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DiversaMente Periodico a cura dei detenuti della Casa Circondariale di Paola
"DiversaMente" è il nome del giornale che finalmente permette di esprimere i nostri pensieri. Lo abbiamo pensato come gruppo e impaginato con cura; abbiamo scelto le immagini, la grafica e il carattere di scrittura dopo aver trovato un titolo che rendesse il significato di ciò che volevamo "comunicare". Cosa ci proponiamo? Far conoscere le nostre esigenze a chi sta fuori, ma anche a chi ci dirige. Affidiamo dunque a queste pagine l’arduo compito di recuperare il contatto con la società civile per migliorare le aspettative future di chi è ristretto. Perciò si presenta come scambio di pensieri "diversi" che, come la mente, non possono essere trattenuti dalle sbarre, e che sanno confrontarsi e valorizzarsi reciprocamente proprio perché diversi. Abbiamo lavorato molto per questo primo numero rendendoci subito conto che far parte di una redazione vuol dire scambiare opinioni, anche vivacemente, controbattere e finanche arrabbiarsi. Quale titolo dare? Cosa deve esprimere? A chi deve essere rivolto? Quali obiettivi raggiungere? Come impostarlo? Sono stati interrogativi che ci hanno portato ad esaminare metafore e miti come quello di Icaro, dell’albatros, degli Argonauti. Abbiamo trattato temi d’attualità e portato avanti riflessioni sul nostro stato detentivo con la convinzione di abbattere quelle barriere del pregiudizio che pongono il bene e il male sempre e solo da una parte.
La Redazione
Il giornale per i detenuti (… e non solo), di Francesca Rennis (responsabile progetto)
È percepito come uno strumento di comunicazione, di crescita individuale e collettiva, ma soprattutto come elemento di speranza "in prospettiva" di un ritorno alla vita normale, fuori dai cancelli di Contrada Deuda. Il periodico della Casa Circondariale di Paola è uno spazio che dovrebbe raggiungere come un eco altri spazi, quelli della solidarietà e delle istituzioni. Cosa raccontano i detenuti? Scrivono, riflettendovi, sulla propria esperienza detentiva; comunicano i propri disagi, la propria rabbia velandola anche con l’ironia; cercano di proiettarsi in un futuro rintracciando i tratti, a dire il vero ancora poco visibili, di nuove prospettive, di lavoro, di integrazione sociale, di fiducia. Uno sforzo che avviene sul doppio binario della crescita personale, interrogando il proprio sé, e della conoscenza dell’esterno. Pertanto gli interventi nel gruppo sono finalizzati a valorizzare l’ascolto e il dialogo in un percorso di educazione alla legalità chiamato, appunto, "In prospettiva". Nonostante le numerose difficoltà, la conoscenza dei reclusi in questi anni di attività (siamo al terzo) ha rinforzato il convincimento che il recupero e il reinserimento sociale sono possibili quanto indispensabili anche per la società civile e che, pertanto, è possibile fermare la reiterazione del reato soprattutto tra i giovani. Il periodico dovrebbe approfondire i temi legati alla reclusione e non solo da parte dei detenuti in quanto si presenta come strumento operativo di sensibilizzazione e di promozione per diversi ambiti della società civile, dalle scuole, agli enti locali, al volontariato, alle parrocchie. Voglio ringraziare, allora, chi sostiene l’iniziativa a cominciare dalla direttrice della Casa Circondariale, dott.ssa Caterina Arrotta, e dall’educatore, dott. Domenico Speranza, al direttore di SanMarcoCaritas, don Ennio Stamile, alle amministrazioni comunali del Tirreno cosentino che si sono lasciati coinvolgere dal progetto con inaspettata sollecitudine e sensibilità. Un ringraziamento particolare va sia alle guardie penitenziarie e al loro comandante Nilo Antonio Russo sia al dott. Ermanno Loise che da quest’anno mi affianca con tutta la sua disponibilità e professionalità nel portare avanti il progetto fatto proprio dalle Caritas diocesane di San Marco Argentano-Scalea e Cosenza-Bisignano.
