all’indietro con disinvoltura ed un paio di pantaloni larghi sotto il ginocchio con scarpe da tennis non griffate, completano l’immagine che voglio darmi: l’aspetto di uno qualunque a cui nessuno fa caso quando gli passi vicino.Sono un ladro. Ho sempre fatto solo il ladro. Ma in rare occasioni, solo per necessità assoluta, ho dovuto andare contro i miei principi. I tempi sono duri per noi, molto duri. Allarmi elettronici sempre più sofisticati, telecamere dappertutto, la gente sempre più smaliziata e forse anche la giovinezza che inesorabilmente si allontana, non mi permettono più di lavorare con una certa continuità. È più di un mese che non riesco realizzare niente di niente. Il frigo è vuoto e la pancia gli fa compagnia. Questo mi ha fatto prendere una decisione: una rapina. Si, ho deciso di fare una rapina in banca. Dalle cronache ho letto che c’è una recrudescenza e la fanno quasi sempre franca. Ho scelto questa, la Banca del Monte, perché è in una via di grande passaggio e, al contrario di quanto si possa credere, se dovesse esserci qualche contrattempo ci si mescola facilmente tra la folla.Non noto nessuna guardia giurata all’esterno dell’istituto. Non sono armato.

Odio le armi, mi fanno paura e poi il metal-detector non mi farebbe passare. Userò una siringa da insulina intrisa di sangue come ormai fanno in tanti. Per renderla più realistica ho sporcato l’ago e l’interno del tubo con del fegato di pollo: seccando l’effetto è inquietante.Aspetto l’apertura del pomeriggio. Il vento aumenta con folate che sollevano anche quelle polveri sottili che da qualche anno sono l’incubo nostro e degli amministratori delle grandi città.Mi avvicino quando i clienti che aspettavano entrano, uno ad uno quando le porte vengono riaperte.Con aria annoiata entro tra le due porte, abbassando lo sguardo quel tanto che basta per non destare sospetti. Un paio di secondi e la seconda porta si apre con un ronzio.Dietro gli occhiali scuri cerco di guardare e memorizzare ogni angolo ed ogni dipendente delle banca.

I battiti del cuore stanno salendo a mille. Sono teso. Non mi trovo nel mio elemento.Mentre mi dirigo ad una scrivania laterale per fingere di riempire un modulo, tiro un profondo respiro e cerco di rilassarmi il più possibile. Devo aver letto da qualche parte di tecniche indiane che servono allo scopo, ma adesso non mi viene in mente niente.Ci sono due casse aperte e tra loro una chiusa. Mi avvicino a quella più vicina all’uscita. Una pianta di fiori con foglie cadenti nasconde in parte lo sportello alla vista degli altri impiegati.Sono l’ultimo della fila, come ho voluto che fosse. L’impiegata, una donna sulla trentina con qualche chilo di troppo, mi accoglie con un sorriso. Consegno il modulo volutamente compilato in modo sbagliato e nel momento che lei me lo porge per farmelo correggere, gli afferro il braccio con una mano e con l’altra gli avvicino la punta dell’ago. Sento che s’irrigidisce. Un secondo di silenzio che pare un’eternità, poi la fatidica frase: "Non fare un fiato, questa è una rapina". Dico con un filo di voce, che sembra più un rantolo, cercando di avere la faccia più truce possibile (Questa parte non mi riesce mai bene).

"Ho l’Aids e sono all’ultimo stadio, non ho più niente da perdere. Dammi tutto il contante che hai in cassa, presto". Continuo senza lasciarle il braccio. Leggo nei suoi occhi prima il terrore e poi la pietà. Ubbidiente, con calma e con un braccio solo, prende da sotto il banco un sacco piuttosto voluminoso di plastica semitrasparente pieno di banconote sciolte che a prima vista sono da cinque, dieci e venti euro. Sono tante e questo mi ridà un po’ di morale: "Ehi, non saranno segnate o con l’inchiostro indelebile…" chiedo diffidente. "No…" risponde lei adesso calma, "erano messe da parte per essere divise". Pare che nella banca nessuno si sia accorto di niente. Prendo il pacco e lascio il braccio della cassiera."Non fare niente per cinque minuti" intimo e me ne vado. Lentamente raggiungo la porta. È stato tutto molto facile, le gambe sono ancora un poco molli, ma mi sto riprendendo. La prima porta, la seconda e sono fuori con il vento che mi sferza la faccia. Ho fatto solo pochi passi e sento da dietro: "Fermati! Non fare una mossa".

