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Idee Libere Periodico della Casa di Reclusione Ranza di San Gimignano Anno II - numero 8, dicembre 2003 – gennaio 2004
La redazione Con il numero "otto" completiamo un anno di lavoro: infatti il primo numero di Idee Libere vide la luce a dicembre del 2002 e, con puntualità, abbiamo mantenuto la cadenza bimestrale. Un impegno affatto facile ma che per averlo rispettato nel migliore dei modi ci ha fatto apprezzare e, come ovvio, ci ha gratificato. Ogni lettore si sarà accorto dei passi in avanti che abbiamo fatto numero dopo numero: non solo per l’aspetto grafico, fotografico e tipografico, ma anche per i contenuti. Abbiamo voluto un giornale che fosse impegnato sui tanti temi della vita carceraria, ma che non fosse monotematico. Rinchiudersi dentro i problemi, talvolta più grossi di noi, non aiuta né alla soluzione degli stessi né al morale di quelli che come noi hanno perso momentaneamente la libertà. Ed allora assieme agli "speciali" sulla vita dei reclusi i nostri lettori hanno trovato anche racconti, ricordi, pagine d’arte, di sport: insomma abbiamo messo insieme molte… idee in libertà e il nostro periodico vuole continuare ad essere una palestra aperta a tutti. Il giornale di Ranza non vuole essere solo il portavoce dei detenuti: è un "foglio" all’interno del quale tutti si possono esprimere; in questo senso ringraziamo coloro che ci hanno onorato con la loro "firma": dal direttore del carcere, alla direttrice dell’Area pedagogica, al comandante degli agenti ed agli agenti che hanno scritto per noi. Grazie agli "esterni", talvolta di grande spessore culturale, politico e sociale, che hanno capito l’importanza di un dibattito aperto avente lo scopo di una informazione in due direzioni: dall’interno all’esterno e viceversa. Grazie alla TAP di Poggibonsi che con grande cura e puntualità ha stampato gli otto numeri ma grazie soprattutto alla Fondazione Montepaschi che ha finanziato l’operazione e che ha garantito il suo indispensabile apporto anche per il 2004. Grazie al Comune di San Gimignano che ci ha dato un tangibile sostegno nei momenti difficili. Grazie infine a chi per lettera, o tramite recensioni sulla stampa nazionale, ha parlato di noi: in genere con toni positivi! Per meritarci ancor più questa serie di attenzioni, ci impegniamo per i prossimi numeri a migliorare ricercando, ad esempio, sempre firme nuove e stimolando il dibattito con temi di grande attualità. Non ci autocelebriamo ma siamo coscienti di avere un, seppur piccolissimo, ruolo in quel mondo della informazione che avrà sempre maggiori meriti se risulterà chiaro, semplice, impegnato e coerente. Con umiltà ma anche con la convinzione di fare qualcosa di utile. E non è poco per chi, come noi, troppo spesso si sente un peso per tutti! (sommario)
di Luigi D’Onofrio, direttore del carcere di Ranza 28 anni or sono, quando entrò in vigore la Legge penitenziaria, fu introdotto un principio innovativo (quasi rivoluzionario per le carceri di allora), quello della "partecipazione all’opera di rieducazione". Si chiedeva, per la prima volta alla persona condannata, di fornire il proprio contributo nell’ambito degli interventi trattamentali da attuare a livello individuale e delle relative modifiche subentranti nel corso dell’iter detentivo. Tale principio giuridico è venuto, nel corso degli anni, ad assumere aspetti sempre più rilevanti, concorrendo a produrre quel processo di cambiamento e rinnovamento del rapporto tra persona detenuta e società, fino al raggiungimento degli attuali livelli. La "partecipazione dell’opera di rieducazione" si colloca,fondamentalmente, sullo stretto binomio, istituzione-detenuto, con l’obbiettivo di organizzare e realizzare, da parte dell’amministrazione Penitenziaria, attività rieducative utili e finalizzate al reinserimento e, da parte del detenuto, con l’impiego a trarne profitto attraverso un attivo contributo. Tale criterio, che oggi appare del tutto consolidato, si è sviluppato attraverso molteplici esperienze trattamentali, con l’ausilio di risorse reperibili sia nello stesso circuito penitenziario, che nell’ambito esterno. Talvolta il comune denominatore delle attività di reinserimento è parso costituito da un clichè legato all’estemporaneità ed alla spettacolarità del trattamento, più a beneficio della cronaca che dell’utenza; intanto, al di là delle attività d’intrattenimento, pur valide ed utili, il detenuto avverte ben più concrete esigenze, correlate agli effettivi problemi di reinserimento, che si riconducono principalmente alla formazione ed all’occupazione. Diventa pertanto, sempre più impellente la necessità di acquisire ulteriori strumenti per consentire un inserimento nel mondo del lavoro in maniera non marginale e residuale, ma tale da poter assicurare un dignitoso recupero, anche nell’arco di un lungo e travagliato percorso, durato svariati anni, il trattamento ha registrato uno sviluppo inimmaginabile per il legislatore del ‘75. Gli interventi che si sono succeduti nella totalità degli istituti, pur essendo spesso ben articolati, hanno talvolta subito penalizzanti rallentamenti per difetto di sinergia con gli organi esterni, il cui ruolo di partners assume un aspetto fondamentale che deve essere esercitato in via permanente nell’ambito di un’intesa progettuale efficace. Sono gli istituti a custodia attenuata, ove l’attività trattamentale si avvale di una più agevole pianificazione (brevità della pena ed utenza selezionata), quelli che hanno registrato particolari successi. La responsabilizzazione del detenuto, nell’ambito dell’adesione ai programmi di trattamento, sta per acquisire maggiore incisività, grazie all’accentuazione ed alla formalizzazione dell’impegno che lo stesso si accollerà nei confronti dell’istituzione che lo ha in carico. Il condannato, quale destinatario dell’attività osservativa e trattamentale, diverrebbe sostanzialmente l’effettivo protagonista del proprio reinserimento, assumendo il diretto coinvolgimentosulle scelte che lo riguardano, sui percorsi che è chiamato a sostenere e sulle modifiche che eventualmente si renderanno necessarie nel tempo. Una recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, infatti, pone in risalto tale nuova dinamica trattamentale, affermando un rinnovato principio che, già incardinato nella legge n.354/75, segna oggi una nuova prospettiva rieducativa: il patto trattamentale. il patto trattamentale si esprime attraverso un accordo, un rapporto di tipo contrattuale tra due parti: l’Amministrazione Penitenziaria ed il detenuto che viene ad assumere gli impegni e gli obiettivi che si legheranno a percorsi ben definiti. Lo stesso viene così responsabilizzato ed indirizzato alla riflessione sul proprio vissuto, attivando, da un lato, un processo di rimozione delle condotte antigiuridiche e, dall’altro, il rimodellamento dei criteri di