Riflessioni …sottovuoto
Dove il silenzio è assordante, di Mauro Predoti
In un attimo senti che la tua vita non t’appartiene più, la vedi portata via, non sei più tu a decidere quanti passi vuoi fare, l’impatto con il carcere è uno dei più duri e atroci che si possono presentare nella vita di un individuo. Ti vedi rinchiuso in una stanza, e poi il susseguirsi di una procedura tutta particolare: le foto segnaletiche con alle spalle un muro bianco con delle misure, la tua mano non più padrona, ma presa da una guardia che te la passa su un inchiostro indelebile non solo sulla carta, ma nel tuo animo. Tutto ciò speri che sia solo un incubo, fino a quando non ti svegli la mattina e ti accorgi che, quello che speravi fosse solo un brutto sogno, è invece la realtà del momento. Strappato via dalla famiglia, senti quel senso di vuoto, d’isolamento: osservi gli altri che ti sembrano rassegnati in questo inferno e allora l’angoscia ti sale sempre di più, perché ti rendi conto che questo luogo non ti può assorbire, perché tu non ne fai parte. Ma inesorabilmente il tempo passa, le lancette segnano le tue rughe, i tuoi acciacchi, e quando guardi un calendario ti accorgi che sono anni che sei al buio e l’unica luce è quella del tuo cuore che essendosi spaccato emana un bagliore che acceca per la sua intensità. Solo tu non ti sei indurito, e per quanto cerchi di dimostrare di essere una roccia, sai che in realtà sei solo un granello di sabbia al vento, e il vento è lo Stato, quello Stato non più con la "S" maiuscola in cui credevi, ma solo un inganno che ti ha rovinato l’esistenza. L’unica speranza è quella di addormentarti e non sentire il silenzio che è assordante attorno a te. Queste sono solo una parte delle sensazioni che si provano qui.
L’ora d’aria, di Giovanni Maselli e Pasquale Giacobbe
La prima volta che sono entrato in istituto, è stato un mezzo trauma che si è completato quando, dalla mia finestra che si affaccia ai passeggi, ho visto i detenuti andare avanti e indietro instancabilmente in quel piazzale ristretto e con un solo divertimento: il Calcio Balilla, oltretutto rotto! Per un pò di tempo, ho creduto di essere in un manicomio, perché vedevo le persone andare avanti e indietro convulsamente e nello stesso tempo in modo ordinato. Insomma, senza che alcuno intralciasse la camminata lenta o svelta dell’altro! Era per me strano. Non riuscivo a decodificare questo comportamento a dir poco assurdo!!! Da allora, e ne è passato di tempo, sono riuscito a dare un senso e una risposta ai miei pensieri e alle domande di allora. Oggi capisco che "scendere ai passeggi" è un modo per sgranchirsi le gambe, un modo di socializzare magari giocando a carte o sfogando con un amico quello che dentro ti rode e ancora di più, il passeggio è importante per sapere e scoprire cose che ti servono anche all’interno dell’istituto. Il più delle volte le divergenze che nascono all’interno della sezione si appianano al passeggio poiché tra noi vige la legge del rispetto reciproco, e davvero raramente le questioni degenerano. Non conviene a nessuno che questo accada, siamo tutti mozzi, marinai e capitani sulla stessa piccola barca in cui giova vivere civilmente, nel rispetto degli altri e di noi stessi. Scendere ai passeggi fa bene anche alla salute, per digerire camminando o fare ginnastica o footing in modo che, quando esci in libertà non sei privo di forma o con quella "pancetta" che stando chiusi venti ore al giorno si impossessa del nostro corpo e ci segna il fisico a volte in modo irreparabile specie ad un’età come la nostra, ovvero quella degli …anta!!! In ogni modo i passeggi, minuto dopo minuto, per noi sono importanti più di quanto si possa immaginare.