Mi giro d’istinto e per poco non mi prende un colpo. A pochi metri una guardia giurata tiene con due mani una grossa pistola puntata verso la mia testa. Faccio due passi verso di lui senza sapere perché.Lui indietreggia poi alza ancora più deciso l’arma: "Alza le mani! Subito…guarda che sparo" urla.Capisco che potrebbe farlo sul serio, la punta della canna trema: ha più paura di me. Senza farmelo ripetere alzo le braccia di colpo.Sento un rumore sordo, come il tonfo di un gavettone quando si rompe. Alzando le mani il sacco mi è sfuggito e cadendo si è aperto in due.Devo ringraziare Eolo se posso ancora raccontarla. Una folata di vento come poche s’insinua nella breccia del sacco, prende le banconote e le scaraventa in aria come un tornado. Su, su, sempre più su. E qui l’altro miracolo. Una delle strade più trafficate di Milano di colpo si ferma. La gente ha visto e dopo un attimo di silenzio irreale, si tuffa sui biglietti che, lentamente volteggiando come fragili farfalle, si posano a terra. Escono dai negozi, scendono dalle macchine, dai tram come bambini di fronte ad una pioggia di cioccolata. Il corso è intasato. Cinquanta, cento, centocinquanta persone si buttano su quelle a terra o saltellano goffe per cercare di prenderle al volo: è la mia salvezza. La guardia giurata ha un attimo d’esitazione, non capisce; non sa più se arrestarmi o proteggere i beni di chi lo paga. È un attimo. Mi giro, mi piego e mi mescolo tra quel branco selvaggio. In pochi passi raggiungo le scale della metropolitana, scendo poi salgo dall’altra parte, svolto in una via laterale e salto su di un tram proprio mentre si stanno chiudendo le porte. È sera, sono a casa e mi tremano ancora le mani. Mi sono tolto dai capelli la tinta scura e mi sono rasato. Sono indeciso se versarmi un goccetto o prendermi un calmante. Tutti i telegiornali hanno trasmesso la notizia. Hanno intervistato anche la guardia giurata che però non è stata capace di ricordare i miei connotati. Sto seguendo le ultime notizie regionali: "…nonostante le banconote siano state sparse dal vento in un raggio di cento metri, pare che il bottino della rapina sia stato recuperato quasi per intero. La direzione della banca ringrazia i cittadini milanesi per aver collaborato nell’opera di recupero…".Eh no! non me la danno a bere. Io conosco bene quel proverbio che dice: "L’occasione fa l’uomo…". Gigi

 

Volontariato: Il Bivacco, un ponte tra carcere e territorio

 

La parola bivacco indica una sosta, una tappa, una fermata che dopo una lunga marcia è indispensabile per rifocillarsi, recuperare le forze e perché no riflettere su come procedere.Questo è il nome che hanno scelto molti anni fa i promotori volontari per l’associazione, con sede a Melegnano, che da circa tre mesi entra anche nel carcere di Lodi. L’obiettivo, o meglio; gli obiettivi sono nobili e di estremo valore, tutti al fine ultimo di agevolare "con interventi mirati" il percorso verso un futuro più sereno e un presente meno sofferto."Il bivacco" funge da ponte tra carcere e territorio, quindi attraverso un cammino di reciprocità, una volta rotto il silenzio e la solitudine che accomuna noi ristretti, desidera: accogliere,valorizzare e promuovere.

Parole che fanno onore a chiunque si riprometta di concretizzarle poi in fatti e di fondamentale importanza per noi che sappiamo bene quanto sia difficile vivere il carcere e riuscire a reinserirsi una volta terminata la condanna.Certo non è facile per chi vive da ristretto fidarsi, "troppe volte ci siamo sentiti presi per il naso con false promesse", ma il bivacco cerca di creare le condizioni per coltivare relazioni di fiducia e all’interno del carcere lo fa con incontri settimanali, dove, una volta conosciute e sperimentate le intenzioni, viene naturale aprirsi e accettare questo tipo di aiuto. I risultati, non sembra vero, ma da subito palpabili, soprattutto per chi con il suo intervento ha cercato sostegno per riavvicinare una famiglia che credeva forse persa per sempre.Valorizzare le competenze ed eventualmente farne acquisire altre, stimola il gusto e il piacere di fare, lo sanno bene quelli del bivacco, ecco perché il centro servizi nasce per compiere studi di fattibilità per l’avvio di attività artigianali e d’impresa, interne ed esterne al carcere.Cosa dire di questa associazione che inizialmente guardavo con sospetto? Forse ci sono ancora persone in cui vale la pena credere e investire, ora tocca a noi riscoprire e valorizzare le potenzialità che da troppo tempo sono soffocate dalla solitudine, perciò un grazie di cuore al bivacco e a queste tre "ragazze" professioniste che con costanza ed impegno ogni settimana vengono ad alleviare il peso di queste giornate proponendoci un futuro migliore. Carlo Bernardi Pirini