comportamento all’interno della società. Si tratterà di concretizzare un’adesione piena, attraverso la sottoscrizione del patto trattamentale, i cui effetti non potranno che incidere positivamente sulla sicurezza sociale. Parimenti, l’Amministrazione Penitenziaria risulterà maggiormente coinvolta nel portare a compimento la realizzazione di progetti che necessariamente dovrà effettuare con il contributo della Regione e del territorio, unitamente alle associazioni, alle cooperative ed aziende interessate. Si renderà quindi, ancor più utile uniformarsi ai nuovi modelli formativi ed occupazionali presenti nella società, recependone in tempo reale le innovazioni ed i cambiamenti, così da garantirne l’assimilazione e l’applicazione nell’ambito delle aree penitenziarie interne ed esterne. Con questo numero, l’ultimo del 2003, va concludendosi un anno ricco di soddisfazioni per la rivista Idee Libere. A tutti i lettori ed all’intera equipe redazionale rivolgo i migliori auguri di buone feste. Alla redazione ed a tutti i collaboratori della rivista aggiungo il mio vivo ringraziamento ed i complimenti per l’impegno mostrato nell’affrontare tematiche sempre più coinvolgenti ed attuali e per la ricerca di un’attraente veste grafica. (sommario)
Rapporti arricchenti: la solitudine
di Enzo Falorni Mi sono venute in mente le parole di un’antica filastrocca imparata all’asilo: "La solitudine si deve fuggir, solo con gli altri si può gioir". La solitudine è un fenomeno tanto diffuso e tanto dannoso su cui riflettere. La relazione e la comunicazione con gli altri sono importanti per l’equilibrio personale. Ogni persona è inevitabilmente chiamata a confrontarsi con gli altri: con i compagni di scuola, con gli amici, con i colleghi di lavoro e poi con quella persona che misteriosamente e magicamente ci appare unica e desiderabile, tanto da fare impallidire tutte le altre nella luce di un rapporto privilegiato. Com’è possibile sentirsi oppressi dalla solitudine in un mondo così affollato in cui i contatti umani sono di fatto inevitabili? Non è la mancanza di relazioni che ci fa sentire soli, ma è la cattiva qualità di queste relazioni. Oggi i rapporti fra le persone, quando non sono puramente formali, risultano inquinati dal sospetto e dalla diffidenza, spesso ingannevoli, quasi sempre interessati. Si dà credito all’affermazione di Jean - Paul Sartre secondo cui "L’Inferno sono gli altri!". Possiamo in qualche modo ribaltare questa visione pessimistica e migliorare la qualità delle nostre relazioni? Il presupposto per instaurare un rapporto valido è la capacità di ascoltare gli altri: recepire i pareri, le aspettative, i desideri di chi ci sta davanti. Non misurare il tempo. Non dire: "scusa ho fretta" o sbirciare l’orologio. Bisogna inoltre imparare a essere sinceri: non mascherarsi, meritare la fiducia con un atteggiamento leale. La solitudine si vince infine coltivando molti interessi, misurandosi in progetti di attività collettive, impegnandosi - ed è importante - in qualche attività di servizio. Chi ha esperienza di volontariato sa che quanto più si cerca di dare, tanto più ci si accorge di ricevere. Chi si mette a servizio degli altri non sarà mai solo. Tutto questo e altro, è quanto abbiamo cercato di comunicare noi detenuti redattori di "IdeeLibere". Quale luogo è portatore di solitudine come il carcere? Nessuno! Siamo in mezzo a una folla di detenuti, personale di Polizia Penitenziaria, educatori, volontari e altri ma, in fondo, il detenuto resta chiuso in se stesso e riflette in questa solitudine, la chiusura che la società opera su di loro, come (e lo abbiamo "gridato" tante volte) se il detenuto non fosse anch’esso parte della società; non come rifiuto della stessa, ma come specchio di essa in cui ogni "libero" non ama guardarsi. Ecco che attraverso "IdeeLibere", con questo nostro a volte ingrato lavoro, ci siamo adoperati affinché la solitudine del detenuto e la solitudine del carcere verso il mondo esterno, si parlassero per conoscersi meglio e per limare così, sospetti e male interpretazioni reciproche. Ci siamo aperti col cuore trovando tanta collaborazione, tanto sprone a proseguire come e se una crociata nel nome proprio della comunicazione: "comunicare è vivere" recita uno spot televisivo; ed è la verità. Abbiamo stabilito un contatto con magistrati, politici, avvocati, presidenti di banche e associazioni, professori scolastici, "semplici" cittadini che hanno apprezzato il nostro lavoro, cui hanno contribuito non meno ampliandolo come una macchia d’olio verso i loro amici e conoscenti, e così… comunichiamo, ci conosciamo, ci aiutiamo a vicenda, perché anche all’esterno ci sono delle persone che, come noi, hanno bisogno di uno stimolo, di un conforto, di una parola gentile, che aiuta a districare la nebbia che spesso avvolge; sono come un raggio di sole che se pur tiepido, riesce a scaldare il cuore in una pulsione di vita. Anche questo anno 2003 si avvia alla fine, noi di "IdeeLibere" ci sentiamo soddisfatti, orgogliosi di aver aperto, seppur timidamente, il cancello di ferro del carcere, facendovi entrare un po’ d’aria nuova, fresca, non inquinata e, maggiormente, abbiamo interrotto la solitudine con la comunicazione, in un andirivieni interno - esterno, che come l’allora telegrafo fa sentire nel suo ticchettio la sua voce: l’iformazione! Al 2004 chiediamo di continuare a comunicare, e anche se il nostro "Telegrafo" dovesse essere interrotto o distrutto, continuate tutti nel vostro insieme, o da soli, a comunicare: "Capire l’altro è capire se stessi, capire se stessi è avere "IdeeLibere"! (sommario)
di Tiziana Moggi, professoressa di lettere dell’Istituto Don Bosco Non ha una dimensione. Il peso non si può quantizzare. Un dove, un luogo definito non le appartiene. È ovunque. Chiunque può essere sua preda. È negli occhi sconsolati del bambino sperdutosi, momentaneamente, fra le corsie di un supermercato. È nello sguardo asciutto e disperato di una creatura abbandonata dal mondo, alla sua sete. Nell’andirivieni nervoso di uomini e donne, nelle mani frenetiche di chi sembra avere tutto. Nel fermo sostare degli anziani. Ha un colore, forse… un tono di grigio spento, freddo, che non lascia intravedere niente. Colpisce chi, isolato, sbarrato da mura e cancelli è più facilmente aggredibile, ma non si scoraggia del gruppo. Sa aggredire, colpendo nella mischia, e crea, istantaneamente, quelle barriere che isolano il soggetto in un "carcere invisibile, ma a vita". È la solitudine, un male che non conosce confini o pudori. Disgrega, annienta, annichilisce, incarcera anche quelli che sono uomini "liberi". Non pesiamo e confrontiamo le solitudini… chi ne è contagiato è ammalato. Vero… ci sono patologie più o meno gravi, ma se non capiamo lo strazio del bambino che si è visto solo, abbandonato, fosse solo per cinque minuti, inauguriamo una guerra fra poveri, poveri che vivono e si