Il tempo in carcere, di Bruno Amante
In carcere il tempo viene percepito come una dimensione diversa. Mentre fuori scorre velocemente e diventa problematico anche crearsi un piccolo spazio da dedicare alle passioni e agli hobby, qui, al contrario, si trascina lentamente, e il vero problema sta nel trovare qualcosa per poterlo impegnare nel modo più costruttivo. Si dà sfogo a doti artistiche che neanche sapevamo d’avere. Molti esprimono il loro pensiero con la pittura, altri si cimentano con la poesia o facendo lavoretti artigianali. La lettura è un altro modo di passare il tempo, ma anche una scusa per arricchire il proprio bagaglio culturale ed evadere col pensiero. A qualcuno i lunghi momenti di riflessione sono serviti per abbandonare le vesti da materialista (deluso da quelle che erano le aspettative e dalle illusioni di un modello alquanto irraggiungibile) per abbracciare la fede e crescere spiritualmente dedicandosi molto alla preghiera. Perché qui si ha bisogno di aggrapparsi a qualcosa per rendere meno dolorosa la propria esistenza. Ogni modo di passare il tempo ha comunque il solo scopo di trarre del positivo da una esperienza traumatica e negativa come la detenzione, perché è forte la voglia di riscatto. Penso, infatti, che se i valori risentono dal contesto familiare e dall’educazione ricevuta, i sentimenti, invece, fanno parte della natura dell’uomo. E noi ci consideriamo tali a dispetto dell’ostilità che ci circonda e contro il parere dei più ostili e intolleranti che ci vorrebbero mantenere ghettizzati e relegati nel luogo più lontano, in modo da non essere disturbati nemmeno dal nostro grido di perdono.
L’orario fuso, di Massimo Votano e Salvatore Carlo
L’ora legale e l’ora solare hanno ognuno la loro importanza nel mondo del carcere: l’ora solare la possiamo considerare comoda perché, essendo le giornate fredde, passiamo molto tempo a cercare un caldo riparo sotto le coperte e vedere la tv. Le giornate oltre ad essere belle sono anche corte, quindi dopo cena s’indossa subito il pigiama (non a righe!) e come di consueto ci si mette a letto. In questo periodo passiamo più tempo orizzontalmente che verticalmente; ci sembra che il tempo scorra più lento perché durante il giorno facciamo poco o niente. L’ora legale possiamo considerarla amata e odiata; amata perché inizia con la primavera ed è come risvegliarsi dal letargo, apprezziamo di più le giornate e ci togliamo gli abiti pesanti; abbiamo più libertà di movimento perché possiamo fare sport o altre attività. Odiata perché quando arriva l’estate le giornate sono più calde, più lunghe e sembrano interminabili; vorremmo che arrivasse presto la sera, ma dormire non è facile per il troppo caldo e quando appena si riesce a prendere sonno ecco che arriva l’odiatissima quanto fastidiosa zanzara. Insomma, l’ora legale acuisce il lento scorrere del tempo in carcere già rigidamente programmato: le lancette dell’orologio che precedono quelle della natura ci impongono di andare a dormire con la luce del giorno e di svegliarsi che il sole non è ancora spuntato. "Fuori", invece, un’ora prima o un’ora dopo non faceva alcuna differenza perché l’incalzare della quotidianità, la frenesia del ritmo giornaliero non faceva riflettere sull’ora, ma sul tempo. E questo fa la differenza.
Sulle orme di San Francesco. In occasione del 3 maggio, giorno in cui la statua del Santo paolano ha raggiunto la Casa Circondariale, un messaggio d’amore percepito dall’anima di Francesco Bevilacqua
Sono molti anni ormai che studio appassionatamente le opere letterarie in cui è narrata la vita, il messaggio, la missione, i luoghi del frate di Paola. Una figura di una luce accecante che l’Eterno, nella sua infinita misericordia, ha voluto donare all’umanità sempre più povera di spiritualità e d’amore. La luce di quella carità che è il tema centrale della predicazione di Francesco. In tutte le sue azioni, dal suo umile cuore, usciva sempre con calore veemente e intenso la parola "charitas": "facciamolo con carità"; "andiamo per carità". E dopo molti anni dalla sua scomparsa, Francesco, ci comunica ancora, e sempre con lo stesso ardore, che ognuno di noi deve possedere la fiamma della carità. Ci insegna che la carità è soprattutto grazia dell’anima, desiderio ardente del nostro Creatore che si interessa di noi e delle cose esterne; ma specialmente apertura agli altri. Infatti l’amore verso il prossimo è il potere che non avrà mai fine; il potere più importante che bisogna avere racchiuso nei nostri cuori se vogliamo realizzare la tanto desiderata pace dentro di noi, intorno a noi e in seguito in tutto il mondo. Seduto tra i banchi in chiesa aspettavo con ansia che arrivasse, dove lo spazio è oscuro e il tempo è maledettamente lento e ostile, la statua del Santo più itinerante della storia di Calabria. Ai primi banchi, silenziosi e in sentita preghiera, sono riunite personalità politiche e responsabili dell’istituto penitenziario del litorale tirrenico. Sono in molti in chiesa ad accogliere la statua del santo con un solo abbraccio e con quel sentimento vivo e intenso di gioia stampato sul volto. Le porte di ferro sbarrate