 

Per un permesso atteso da tanto tempo…

 

Di recente ho descritto tutto il mio entusiasmo e, lasciatemelo dire, anche l’ebbrezza che ho provato quando mi è stato concesso un permesso, anche se di poche ore, e soprattutto la gioia di abbracciare i miei. Oggi è mio desiderio esprimere il più sentito ringraziamento a chi mi ha aiutato, dentro e fuori dal carcere e mi ha consentito di poter passare alcune ore in libertà.In particolare è grazie all’Associazione "C.I.A.O" Onlus di Milano che sono riuscito, dopo tante peripezie ad ottenere un permesso, peraltro dovutomi e passare così alcune ore in compagnia dei miei familiari. Sì, perché, essendo io residente a Palermo e non avendo alcun parente o conoscente vicino che mi poteva ospitare, è proprio grazie alla disponibilità e generosità dell’Associazione "C.I.A.O." che ho passato, dopo oltre due anni di permanenza in carcere, alcune ore in compagnia dei miei cari.Questa associazione che opera in Milano e provincia è impegnata ad aiutare, con atti concreti, i carcerati che hanno la residenza lontano o all’estero e quindi impossibilitati a recarsi a casa e mette a disposizione appositi appartamenti per ospitare queste persone e i loro familiari. Ho detto atti concreti in quanto io con i miei non abbiamo dovuto pensare a nulla; l’associazione ha pensato proprio a tutto: dall’appartamento arredato in Milano, ai pasti durante la giornata di mia permanenza. Inoltre ho potuto trovare in questa associazione, oltre alla consulenza cosiddetta tecnica fornitami da personale altamente qualificato, persone disponibili che dedicano il proprio tempo libero a favore di chi è nel bisogno, insomma veramente quello che si dice "volontariato".

Tutto questo è dovuto alla grande disponibilità nel risolvere i problemi e alla serietà dimostrata nei miei confronti e anche verso i miei familiari da tutto il personale da me incontrato in questa associazione.In questa occasione desidero esprimere anche un mio pensiero riguardo a queste associazioni. Nel nostro paese ne esistono tante e sono sempre in aumento, tutte dotate di uno statuto contenente pressappoco gli stessi principi e le stesse finalità, ma poche sono quelle che realmente li mettono in pratica aiutando chi è nel bisogno , chi soffre per problemi fisici, gli handicappati e le persone anziane. Inoltre, senza voler essere di parte, diverse di queste associazioni operano direttamente all’estero mentre ritengo che anche qui da noi ci sia ancora tanto da fare a favore delle persone sopraccitate. Ed ancora sarebbe auspicabile anche una certa unità di queste associazioni al fine di meglio operare perché come dice un vecchio adagio: "l’unione fa la forza" e senz’altro si potrebbero ottenere migliori risultati. Gaetano Crivello

 

Una partita di calcetto per uscire dalla routine

 