arrabattano, sciacallando sul male altrui. È una malattia grave, dicevo, ma non incurabile. I rimedi sono o meglio sarebbero facili a reperire, ma c’è sempre, purtroppo, qualche meschino interesse che allontana la possibilità. Come nelle migliori tradizioni del resto, proprio anche a riguardo della salute. Quali sono i rimedi? Accorgersi che chi vive con noi sono persone. Malgrado la loro maschera hanno tutti bisogno di parlare e ascoltare. Noi tutti siamo uomini e donne che hanno bisogno degli altri, del loro ascolto, del loro sguardo e che non sia sempre sfuggente. Quelli poi che sono privilegiati, perché pur con tutte le loro beghe hanno una vita "normale", quelli poi hanno il dovere di essere accorti e intravedere oltre le comode e facili omologazioni, chi, ignorato dalla società, vive solitudini profonde e drammatiche. L’effetto medicamentoso, in questo scambio, moltiplicherà magicamente gli effetti benefici. Credo nell’energia positiva dei rapporti umani. Sarebbero la miccia del mondo. Sarebbero… Il condizionale è d’obbligo perché talvolta, anche non volendo passiamo con leggerezza e superficialità sui segnali che gli altri ci inviano. Marcello è morto un anno fa. Un incidente. Marcello da tempo era entrato in depressione. Un incidente? Pochi giorni prima si era soffermato a chiedermi: "Come va?". Ricordo di aver risposto fugacemente, anche se gentile. Non è colpa mia la sua morte, però quel giorno avrei potuto capire qualcosa in più, accorgermi di questo suo stato. Con diverse mansioni e logisticamente separati, lavoravamo nello stesso ambiente ed, io non sapevo, non ero riuscita a capire. Lasciamo che la solitudine sia una scelta, un momento o una vita, decisa da chi debba recuperare, solo con se stesso dei percorsi perduti o voglia dedicarsi a lei in compagnia di un Dio che raramente lascerà soli. Non lasciamoci che sia un’imposizione solo da subire… Da soli. (sommario)
di Franco Maurici Avendo molto tempo a disposizione e, soprattutto, come grande hobby la lettura, alcuni giorni fa ho letto la tesi di laurea della professoressa di informatica Susanna Lusini sui singles e sulla solitudine. In precedenza avevo letto qualcosa in merito al calo demografico, ma effettivamente non mi ero mai soffermato sull’argomento. La professoressa esponeva con competenza ed encomiabile chiarezza il percorso storico dei singles e l’evoluzione raggiunta sino ai giorni nostri, usando come riferimenti oggettivi numerosi sociologi, psichiatri, scrittori e ad esempio Rousseau, Cacciamo, Kafka, ecc… e una delle conclusioni finali era che, questa categoria sociale potrebbe scindersi in due gruppi: 1) Single per scelta 2) Single forzati. Entrambi hanno come unico deterrente la solitudine. Questa mia riflessione è molto sintetica considerata anche la mia mediocre cultura nonché la complessità dell’argomento, però immediatamente la lettura ha azionato un meccanismo che mi ha permesso di analizzare di riflesso il problema. In luoghi ristretti come appunto il carcere, per diverse e differenti cause vengono sminuiti i valori affettivi, ed una buona parte della popolazione detenuta si identifica nei due gruppi: indelebile è la solitudine che li accomuna. Alcuni esempi banali ma reali sono: chi si trova ristretto dalla giovane età, alcuni magari dopo aver compiuto la maggiore età o addirittura da minorenni non ha avuto la possibilità di crearsi una vita di coppia; altri che a causa della detenzione hanno perso il compagno\a. Questa oserei dire è la punta dell’iceberg, nel senso che emotivamente è scontato che chi ha un compagno\a come punto di riferimento vive diversamente la propria detenzione da chi è single, di conseguenza la solitudine partorita può divenire lo stimolo negativo per compiere atti di autolesionismo fino ad arrivare al suicidio. Sicuramente mi sono posto la domanda, e non sono riuscito a trovare una risposta chiara ed esauriente (anche perché non ho le competenze), so soltanto che secondo me la solitudine non è affatto un’ottima compagna. Ipotizzando che questa mia mediocre teoria abbia fondamento, supportata dalle richieste ad incrementare i valori affettivi in carcere, mi chiedo, se chi ha la competenza (in particolar modo agli organi istituzionali esterni), non potrebbe creare terreno fertile per un "Sicuro Deterrente". Questa mia considerazione è nata da una riflessione ed è da considerarsi come tale. Ringrazio Susanna che mi ha permesso di farla e di stare in "compagnia" del suo encomiabile lavoro, ignorando per un lasso di tempo il luogo dove mi trovo. (sommario)
Il 2003 è stato caratterizzato da qualche problema ma anche da buoni risultati
di Amelia Ciompi, direttrice dell’Area pedagogica – trattamentale Prendo volentieri un po’ di spazio sulle pagine del giornale per fare il punto sul lavoro dell’ultimo anno, che del resto IdeeLibere ha seguito molto da vicino con un’informazione attenta e partecipe. Non è stato un periodo facile e se ripenso all’ottimismo dei programmi trattamentali di cui scrivevo - come responsabile dell’area educativa dell’istituto - in un intervento su questo stesso periodico che risale più o meno allo stesso mese dell’anno 2002, devo registrare un aumento delle difficoltà organizzative e delle tensioni tra il personale che ha avuto pesanti contraccolpi a carico delle iniziative trattamentali. Proprio in considerazione del difficile momento che vivono gli istituti penitenziari ritengo che ci si debba comunque ritenere soddisfatti degli obbiettivi che si è riusciti a conseguire e tra i quali si ricorderanno qui solo alcuni dei più significativi. E’ iniziato nel mese di settembre l’anno scolastico che porterà a compimento per la prima volta l’intero ciclo del corso di studi di scuola media superiore; i docenti dei vari corsi scolastici sono ormai una presenza importante senza la quale tante attività non potrebbero essere realizzate e sono sempre più spesso appassionati animatori e promotori di manifestazioni culturali. Nel settore dell’istruzione si deve registrare il forzato rinvio dell’apertura della sezione universitaria, per la grave insufficienza dell’organico della Polizia Penitenziaria, ma anche il successo dei corsi di formazione professionale in corso di svolgimento (per il conseguimento della patente europea ECDL) ed il prossimo inizio del percorso formativo per quadrista - assemblatore - cablatore nell’ambito del bellissimo progetto CHANCE finanziato con i fondi strutturali europei. Molto soddisfacente dal punto di vista del miglioramento dell’opera di integrazione e dell’informazione indirizzata ai detenuti stranieri l’intera attività svolta dagli operatori della mediazione culturale, presenti con due realtà associative della zona - la cooperativa la Rondine e l’associazione di donne migranti IRIDE - che ha reso ulteriore testimonianza, oltre a quella offerta mensilmente da IDEELIBERE, del pensiero e delle idee dei detenuti di