si aprono per permettere l’ingresso della statua del Santo, e con un rumore assordante si chiudono di nuovo lasciando un freddo brivido lungo la schiena di chi faticosamente porta sulle proprie spalle la figura scolpita del condottiero di Dio. Eppure tra quelle anime rinchiuse, spogliate dalla vita, quel giorno c’era una uguale solidarietà, un senso di fraterno accoglimento seminato sia dalla precarietà dell’esistenza, ma anche dall’omelia. Sul presbitero una fila di frati officiava la messa e qualcuno innalzava canti di lode al Signore, circondato da persone segnate da un destino crudele che li ha privati del bene più grande: la libertà. Al termine della messa tutti hanno attorniato la figura di San Francesco con le mani tese verso di lui per toccarlo anche repentinamente e baciarlo in segno di rispetto e venerazione. Come Cristo, infatti, ha saputo predicare la Buona Novella tra la gente umile e fra i potenti della terra senza mai farsi condizionare ed impressionare dal male radicato nel mondo e nelle oscure coscienze degli uomini e come Paolo, l’Apostolo delle genti, ha saputo rinunciare al mondo, perché chi è amico del mondo si costituisce nemico di Dio. Fisso il suo volto austero e avverto che vuole comunicare qualcosa al mio cuore, alla mia anima provata da anni di lunghi sacrifici. Quel volto, dopo secoli di storia, vuole comunicarmi un chiaro messaggio d’amore, di fratellanza, di speranza, perché il peso che mi trascina giù e che mi tiene ancorato a terra, pian piano si possa sciogliere dandomi un senso di benessere e leggerezza. Niente può incatenare l’anima, niente può togliere la sua essenza divina perché è una parte di tutto ciò che è, che non ha né inizio né fine, che è eterno e illimitato e non può essere confinato o rinchiuso dentro le sbarre, perché è l’espressione più alta dell’amore e l’amore è la libertà. Gli occhi del Santo eremita continuano a fissarmi e a parlare alla mia anima e dirgli che la sofferenza non è che un mezzo, uno strumento con il quale è possibile, attraverso la coscienza del proprio sé, oltrepassare la barriera del non-sapere per raggiungere una comprensione più ampia e per capire che ogni esperienza nella vita, per quanto sia difficile, offre sempre l’occasione per crescere e arricchirsi interiormente e senza la quale la scalata verso la vetta sarebbe più lunga da percorrere. La sua figura si allontana, ma la sua presenza rimane a vegliare su noi tutti suoi devoti, dalla casa del Padre ci chiama ancora e ci invita ad ascoltare le sue parole d’amore e ad essere costruttori di pace perché la pace è legata alla crescita dell’impegno umano collettivo.
Prometeo. "Le catene da cui liberarsi", di Giuseppe Frattaruolo
La "liberazione" non è quella che giunge per tutti a fine pena, ma quella dalle catene che costringono a… una vita dagli orizzonti limitati. «Purtroppo quando si prende una certa strada»; «Una volta fatta una certa scelta…», «Non c’è altra possibilità», sono alcune della frasi che si ascoltano dai detenuti che fanno capire quanta rassegnazione è presente in quelle vite. Terminato di scontare la "pena" (?!), si torna nel proprio ambiente che ancora una volta sarà l’unico ad offrire sicuri riferimenti e a permettere di conservare un’identità. Alla fine si accetta che quello è il proprio destino, che non è realisticamente possibile cambiare radicalmente vita. Certo non tutti spingono la riflessione sulla propria condizione fino a prenderne piena coscienza, ad avere quella triste sensazione che c’è altro cui si potrebbe aspirare, da cui si è esclusi. La gran parte si trascina in una vita che appare vissuta pienamente con tutte le emozioni: piacere, conquista, esaltazione, senso di trionfo, appagamento e poi paura, privazione, delusione, disperazione, sofferenza. Del resto non è così per tutti? Allora cosa distingue la gran parte dei reclusi dagli "altri"? L’esiguità di vere occasioni di provare "un’altra vita"? Una diversa sensibilità per le conseguenze delle proprie azioni, prima di ogni altra la sofferenza? Il vedere gli "altri" come privilegiati e serbatoio di potenziali vittime? Certamente questo e tant’altro, ma siamo sicuri che siano loro prerogative? Forse la differenza è più sottile e nello stesso tempo banale: le Regole vanno rispettate, la libertà d’azione è limitata da steccati ben codificati e questo vale anche per quelle non scritte, scavalcarli a piè pari provoca la reazione di difesa, il "contenimento". Se guardiamo alla condizione umana, alla sua Storia e alle sue storie quotidiane, vedremo l’Etica, a prescindere dalla Morale su cui si fonda, ridursi, degradarsi a "fatto estetico". A fronte di una sostanziale e pressoché unanime accettazione del tipico agire umano, non si tollerano le "sbavature". Chi, se non la cosiddetta "società civile", dovrebbe avere interesse e farsi carico di questa liberazione? Sembra invece che, a sua volta prigioniera di altre catene, punti solo al contenimento in livelli fisiologici" della "devianza", come di altre condizioni di miseria ed emarginazione, non comprendendo che finché ci saranno uomini incatenati nessuno sarà veramente e completamente libero.