Martedì, 31 marzo, nel tardo pomeriggio, il carcere si è improvvisamente animato in un’ora insolita, alle cinque del pomeriggio per un incontro di calcio tra i detenuti e una rappresentativa dei dipendenti della Banca Popolare di Lodi.Il clima era quello delle grandi occasioni; tutte le attività in atto vengono sospese, perché c’è la partita di calcio.Già da alcuni giorni, all’interno delle due sezioni, si discute animatamente sulle formazioni. Tutti vorrebbero partecipare da protagonisti, ma i posti sono pochi: si gioca in 5 più 1 o 2 riserve.Tutti però sono ammessi a fare il tifo e poter uscire dalle celle per assistere ad un incontro di calcio non è cosa di tutti i giorni.Io sono stato tra i pochi fortunati che hanno potuto cimentarsi in campo. Ci ho messo l’anima ed ho pure segnato un goal! Per un momento ho dimenticato di essere in carcere, ho dimenticato i miei problemi, le mie angosce di ogni giorno: mi è sembrato per un attimo di essere con gli amici a fare la solita partita che una volta alla settimana fuori era diventato un momento di routine.Voglio dire grazie a queste persone che ci hanno permesso di passare una giornata diversa: anche se per poco tempo ci hanno fatto dimenticare la nostra amara condizione di detenuti. Di più: dopo la partita ci hanno offerto un lauto rinfresco che, per qualità ed abbondanza, non aveva nulla da invidiare a quelli delle grandi occasioni.Speriamo che attività di questo genere si possano ripetere, perché, oltre ad essere un momento di "evasione", sono sicuramente importanti per mantenere i rapporti con il mondo esterno al carcere. C. M.

 

Le radici della scienza criminologica moderna

 

Criminalità e follia: pubblichiamo il secondo dei sette brevi saggi per tracciare le radici positiviste che permangono nella criminologia del XXI secolo. Nell’epoca che vide la trasformazione degli istituti di internamento in penitenziari e manicomi, il dibattito psichiatrico e criminologico era dominato da due antitetiche correnti di pensiero: la dottrina spiritualista, che attribuiva la follia a cause psichiche e morali e la dottrina naturalista o organicista, la quale invece ne cercava le cause nelle condizioni organiche e cerebrali.

Queste due dottrine, che nel corso del XVIII e del XIX secolo dettero luogo ad accese controversie fra i cosiddetti "psychiker" e i rivali "somatiker", nel secolo successivo costituirono i riferimenti fondamentali per lo sviluppo di altre importanti prospettive, come quella fenomenologica, psicoanalitica e sociologica: orientamenti così importanti nel dibattito criminologico contemporaneo che meriterebbero un approfondimento maggiore di quello che qui si propone. Ritorneremo tuttavia su alcuni aspetti salienti quando tratteremo più in dettaglio il problema della diagnosi del "disturbo antisociale di personalità".

 

Spiritualismo

 

La prospettiva spiritualista ha fondamento in una concezione filosofica e religiosa della follia. Alle origini di questa prospettiva, che si può ritrovare ancora oggi in alcune società "primitive" o "tradizionali", la follia era intesa come segno di un castigo divino che riceveva colui che si era allontanato da Dio per aver commesso un peccato o perché vittima di stregoneria.

Il castigo, che si manifestava come una "rottura" nello spirito del folle, per essere emendato richiedeva rimedi molto simili ai riti magici praticati nelle società tradizionali. L’esorcismo è forse il più noto, mentre la pratica della Seelsorge è meno nota, a causa della sua diffusione solo all’interno delle comunità protestanti. L’esorcismo era ancora molto praticato nel XVIII secolo. Ad esso si ricorreva in tutti i casi di circumnsessio (imitazione di una malattia naturale ad opera del demonio), obsessio (malattia dovuta ad opera di stregoneria) e possessio (vera possessione diabolica). Una delle migliori descrizioni di questa pratica si rinviene nelle biografie relative al sacerdote austriaco Johann Joseph Gassner (1727-79), esorcista così famoso per il successo delle sue cure da indurre papa Pio VI ad ordinare una inchiesta papale. Un’altra inchiesta a proposito dell’attività di Gassner venne affidata dal principe Giuseppe di Baviera ad una commissione a cui partecipò il medico naturalista Franz Anton Mesmer, nel 1775.

Anche questa inchiesta si concluse con esito favorevole. Mesmer dichiarò che Gassner agiva in tutta onestà, anche se curava i suoi malati ricorrendo senza saperlo al magnetismo animale. In seguito Mesmer divenne famoso per una cura che nei modi era molto simile alla pratica esorcista, benché si rifacesse a principi naturalistici. La teoria del magnetismo animale di Mesmer è universalmente considerata opera pionieristica della Psichiatria dinamica.