Ranza. Anche nella sezione protetta, rimasta purtroppo sino ad oggi un po’ trascurata per la carenza complessiva delle risorse trattamentali a disposizione dell’istituto, è stato nell’anno in corso concretizzato un intervento maggiormente strutturato, che ha visto l’allestimento e l’apertura di una saletta per le attività hobbistiche, lo svolgimento di un appuntamento seminariale regolare e di uno spettacolo musicale. Altre iniziative sono programmate per le festività natalizie. Gli operatori dell’area trattamentale hanno fruito - per la realizzazione delle diverse attività - del contributo generosamente offerto dalla comunità esterna, presente sempre più numerosa ed interessata con associazioni, cooperative sociali e singoli volontari. La freschezza di idee e la collaborazione attivamente prestata dalla comunità esterna ha fortemente appoggiato ogni iniziativa trattamentale, altrimenti inefficace a fronte di una mappa del bisogno variegata e complessa. L’isolamento che per lunghi anni ha contraddistinto la vita dell’Istituto sembra da qualche tempo meno grave, e più intenso il radicamento nel territorio della comunità penitenziaria. Con viva soddisfazione si rileva l’affermazione del giornale, che ha ospitato le opinioni di autorevoli esponenti del mondo istituzionale e culturale e che in rilevante misura ha contribuito a determinare tale risultato. Di questo si ringrazia vivamente tutta la redazione, a nome degli educatori e degli esperti, e di tutti i collaboratori. (sommario)
Un garante anche per i detenuti La figura del "difensore civico" nelle carceri è prevista dall’ONU. In alcune città italiane già esiste
di Senio Sensi "Ombudsman" parola difficile, di origine anglosassone, ormai entrata a far parte anche della nostra cultura con il significato di Difensore Civico. È ormai diffusa nelle amministrazioni locali (comuni e province), specie al centro nord, ed è utilissimo strumento per la difesa dei diritti dei cittadini che, meno abili nel districarsi tra le maglie della burocrazia o timorosi del colloquio con il politico da cui ritengono di aver subito un torto, utilizzano questo "mediatore" che vive all’interno della Istituzione ma da questa non dipende (se non per le notule…). Non è stato stravolto il rapporto amministrazione - cittadini ma spesso il contenzioso è stato risolto con reciproca soddisfazione. L’ONU ha previsto questa figura anche nelle carceri; nell’Europa del Nord è stata istituita e, a quanto risulta, svolge un ruolo molto importante. Presso il Parlamento italiano (commissione Affari Costituzionali) giacciono tre disegni di legge sulla materia, auspichiamo unificabili, presentati da Pisapia (Prc), Finocchiaro (Ds) e Tazzoni (Udc): un traversalismo ben accetto! "Antigone", l’associazione che si occupa dei diritti e dei bisogni dei detenuti, ha sollecitato l’inizio dell’iter legislativo ma, ad oggi, non risulta che il disegno abbia imboccato la strada giusta. Ed allora alcuni consigli comunali consedenti di altrettante Case di Reclusione, pur in mancanza della legge quadro, dopo approfondito dibattito hanno provveduto a nominare la figura del garante presso le loro carceri iniziando così a verificare i possibili campi di intervento ed a stabilire rapporti più stretti con le istituzioni. È il caso del Comune di Firenze, che ha nominato Franco Corleone, di quello di Roma (Luigi Manconi) mentre a Milano si sta discutendo nella Commissione Carceri sulla regolamentazione di questa moderna figura. Ma a cosa può servire il "garante a tutela delle persone private della libertà personale?". Nessuno si aspetta, solo per questo, la soluzione dei gravi e atavici mali che affliggono le carceri italiane, ma siamo dell’avviso che ogni pur minimo tentativo debba essere fatto intanto per facilitare il dialogo tra chi sta "dentro" e chi conosce ben poco della vita carceraria e poi, in collaborazione con gli operatori del carcere e con i direttori in particolare, per rendere - ove possibile - la vita dei reclusi più vivibile e tollerabile. La proposta, è ovvio, vale per tutte le realtà del paese ma, in particolare, saremmo veramente felici se i consigli comunali di Siena e San Gimignano e quello rappresentativo della nostra provincia affrontassero il problema della istituzione di questa figura dimostrando, ancora una volta, la giusta sensibilità nei confronti dei problemi di chi si trova momentaneamente privo del bene più prezioso e, spesso, anche dei diritti fondamentali a salvaguardia della dignità umana. (sommario)
di Pietro Accardi Grazie ai volontari della Misericordia di Siena, nonché agli organi preposti e competenti, durante l’incontro (seminario) del sabato, abbiamo letto e commentato una poesia scritta da Madre Teresa di Calcutta: " Vivi la Vita" che è anche una riflessione, da cui è nato un bel confronto fra tutti i partecipanti al seminario, e che alla fine si è prolungato tra il sottoscritto e il mio amico Paolino, entrambi dopo divergenze ideologiche partorite sicuramente dal diverso bagaglio di esperienze, siamo concordi nel dire che: in ogni luogo e in qualsiasi situazione bisogna vivere la vita in tutti i sensi. All’apparenza questa nostra espressione potrebbe sembrare utopica o ipocrita, in quanto può sembrare assurdo che due persone che vivono in un luogo di restrizione e di sofferenza - dove la cronaca quotidiana denuncia atti di autolesionismo e suicidi - giudichi bella la vita . Tralasciando le cause per cui ci troviamo costretti a vivere in questa condizione, e premesso che queste poche righe non debbano fungere da giustificatore al nostro presente, quello che vogliamo semplicemente dire è come dice una massima della poesia: "La vita è la vita difendila". Tutti i lunedì vado alla catechesi dove questa settimana ha partecipato un missionario che vive in America, e ci disse che bisogna sorridere sempre alla vita. Ma come, dite voi, siamo chiusi qui, lontano dai nostri cari staccati dal mondo esterno e devo sorridere? Anch’io come voi ho pensato le stesse cose, allora ne parlai con Paolino, per sapere cosa ne pensava lui di questa parola detta dal seminarista. Siamo così arrivati ad una conclusione: dobbiamo vedere questa reclusione come un momento di riflessione della nostra vita, riflettere su quello che abbiamo fatto, e su quello che ne vogliamo fare. O altrimenti vederla sotto un altro aspetto, ringraziare Dio che siamo qui, e quindi poterlo raccontare, perché non tutti sono stati fortunati come noi. E allora vi voglio raccontare un aforisma che ho letto qualche anno fa e che mi è rimasto impresso nella mente. C’era una contadina che aveva un figlio e un cavallo, un giorno il cavallo gli scappò e allora tutti i vicini andarono dalla donna per rincuorarla della perdita del cavallo. La donna disse: "Amici non vi rammaricate per me, perché, non è detto che sia un male che mi sia scappato il cavallo". Dopo un paio di giorni il cavallo