La felicità del vivere quotidiano, di Pasquale Giacobbe - Mario Attanasio
Ci sono momenti in cui tante cose s’ignorano, o meglio dire, non ci si fa caso. Piccoli gesti, piccoli emozioni che possono sembrare banali, ma nel momento in cui ti vengono a mancare, percepisci la loro grandezza a la loro importanza. Dare il bacio della buona notte ai propri figli, rimboccargli le coperte, accompagnarli a scuola, dare a loro quell’affetto e quell’amore che li fa sentire protetti. La sera starsene sul divano e sentirsi chiedere "Papino mi prendi in braccio?" fino ad addormentarsi abbracciati. Piccole cose, gioie quotidiane, felicità sottratte da un momento in cui prende il sopravvento la stupidità, l’impulsività, l’immaturità, insomma quell’attimo maledetto, lo stesso che ha deciso di chiuderci fra quattro mura. Solo adesso si prende coscienza di quello che si è perso: la felicità.
"Caro Euro" (dopo un corso di formazione sull’uso dell’euro), di Massimo Votano - Luca Francesco Perri
Caro Euro, no, non t’illudere, quest’aggettivo non te lo diamo come si dà ad un amico (caro amico), ma te lo diamo per sottolineare la tua reale importanza. Ti sei introdotto senza chiederci il parere ed il consenso, sconvolgendo la nostra vita. Ti sei mimetizzato con la nostra vecchia moneta, le 500 lire, familiare e di poca importanza, ma con te dobbiamo usare molta diffidenza perché questa tua mimetizzazione l’hai mirata su due obbiettivi: il primo è quello di tenere vivo il ricordo dell’uso "leggero" della nostra vecchia 500 lire; il secondo è quello di rendere fastidioso e ingombrante la tua presenza in tasca tanto da volerti togliere di mezzo senza pensarci due volte. L’informazione su di te, che ha preceduto la tua introduzione come moneta nella vita quotidiana, non è servita a capire il tuo utilizzo pratico. Ancor oggi, a tre anni dalla tua introduzione, il disagio e la confusione fra la gente è enorme. A svantaggio di chi ti usa, c’è un gioco d’illusione matematico: un Euro viene istintivamente rapportato alle vecchie mille lire, dieci Euro sono considerati per istinto diecimila lire ed invece non è così. Caro Euro, permettici di dirti che "amico" lo sei di pochi, nemico di tanti!