Da essa, attraverso i concetti di sonno magnetico e sonnambulismo artificiale (A. M. Jacques de Puysegur, 1785) si giunse alla pratica dell’ ipnosi (James Baird, 1840) e da questa, il cui più famoso esponente fu Charcot, al concetto di psicoterapia (Hyppolite Bernheim, 1886) ed infine alla psicoanalisi (Sigmund Freud 1899). Ma gli influssi dello spiritualismo furono molto forti anche fra gli alienisti romantici o "psychicher", i quali ispirandosi alle interpretazioni scolastiche della filosofia ellenistica e romana seguitarono a vedere nella follia una malattia dell’anima, dovuta alla influenza negativa delle passioni ed alla non osservanza delle leggi morali. Questi autori, fra i quali ritroviamo gli ideatori del sistema penitenziario e gli artefici della trasformazione degli istituti di internamento in manicomi, attribuivano alla malattia mentale una causalità ancora metafisica, anziché propriamente psicologica: folle era quella persona che lasciandosi dominare dalle passioni anziché orientare la propria condotta secondo le leggi morali, aveva perso la facoltà del libero arbitrio, e quindi l’uso della ragione. Per ciò il trattamento cui andava sottoposto non poteva che essere un trattamento rieducativo, finalizzato sia al riconoscimento delle proprie colpe che alla acquisizione di quei valori la cui non osservanza aveva condotto alla follia.La concezione della follia come squilibrio delle passioni ha antichissime origini. Gli stoici e gli epicurei designavano sia la passione che la malattia con il medesimo termine: Pathos. Pathos, come movimento irrazionale dell’anima - equivalente all’affectus in Seneca e alla perturbatio in Cicerone - indica la malattia, che solo quando si fa irreversibile prende il nome di nosema. Non è un caso quindi se in molte lingue europee la radice dei termini passione (passion, passion, pasiòn, paixao) e patologia (pathologie, pathology, patologìa patologia) sia la stessa e cioè, appunto: Pathos.

 

Naturalismo

 

Con l’epoca dei Lumi inizia ad affacciarsi sulla scena anche il nuovo paradigma naturalistico o organicista. Precursori di questo paradigma possono essere considerati i due autori inglesi Thomas Willis e Sydenham i quali, con le loro ricerche sulle passioni isteriche (1680) ed ipocondriache (1725), furono i primi ad associare la follia a disturbi del sistema nervoso. La patologia che si costituisce come oggetto di indagine privilegiato della psichiatria naturalista del XVIII secolo è rappresentato dalle "Neurosi", ossia affezioni dei nervi che si manifestano con un disequilibrio delle passioni e un difetto della ragione.

Nella prospettiva naturalista tuttavia, l’origine delle nevrosi non risiedeva nella mancata osservanza delle leggi morali, bensì in una alterazione degli spiriti animali circolanti nelle fibre nervose. Per tali ragioni gli alienisti naturalisti suggerivano terapie che miravano ad agire direttamente sugli spiriti animali e le fibre nervose, anche quando queste potrebbero sembrare finalizzate a produrre un effetto psicologico.

Suscitare la paura era considerato da W. Cullen un buon metodo per diminuire l’eccitazione dei maniaci; ascoltare musica, passeggiare o andare a cavallo era considerato già un buon rimedio per la malinconia e la frenesia; ma oltre a queste pratiche erano più diffuse quelle che prevedevano la somministrazione di antimonio ed oppio, le trasfusioni di sangue, i salassi, le purghe, l’idroterapia ed anche la frizione del cranio rasato con aceto o l’inoculazione della rogna. Se le osservazioni di spiritualisti e naturalisti del XVIII secolo erano abbastanza simili, tanto appunto che Mesmer si considerava naturalista e non spiritualista, il solco che separa le due dottrine si fa più profondo nel corso del XIX secolo, quando le alterazioni delle fibre nervose non vengono più attribuite agli influssi degli spiriti animali, ma sono ricercate nella fisiologia delle fibre medesime. Due i concetti chiave attraverso i quali i naturalisti del XIX secolo cercheranno di spiegare le cause della malattia mentale: la degenerazione delle funzioni e degli organi e la lesione anatomica del sistema nervoso.