tornò a casa con una cavalla, tutto il vicinato alla notizia andarono dalla donna per rallegrarsi con lei, e la donna disse loro: "Amici non è detto che sia una fortuna che il cavallo sia tornato a casa con una cavalla". Un giorno il figlio uscì in sella alla cavalla cascò e si ruppe una gamba, e i vicini tornarono dalla donna a rammaricarsi con lei per l’accaduto visto che era l’unico figlio e l’unico che la potesse aiutare nei campi. Amici - disse ancora la donna: "Non vi rammaricate per quello che è successo a mio figlio perché chi può dire che sia un male?". Scoppiò la guerra e tutti i giovani furono chiamati alla leva e il figlio della donna fu rimandato a casa per via della menomazione della gamba; tutti i ragazzi che partirono per la guerra morirono e il figlio della donna rimase vivo. La morale quale è in tutto questo discorso? Che la vita in qualunque situazione, e in qualsiasi momento sia di felicità o di sofferenza bisogna viverla perché, la vita è bella. Dunque condividendo la riflessione del mio amico Paolino, crediamo che malgrado tutte le problematiche che ci circondano e che purtroppo ci forgiano, bisogna sempre essere ottimisti e credere nel valore indescrivibile ed inspiegabile della vita stessa. (sommario)
di Jmila Hammou Quando sono sopraffatto dagli assalti delle angosce più varie e il mondo me lo sento addosso; quando la vita si fa complicata e non ce la faccio più a far fronte a tutto ciò, allora mi rifugio nel sonno e conduco me stesso lontano, vagabondando nell’immenso di questo mondo bizzarro. Così, mi riappacifico con il mio "io" stanco e frustato. Una serenità temporanea, perché il termine dormire non vuol dire cessare o staccare completamente da … ma semplicemente, una tregua dalla lotta continua contro il "mal di vivere" e contro il suo effetto: la sofferenza psichica e anche fisica, per tornare con più forze e con una capacità più alta di contemplare e, quindi, di agire. È questo l’effetto conclusivo provocato dal mio rifugiarmi nel sonno che sta durando ormai da oltre quattro anni, dietro queste mura fredde, dove da una finestra sbarrata qualche volta si permette al sole di entrare. Però, questa vita da "sogliola" sta guadagnando terreno nel mio essere… perciò smettiamola di dire bugie sorella ipocrisia, sopra questo palcoscenico che qualcuno ancora chiama vita. Qualche ottimista mi dirà: "C’è chi sta peggio di te!", ma a sua volta ci sarà sempre qualcuno che sta peggio di lui, solo che ciò lo dice chi sta bene; che misero confronto! Io voglio uscire da questo mondo dove non sei nessuno; qui ci aprono e ci chiudono come e quando vogliono loro in base ai regolamenti; in questi posti non fai altro che aspettare, aspettare e aspettare la libertà, finché poi ne avrai paura. Io voglio vivere e aiutare la persona che mi è stata vicino in tutti questi duri anni, perché anche lei non ce la fa più ad affrontare i problemi della vita, di cui io occupo una bella fetta. Mi sono accorto però, che mentre scrivo, ho osato dire "io voglio", dimenticando che qui l’erba voglio non cresce! E allora, forse meglio tornare a dormire. (sommario)
di Giuseppe Intelisano e Alberto Spada Rispondendo all’invito fatto dal direttore Sensi, attraverso il giornale "Idee Libere", di esprimere il nostro punto di vista sul "Caso Sofri", devo innanzi tutto premettere che la mia opinione su Sofri uomo deve essere considerato assolutamente limitata e forse anche inadeguata. Non avendo infatti partecipato al "momento storico" e quindi ignaro del vissuto socio - politico dell’epoca, non posso valutare con coscienza e conoscenza tutte le motivazione che hanno, eventualmente, determinato il suo operare. D’altro canto è proprio questa mia estraneità che ritengo possa consentirmi di esprimere una valutazione "asettica", e quindi più obiettiva, della attuale situazione. Chi è Sofri? Indubbiamente Sofri, cresciuto ed educato nella medio - alta borghesia italiana, è una persona che ha saputo oggi mettere a frutto in senso positivo, anche attraverso la dura esperienza del carcere, quella base culturale che la sua posizione sociale gli consentiva. Ma che valenza può avere questa realtà rispetto alla attuale posizione in cui si trova oggi Sofri? Ritengo, a mio modesto parere, che considerare il suo comportamento postumo sufficiente e determinante per applicare ex imperio un provvedimento di clemenza come la grazia, non solo non sia giusto e coerente ma addirittura aberrante! In primo luogo perché urterebbe in modo assoluto contro il principio, che dovrebbe essere alla base della nostra Giustizia: "La legge è uguale per tutti". Per tutti chi? Per tutti i Sofri o per tutti i detenuti da considerare in analoghe situazioni? O esiste, come sembra che sia, una differenza di trattamento, nel modo della detenzione, legata alla cultura e alla classe sociale di appartenenza? A voi il compito di rispondere a questi interrogativi secondo coscienza. Altra cosa è valutare la posizione sotto l’aspetto del "detenuto" Sofri. Innanzi tutto condivido in pieno quanto osservato dal direttore Sensi nel suo articolo, e che cioè non si può condannare un uomo dopo 22 anni dai fatti contestati. Per ciò che mi concerne sostengo poi che sia giusto e legittimo che Sofri chieda, direttamente o tramite uno dei soggetti previsti dalla legge, il provvedimento di clemenza,e lo ottenga. I fatti contestati appartengono – pur nella loro gravità– ad "un altro Sofri": un ragazzo attratto e conquistato da quel movimento di protesta sociale che negli anni 70 ha interessato e coinvolto tutto il mondo occidentale, modificando in modo determinante la coscienza popolare. Oggi quella persona non esiste più e quindi, se è vero che uno dei principi generali del nostro Ordinamento è quello dell’attualità della pena e che alla base della detenzione deve sussistere il principio Costituzionale del recupero del "soggetto deviato"- e Sofri, nessuno lo può negare, recuperato lo è sicuramente– credo sia giusto ed opportuno che egli riacquista la libertà. In caso contrario, verrebbe completamente ignorato il dettato costituzionale della pena tesa alla "rieducazione del condannato" e vanificata ogni ragione istitutiva dell’atto di clemenza. Inserito questo concetto in un più generale contesto, ritengo altresì opportuno osservare, con cognizione di causa, che molti altri detenuti, oggi, non sono più le stessi persone di allora. SI, quindi , per la grazia a Sofri, se lui la vuole; NO ai due pesi e due misure. Ma, se ancor oggi l’uguaglianza – tanto amata da Roberspierre – è utopia, ben venga il "perdono" per uno solo : almeno è uno in meno nella sofferenza! (sommario)
Piccoli gesti, grandi significati