Dal nostro punto di vista… l’ordinamento giudiziario
Sentenze astratte. Riflessioni sulla detenzione preventiva , di Pasquale Giacobbe, Mario Attanasio, Giovanni Maselli, Salvatore Gullaci
La detenzione preventiva avvolge le conclusioni future dell’istruttoria in un formidabile pregiudizio negando il lavoro di indagine dei giudici istruttori, lo basa su un rapporto di forza e alimenta nell’imputato in carcere un senso di vittimismo. Sconta di fatto una pena che non è stata ancora pronunziata. In questo scontro frontale, preliminare, violento e illegittimo con l’istituzione, l’imputato non ha la possibilità di assumersi la responsabilità del suo delitto, di seguire il corso dell’istruttoria, di adottare un atteggiamento costruttivo con il giudice. Gli è inoltre impossibile gestire la sua detenzione, iscriversi a corsi scolastici, intraprendere una formazione professionale, un lavoro. Al momento del giudizio, la pena detentiva pronunziata sarà inglobata nella carcerazione già scontata illegittimamente e, quindi, avrà perduto qualsiasi speranza di avere un significato. Una pena troppo pesante diffonde una sensazione di errore giudiziario: la giustizia non si applica allo stesso modo per tutti. Questi sentimenti d’ingiustizia, di rivalsa, minano contemporaneamente qualsiasi capacità di riconoscere un senso alla propria pena: questa è a sua volta condannata dall’incomprensione. Sentenze astratte, non sprecate e inesplicabili, percepite come arbitrarie e irrazionali: la detenzione preventiva è un periodo di allontanamento della pericolosità, un periodo di riparazione che potrebbe far cadere nell’errore che l’uomo possa essere meno pericoloso dopo un lungo periodo anziché dopo un breve periodo di detenzione. Secondo noi, invece, si traduce in una durata sproporzionata del carcere che non trova giustificazione soprattutto se al momento del giudizio si viene riconosciuti innocenti. Da qui nascono interrogativi che il più delle volte rivaleggiano con l’assurdo del quotidiano.
Il carcere, da edificio di esclusione sociale e umana a luogo di recupero, di Pasquale Giacobbe, Mario Attanasio, Giovanni Maselli, Salvatore Gullaci
Simbolicamente il carcere dovrebbe rappresentare la giustizia, cioè il discriminante tra quello che viene ritenuto accettabile e quello che non lo è. Tra le questioni su cui interrogarsi pensiamo a quella riguardante l’esistenza stessa delle carceri, ma anche a quella se sia giusto o meno infliggere punizioni aggiuntive a chi è già privato della libertà. Su questo punto la cultura architettonica dovrebbe intervenire cominciando a farsi carico dei problemi abitativi e di vivibilità degli istituti di pena. Al momento in cui il carcere diventa il luogo dell’emarginato, del rimorso, la situazione diventa paradossale. Una parte della società se anche riconosce la sua necessità non riesce a percepire l’attuazione della condanna come un valore. All’interno del tessuto urbano la funzione simbolica delle carceri è molto forte. In un certo modo il carcere dà la misura della libertà per chi non vi è costretto. Basta passare, infatti, davanti a un carcere che il suo aspetto inquietante restituisce la consapevolezza della propria libertà. Sono libero perché non sono in carcere. L’allontanamento delle carceri dal centro cittadino non pensiamo sia determinato solo da motivi economici o di sicurezza. A livello politico si ripropone lo stesso problema delle discariche o degli inceneritori. Un’analogia indicativa perché come le discariche nessuno li vuole vicino casa, ma ciò non significa non costruirli. Da qualche parte i rifiuti bisogna pur metterli!
"La patologia del detenuto", di Giovanni Maselli e Pasquale Giacobbe
Deriva dall’incuria, dall’abbandono e, soprattutto, dal desiderio di annientarsi. Tali stati d’animo sono così presenti ed insistenti fra i detenuti da rappresentare un fenomeno talmente vasto, da giustificare la richiesta per l’istituzione della figura del "garante dei detenuti" che vigili sulle condizioni di vita in carcere, a cominciare dall’assistenza sanitaria. Negli ultimi anni è quasi raddoppiato il numero dei detenuti morti per malattie e suicidio. La riforma attuata anni fa, per cui le competenze della sanità intramuraria, sono passate dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità, "purtroppo" è stato accompagnato da un drastico taglio delle spese: la presenza dei medici specialistici in carcere si è ridotta del 40% e a volte (quasi sempre) mancano i soldi per l’acquisto dei farmaci "salvavita". A togliersi la vita in carcere o ad ammalarsi sono più gli italiani che gli stranieri, più i giovani che gli anziani. I giorni immediatamente successivi all’ingresso sono quelli più ad alto rischio. Da tutto ciò possiamo dedurre che il problema "dell’affettività" in carcere è parallelo a quello della patologia. Per evitare il manifestarsi di patologie sono in atto alcune sperimentazioni come quella nelle carceri romane che permettono al detenuto di continuare a partecipare alla vita sociale. Si tratta di un piano nato dalla collaborazione dell’amministrazione comunale e penitenziaria che considera il carcere come una città e i detenuti suoi cittadini. I settori interessati sono: socio-sanitario, delle pari opportunità, stranieri, donne con figli, transessuali, giovani e adulti ultrasettantenni), la formazione, il lavoro, la cultura, la scolarizzazione e lo sport. In base a questa pianificazione del carcere si è pensato di dare vita alla "città" proprio come ad una amministrazione comunale qualsiasi. Per quanto riguarda la salute, in particolare, si è pensato alla fornitura ospedaliera dei medicinali della fascia "C". si è pensato, inoltre, a convenzioni con enti locali e imprenditori per l’erogazione di borse di lavoro per un anno, formazione e servizio di tutoraggio facendo impegnare l’imprenditore a tenere ex detenuti presso il posto di lavoro e obbligare l’ente locale a sgravi fiscali per il datore di lavoro. I detenuti possono produrre, secondo le loro capacità, oggetti vendibili anche "on-line", frequentare i corsi universitari per lauree brevi, come quella infermieristica, che potrebbero essere diffusi anche nelle altre carceri per dare un’opportunità di lavoro a pena ultimata. Fissando il rispetto della persona come priorità, pertanto, si possono affrontare con una mentalità nuova problemi prima insolubili.