È l’inizio del declino della dottrina spiritualista ed insieme la nascita della prospettiva naturalista moderna. Patologie troppo invischiate dagli influssi spiritualisti, come la follia estatica, l’automatismo ambulatorio, il sonnambulismo e le personalità multiple lasceranno definitivamente il posto a sindromi quali: mania, ipocondria, psicopatia, nevrastenia, demenza paralitica e praecox, oltre alle già citate nevrosi. In questa evoluzione occorre ricordare quello che diverrà un paradosso della psichiatria naturalista: essa si costituisce e si afferma come scienza che studia le neurosi, ossia le lesioni e le degenerazioni dei tessuti nervosi, tuttavia la sistematica impossibilità di trovare nei nevrotici alcuna evidenza organica porterà progressivamente i naturalisti ad abbandonare il modello delle nevrosi, per dedicarsi allo studio delle psicosi. Emil Kreapeling, primo psichiatra a proporre una classificazione delle malattie mentali sul modello della lesione organica, finirà per concentrare tutti i suoi sforzi nello studio di quella particolare forma di patologia degenerativa che è la demenza precox. A parte questo significativo paradosso e soprattutto grazie ai molti progressi realizzati nel campo della neurologia del XX secolo, il paradigma naturalista manterrà il predomino nello studio della malattia mentale, rendendo celebre l’espressione del grande pioniere della psichiatria naturalista tedesca del XIX secolo, W. Griesinger : "le malattie mentali sono malattie celebrali".

 

Pierluigi Morini, psicologo clinico e criminologo, consulente delle Asl di Lodi, Milano e dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia

 

In carcere per essere rieducati, ma non ci bastano le frasi fatte

 

Il carcere dovrebbe essere rieducativo, quindi preparare le persone per un rientro a pieno titolo nella società, un luogo dove con l’aiuto degli operatori ci si prepara per affrontare la società una volta finita la pena, la nostra mente si deve concentrare esclusivamente su come uscire per sempre da questo luogo di sofferenza e puliti da ogni vizio o abitudine malsana…! Spinti dal desiderio del facile guadagno, abbiamo sostituito la fatica della conquista, con l’ottenere facilmente quello di cui si ha bisogno, lo sperare e giocare con la fortuna, e tutto questo ci ha privati del piacere dalla vittoria, della soddisfazione di essere in grado di ottenere le cose onestamente.

Ora ci chiediamo se qualcuno ci può aiutare, ma bastava pensarci prima di fare certi errori, bastava una stretta di mano per una vendita, oppure un contratto o semplicemente un lavoro qualsiasi.Anche a noi a volte capita di guardarci dentro, ma accorgerci che i nostri occhi siano annebbiati dall’incredulità di aver commesso tanti errori, non è facile, perché non ci capacitiamo che il male abbia invaso, nelle sue molteplici forme, tante abitudini della vita di tutti i giorni e quindi sogniamo un domani migliore.

È dura non lasciarsi coinvolgere da pensieri negativi e depressioni distruttive, soprattutto per la solitudine che viviamo costantemente in questo contesto, dovrebbero inoltre trovare il modo per offrirci un aiuto tempestivo e concreto, nella sicurezza di una progettualità seria e duratura, la serenità di poter scegliere un percorso con la garanzia dell’assistenza, l’entusiasmo di un nuovo progetto di vita.Abbiamo bisogno di ascoltare parole veritiere e che poi vengano trasformate in fatti, perché oltre a noi stessi, sappiamo che le nostre famiglie pagano per colpe non commesse e non trovano pace. In questa società troppe volte ho visto che l’ingiustizia è stata premiata.

D’altra parte è anche vero che dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e rispondere adeguatamente ai bisogni, ma soprattutto ai doveri, in una società che non aspetta e soprattutto non sa perdonare. Questa per me non vuole essere una giustificazione per il mio passato, ma piuttosto una richiesta per soddisfare il bisogno di un inserimento post carcere più sereno e seguito.Deve esserci qualcosa in più per tutti noi, che le solite frasi fatte, riconosco nello stesso tempo che per alcuni non è cosi, perché vengono aiutati a trovare un lavoro.Spero solo che al più presto queste problematiche si risolvano, anche se non ci conto molto. E.A.

 

Trovare la forza di continuare a vivere e amare

 

Vivere nelle mura gelide

Distante da chi ti ama

Lontano dalla vita

Significa morire dentro

Cercare il proprio futuro

Ma non dimentico la mia compagna

Che mi sta per rendere

L’uomo più felice del mondo

Tra breve diventerò padre

Di un bambino meraviglioso

Che mi darà il coraggio

Di continuare a vivere

Ad amare chi mi ama e chi crede in me

Il mio Piccolo mi darà la forza

Di continuare a lottare

Affinché il futuro brillerà come una stella

Perché sarà lui a donarmi l’orientamento

Per una retta via

Lontana dalle insidie di questo mondo

Ringrazio Dio e la mia compagna

Per la vita che verrà.

 

D.C.M.

 

 

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