di Francesco Seminerio Per ogni essere umano esistono date che rimangono indelebili nella vita, anche se ricordano oltre agli eventi positivi, purtroppo anche quelli negativi. Per quanto mi riguarda, dovrò inserire nella mia memoria un’altra indimenticabile data: mercoledì 15 ottobre 2003 ore 15.00. In apparenza questa mia affermazione, potrebbe sembrare nata da squilibri mentali, ma al contrario, la sopracitata data, per mio avviso è lo "status symbol" dell’efficienza e della sensibilità di alcuni organi delle Istituzioni. Tralasciando i preamboli, cari lettori, cercherò di riassumere gli eventi. Dopo il mio arresto e dopo una meditata e sofferta riflessione, mi imposi in "modus absolutus", che il carcere non poteva essere per me il punto d’arrivo, ma bensì doveva divenire il punto di partenza su cui in seguito dovevo edificare la mia nuova vita, ripercorrendo il sentiero tralasciato. Quindi avendo interrotto gli studi, appunto a causa di una mia precedente detenzione, cercai di riprendere il percosso scolastico. Il cammino non fu per nulla facile, anzi direi molto tortuoso, nel senso che oltre alle difficoltà didattiche, mancava anche il materiale scolastico indispensabile. Ma ormai con tutto me stesso ero consapevole che non mi potevo arrendere al primo ostacolo, ma al contrario avendo come deterrenti principali la sete di cultura, e soprattutto di riscatto personale, iniziai tramite missive a chiedere un aiuto - materiale agli Organi Istituzionali. In quel periodo mi trovavo ristretto presso la casa circondariale "Petrusa" di Agrigento, e di conseguenza inviai le richieste alle autorità locali: il presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, il presidente della Provincia di Palermo, Francesco Musotto e il sindaco di Termini Imerese, Luigi Purpi, mio paese natio. Considerando la burocrazia che impantana questo nostro Paese, potrei dire che i tempi furono brevi. Il primo aiuto lo ricevetti dal presidente Cuffaro, che mi permise di concludere il percosso scolastico intrapreso allora, conseguendo il diploma magistrale con risultato soddisfacente (80/100). In seguito su mia richiesta, ai fini di proseguire gli studi, ottenni il trasferimento per San Gimignano, e anche allora gli organi istituzionali siciliani furono molto presenti; il presidente Musotto mi invio del materiale didattico ed il sindaco Purpi un aiuto finanziario; tramite i quali potetti sostenere gli esami integrativi per essere ammesso alla classe V Igea. Anche questa volta con uno studio assiduo nonché con gli aiuti menzionati, superai l’ostacolo e, oserei dire in "automatico" il sindaco Purpi su mia richiesta mi concesse quest’estate un nuovo indennizzo per concludere l’attuale anno scolastico. Oltre all’aiuto materiale encomiabile, appunto mercoledì 16 ottobre 2003, il dottore Purpi mi ha degnato di una sua visita presso la locale casa di reclusione. L’emozioni di questo colloquio sono indescrivibili, ho vissuto l’attesa come un miraggio, ma era una stupenda realtà; oltre alla incommensurabile gioia che ho provato per essere questa volta considerato da un organo istituzionale per le mie capacità scolastiche nonché personali, è soprattutto un modo concreto e sostanziale, che anche se sono casi sporadici, anche i miraggi sono realtà. Colgo l’occasione per ringraziare il dottore Luigi Purpi e tutti gli organi che hanno permesso questo magnifico incontro, che incentiva in noi detenuti la voglia di vivere il periodo detentivo in modo costruttivo, sia per noi stessi, ma anche per la società a cui apparteniamo e ritorneremo. Grazie. (sommario)
di Gaspare Como Ormai alle soglie del ventunesimo secolo, epoca di grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, in cui si sono abbattute insormontabili barriere e pregiudizi sociali, sembrano scomparire valori indelebili come: l’amicizia, la fratellanza, la famiglia. . Appunto quest’ultimo valore si è offuscato a tal punto che gran parte della nuova generazione non lo considera neanche un valore, ma solamente un’unione "forzata o obbligata" . Sinceramente essendo di origine del profondo sud, ricordo che non esisteva domenica o festa comandata in cui non si riuniva tutta la famiglia, molte volte anche numerosa, attorno ad una tavola imbandita, o dove il punto di ritrovo di riferimento dei familiari è l’abitazione paterna o materna. Questo valore lo considero oltre che imprescindibile soprattutto inviolabile, nel senso che per nostra cultura la famiglia regna appunto sovrana e suprema su tutto e tutti, anche se devo a malincuore ammettere che anche nella mia regione (Sicilia) tale valore rischia di sciogliersi come neve al sole; basta pensare alla notizia diffusa dai media alcuni mesi fa sul quella signora ottantenne nissena che dopo aver cresciuto dieci figli con immensi ed encomiabili sacrifici, non trova nessuno dei figli "caini" che accudiscono l’anziana madre. Dunque mi chiedo: come possono andare in vacanza, al mare, in montagna a divertirsi abbandonando il genitore? O peggio "posteggiarli" in strutture per anziani "ospizi" per la durata della loro vita? Credetemi non trovo risposta a queste domande, ma l’unico pensiero che mi viene in mente è un vecchio detto che era solito pronunciare un anziano del mio paese: un genitore è capace di accudire dieci figli, e appunto dieci figli non sono capaci di accudire un genitore! Nessuna affermazione è più opportuna ed idonea per questa attuale realtà. Comunque non credo affatto che il problema possa coinvolgere solamente alcuni regioni, anzi lo considero un problema che a macchia d’olio si espande e coinvolge l’intero globo terrestre, anche se a mio parere una delle grandi cause che inesorabilmente ha ucciso ciò, sia la corsa sfegatata verso le tre fiere letali del terzo millennio: il denaro, il potere e il successo. Ormai siamo in piena rivoluzione sociale nel vero senso della parola, da parte loro le ragazze prese da una perenne competizione professionale non hanno alcuna voglia di pensare a costituire una famiglia, anzi la considerano un ostacolo al loro percorso, poiché il loro simbolo è rappresentato dalla donna in carriera , almeno entro i primi trenta anni; i ragazzi su questa posizione femminile ci marciano, dunque continuando a sgretolare lentamente ma efficacemente questa pilastro fondamentale della vita. Ma, onestamente, distruggendo queste fondamenta vitali, creati nella notte dei tempi da Nostro Signore, che cosa si può costruire con l’ausilio delle tre fiere? Secondo il sottoscritto solamente il vuoto assoluto, quindi non converrebbe analizzare con coscienza il "tumore" e cercare il vaccino adatto, prima che sia troppo tardi? A mio avviso le risposte a queste domande sono soggettive ed interpretative, spero solamente che con questo comportamento distruttivo e a volte ripugnante, non si distrugga un valore nato con l’uomo e al contrario di quest’ultimo immortale. (sommario)
di Vanna Meiattini In questi giorni, tra le altre cose, su televisione e giornali si parla molto di cani. Cani che aggrediscono passanti o bimbi che giocano. Molto triste e preoccupante e l’allarme si ingigantisce quando si parla di cani di grossa taglia o incroci di razze. I cani nascono per fare compagnia all’uomo e aiutarlo e non aggredirlo o morderlo. Giusto. Ma dico: i cani nascono randagi, aggressivi e intelligenti e l’uomo li prende da piccoli e li plasma a sua immagine e somiglianza. E il detto che il cane assomiglia al padrone, non è un detto, purtroppo. Da tutto questo parlare il Ministro della Sanità ha pensato bene di regolamentare la custodia dei nostri amici a quattro zampe. Giusto. Fino a che non mi sono imbattuta su due parole "antipatiche": patentino e museruola. Mi sono seduta a terra, il cane mi si è accoccolato tra le braccia e abbiamo riflettuto. Una prova per avere il patentino consiste nel non farlo abbaiare al postino. Il mio cane abbaia alla nostra postina perché lo ha viziato. Lei fa la distribuzione nel mio palazzo mentre consuma lo spuntino di mezza mattina e lo "compra" immancabilmente con un bocconcino della sua colazione. Museruola: un’infinità di razze selezionate, poi diminuite a quindici… dieci? È ancora tutto da stabilire. Il mio cane è di tante razze, è un meticcio. "Bastardino" mi piace di più, fa tenerezza. Pesa dieci chili, pelo raso, coda mozza e uno sguardo ruffiano da morire. Non si sente mai, sta tra i piedi a convenienza sua: per mangiare, uscire, giocare. Abbaia se squilla il campanello e tace dopo l’ingresso dell’ospite. E riparliamo di somiglianza cane - padrone. Tempo fa mi sono trovata bloccata con l’auto ad un incrocio per un piccolo incidente. Qualcuno non aveva rispettato la precedenza e due auto si erano sfiorate. Da lontano assistevo al gesticolare di due persone (?) che si urlavano in faccia. Senza sonoro sembravano due mastini pronti a sbranarsi. Il vigile è intervenuto per calmarli: con la museruola? E diciamocelo francamente, durante il giorno, quante volte avremmo bisogno noi di una museruola? Occasioni per litigare l’essere umano ne trova a sfare, dipende solo da lui non farlo. Si comincia col grugnire alla sveglia che suona troppo presto. Lo facciamo con i colleghi, con i figli, dal fruttivendolo e via dicendo. Diciamoci la verità, chi non ha mai pensato almeno una volta nella vita: "Io a quello/a metterei la museruola"? Sento una vocina che già dice che l’uomo non morde. No, non morde. Però fa le guerre e ambedue le cose gli vengono insegnate… fin da piccolo. E allora insegniamo al nostro cane a non mordere, costruiamo un recinto se è di grossa taglia. Usciamo con lui con paletta e sacchetto per raccogliere i suoi bisogni, teniamolo al guinzaglio e… allontaniamoci dai giardini dove i nostri figli giocano. Se i nostri cani sono intelligenti e imparano, noi non dobbiamo essere da meno. La civiltà è un nostro valore: applichiamoci. Abbasso lo sguardo, il cane mi lecca la mano. Se potesse parlare mi direbbe: "Ci hanno fatto tutti esseri viventi e ci facciamo tanta compagnia, mettiamocela tutti la museruola". (sommario)
Gesù disse ai suoi discepoli: "Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni e gli altri, come io vi ho amato"
di Enzo Falorni Si potrà obiettare che la vita di Gesù, oltre ad essere una vita piena di amicizie, di relazioni, di gioia di vivere, è stata anche una vita segnata da sofferenze, ostilità, dalla morte di croce. Troppe volte noi ci lasciamo incantare dal demone della felicità: ci seduce e ci attira solo ciò che è facile, che si fa senza fatica, senza ostacoli, senza impegno, senza "perderci nulla". Ma l’amore non è facile! Questa è una delle grandi illusioni che ingannano tanti oggi. Si ha l’idea che l’amore sia un gioco, un divertimento, sia immediatamente a disposizione di tutti, mentre esso ha bisogno di apprendistato, di fatica, di tempo, di intelligenza, di pazienza… l’amore è un lavoro e occorre impararlo. Disse un poeta: "Non c’è nulla di più arduo che amarsi". L’amore è difficile. Voler bene: questo è forse il più difficile compito che ci sia imposto. Infatti non è così facile lasciarsi amare e accettare di essere amati. Se nell’amare noi possiamo ancora sentirci protagonisti, essere amati significa riconoscere la nostra povertà, la nostra piccolezza, le nostre lacune, i nostri bisogni. Chi si lascia amare è come se confessasse di non essere autosufficiente, ma bisognoso dell’altro. Chi si presenta sempre forte, sicuro di sé e autosufficiente, invita di fatto gli altri (l’altro) a stare lontano da lui, quasi dicesse: "Io non ho bisogno di nessuno, ma basto a me stesso". Certo occorre coraggio per lasciarsi amare, spesso abbiamo paura di iniziare un’avventura nuova e inedita. Certo, libertà è (anche) andare dove voglio, ma quando amo davvero una persona voglio andare solo dove va lei e non mi sento libero se non posso seguirla, fosse anche in capo al mondo. Quell’amore che noi possiamo scoprire su di noi attraverso esperienze umane di gratuità e di amore che abbiamo conosciuto nella nostra vita. Quando amiamo qualcuno, noi arriviamo a interiorizzare la sua presenza in noi, nel profondo del nostro cuore, e allora dialoghiamo con chi amiamo anche se è lontano, siamo alla sua presenza anche se è assente, lo sentiamo in noi anche se è distante fisicamente da noi. Sì questo è il segreto dell’amore, perché… l’amore basta all’amore! L’amore è abitare nell’altro, se si ama l’amore si finisce per vivere d’amore; non serve a niente, invece, essere amati se il nostro amore non risponde a quel "grido". Ricordiamoci che non è l’amore che fa male, è l’amore mancato che distrugge! Siamo prossimi alle feste Natalizie, periodo per eccellenza d’amore. È con tutto il cuore che auguro a chi ha l’amore di ampliarlo, e a chi ancora non lo ha di trovarlo e provarlo quanto prima; questo è l’augurio che faccio ai lettori di "IdeeLibere". Buon Natale e tanto amore per tutti! (sommario)
di Francesco Seminerio Dopo diversi giri di boa, è stato finalmente approvato il cosiddetto " indultino ", segnalando come mai il diminutivo è stato più appropriato. Ritengo che il prodotto sia inadatto a raggiungere il risultato preposto, e soprattutto a causa delle numerose clausole l’applicabilità è a dir poco macchinosa. Tralasciando i commenti e le riflessioni su questo atto di clemenza " mediatico " che a dir dei media dovrebbe consentire la libertà a 5/6 mila detenuti (forse?! ), adesso credo sia il caso che gli organi legislativi o chi di competenza, si occupino anche di coloro che devono scontare la propria condanna. Considerando le ultime cifre ufficiali diramate dagli addetti del Ministero dovrebbe essere risolto parzialmente il problema del sovraffollamento, dunque vorrei proporre al ministro Castelli di vagliare uno dei numerosi problemi che assedia il pianeta carcere: il lavoro. Lo scorso maggio presso il carcere di Padova Due Palazzi si è tenuta una conferenza a cui partecipò anche il giudice Alessandro Margara, sul tema: non lavorare stanca (espressione che fotografa lo stato psico- fisico del detenuto). Per cui premesso che l’attività lavorativa è uno dei punti cardine del percorso trattamentale, che rende in parte autosufficiente il mantenimento in carcere, perché non destinare una parte del badget che dovrebbe servire alla costruzione di nuove carceri, per risolvere il sopracitato problema? Ma questo secondo il sottoscritto è solamente il punto di partenza, la punta dell’iceberg, nel senso che le problematiche serie si manifestano nel momento in cui il detenuto dopo aver espiato la propria condanna si ritrova in una società, che nel contempo si è evoluta socialmente e tecnologicamente, senza una occupazione lavorativa che gli consenta di vivere in modo dignitoso. Quindi ciò potrebbe essere il deterrente principale della cosiddetta " recidiva ", per cui gli organi competenti ai fini di evitarlo, potrebbero creare delle strutture parallele tramite magari gli Enti locali o le industrie che operano nel luogo, col compito di assumere i detenuti in espiazione pena tenendo conto dei requisiti richiesti; in modo da prepararlo ad affrontare gradualmente l’evoluzione della società e di avere come punto di riferimento la propria occupazione che gli consentirebbe di vivere in modo onesto e soprattutto dignitoso. Sostengo ciò in quanto anche se può apparire un problema banale e comuni a tutti, per un detenuto diviene insormontabile, e soprattutto poiché grazie ai vari Ministeri molti detenuti seguendo con impegno e serietà sia i corsi scolastici che professionali, hanno acquisito durante il percosso detentivo intramurario capacità professionali abbastanza buone, che appunto se non trovassero applicabilità all’esterno sarebbe dannoso per il detenuto ma fallimentare per le Istituzioni. Rivolgendomi nuovamente a Lei dottor Castelli, magari essendo ripetitivo, le chiedo: ma i contributi che dovrebbero servire per costruire nuove strutture detentive, non potrebbero essere usate per consentire agli "ospiti" dei vecchi penitenziari esistenti per svolgere attività lavorative sia all’interno e soprattutto all’esterno del carcere? Spero sinceramente che questa volta se realmente e seriamente si cercasse di risolvere il detto problema, la montagna non partorisca un topolino che somiglia molto a un superficiale prodotto di concessione mediatica e pochissimo a un esame freddo, tecnico e politico del fenomeno da disciplinare, affermazione quest’ultima rilasciata da un avvocato in occasione dell’approvazione dell’inadeguato indultino. (sommario)
"Male": genericamente il contrario del bene
di Lino Lupone Ultimamente mi è capitato più di una volta di imbattermi in letture che raccontano il "Male" durante le quali mi sono accorto che non è facile comprendere il significato di questo fenomeno e rimane perfino incomprensibile se ritieni, in qualche modo, di legarlo alla tua persona, alla tua vita, alla tua esperienza. Sul dizionario alla parola "Male" si legge: genericamente il contrario del Bene. Più nello specifico sono elencati i pensieri delle più importanti correnti filosofiche. Nelle religioni e concezioni dualistiche il male è concepito come un principio necessario ed eterno come il principio del bene. Gli antichi pensatori greci identificavano il male col non-essere e il bene con l’essere. I filosofi cristiani e i razionalisti invece negano la sostanzialità del male intesa come privazione del bene. Altre correnti addirittura arrivano ad affermare la positività del male e del dolore. Nessuna di queste sintetiche spiegazioni mi aiuta a comprendere e a rispondere ad una semplice domanda: "Quale legame c’è tra me e il male? Perché ha bussato alla mia porta? Cosa avevo? Qualcosa di più interessante da offrire? Oppure aveva intuito che non mi sarei ribellato alla sua intrusione e avrei accettato il ruolo che lui mi chiedeva? Chissà, forse si è accorto che ero la persona giusta quando a 10 anni mi procurai il primo pacchetto di sigarette (n. 80) e le fumai, una dietro l’altra, nascosto in cantina con un amico. Oppure quando non facevo altro che inventarmi strategie e alleanze per diventare il capo della banda e a scuola simulavo malori o imbrogliavo le maestre. Ora che ricordo avevo anche, e forse ho ancora , la capacità di legittimare i miei difetti e le mie azioni peggiori insieme a un rifiuto istintivo per ogni forma di rapporto umano. Sì; probabilmente fu in quel periodo che venni reclutato. Tuttavia non ho mai avvertito chiaramente la sua presenza neanche al culmine della mia "carriera criminale". Del resto non sono mai stato un grande criminale e non credo di aver mai tentato di esserlo. Ma allora perché mi trovo in questo luogo di castigo e punizione? Aver scelto di essere vittima delle circostanze può gia essere una buona ragione, oltre naturalmente ad aver infranto le leggi che regolano la società, ma a volte ho la sensazione che sia davvero troppo alta questa condanna. Altra piccola riflessione: da anni assistiamo alla decadenza della nostra "amata" Terra. Non si capisce se viviamo nel paradiso o nell’inferno. La vita sembra diventata un regime del male e nulla di ciò che facciamo, attualmente, può cambiare questa situazione. Il male - simbolo dell’estremo rifiuto di un mondo divenuto inaccettabile - si insinua dappertutto con conseguenze più o meno gravi a seconda delle circostanze. Di fronte alle bombe, alla fame e alle differenze sociali, solo per fare degli esempi, il peccato originale , quello di Adamo ed Eva, appare una barzelletta o addirittura una presa… in giro. Forse è davvero una verità affermare che il male è determinato da una forza superiore a quella umana: è una condizione imposta che l’uomo subisce e può cambiare solo con la fortuna e con una altissima integrità di valori. Questa è una prospettiva personale legata alla mia visione della vita ma nasconde un filo di contraddizione: sarebbe come affermare che il male non possa essere combattuto. Chiaramente non intendo dire questo. Il male può e deve essere combattuto ma bisogna possederne le armi, gli strumenti atti a difendersi altrimenti è una causa persa. Il desiderio di trovare una via d’uscita alla negatività deve passare innanzitutto dall’uomo cercando di immaginare un nuovo scenario, un cambiamento del mondo e della società, ma purtroppo l’uomo è sempre tanto impegnato a voler migliorare tutto e, nello stesso tempo, desidera ardentemente che non cambi nulla. Mi sto sforzando di trovare un lieto fine per queste righe buttate giù quasi per caso. Mi sentivo in un periodo estremamente negativo e forse ho partorito qualcosa di buono. Non mi era mai capitato infatti di accendere una luce sul male, guardarlo da vicino e ritrovarmi a ridimensionare un passato ingombrante e a rivalutare colpe ed errori, quasi ad esorcizzare il male che temo di avere dentro. Se il male servisse a capire il bene e a riconoscerci in esso allora diventerebbe tutto più accettabile, tutto più leggero. (sommario)
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