Il sondaggio, di Pasquale Giacobbe – Mario Attanasio
Su e giù per la sezione, tv accese ad alto volume, in ogni cella c’è chi dice la sua su questa o quella donna. Impazza il programma "Uomini e donne". Si rischia addirittura di diventare gelosi se il compagno di cella fa delle affermazioni da censura sulla ragazza che piace all’altro, si rischia la rissa, urli, insulti, ma tutto rientra "è solo tv" ahimè! Se qualcuno vuole osare, deve sperare che quella ragazza di notte venga in sogno. Ma proprio questo ci ha spinto ad effettuare un sondaggio fra tutti i "compagni" al fine di scoprire la nostra donna dei sogni. Allora via si parte, cella per cella, bava alla bocca qualcosa che dovrebbe essere espresso in pochi secondi, sta per trasformarsi ora in un film d’amore, meglio così. Quella che stiamo per descrivere è veramente la donna dei sogni. Che non sia un campanello d’allarme per le nostre mogli o fidanzate, è solo un gioco. Via con la classifica… e tra battute e pettegolezzi passiamo un pomeriggio diverso. Caldo sotto alcuni aspetti, ma lancinante sotto altri. Alla fine della serata ognuno di noi si sta preparando per mettersi sotto coperta, ed è li che ci si accorge che forse, anzi sicuramente, la donna dei suoi sogni è quella che in quel momento avrebbe dovuto trovarsi al suo fianco, poterla coccolare e raccontarle gli eventi di una giornata di trambusti, ma al danno la beffa, perché la donna dei sogni rimane tale e la tua, quella che ami e che hai lasciato da sola è troppo lontana da te, sicuramente al di là di quel maledetto cancello!
Eventi - L’ho letto… ho scritto
Herman Melville - Bartleby, lo scrivano (Una storia di Wall Street) Recensione di Giuseppe Frattaruolo
New York, metà ottocento, la Wall Street degli affari. Un legale nominato magistrato della Corte di Equità, il suo ufficio, i suoi impiegati. Bartleby è il nuovo scrivano, si mostra da principio lavoratore indefesso e silenzioso, ma già da pochi giorni, inspiegabilmente, inizia a rifiutarsi di eseguire gli ordini, senza arroganza, con decisa dolcezza, con un "preferirei di no". Sono proprio i modi a turbare il Magistrato, a impedirgli di licenziarlo. L’infruttuoso tentativo di comprendere quei misteriosi rifiuti, gli fanno venir meno quelle certezze supposte largamente accettate, ma Bartleby appare, per l’appunto, "uomo di preferenze più che di supposizioni..." «"Preferisco di no", rispose con voce flautata. Mi parve che, mentre mi rivolgevo a lui, egli soppesasse con attenzione ogni mia frase, ne comprendesse pienamente il significato, non potesse confutare l’ineluttabile conclusione, ma che, nello stesso tempo, una qualche suprema considerazione lo costringesse a rispondere in quel modo». Pur essendo il primo al mattino e l’ultimo la sera, la presenza dello scrivano si fa sempre meno operosa fino al rifiuto di svolgere qualsiasi lavoro, ma sempre con quei modi "lievi e rispettosi". Il Magistrato è combattuto e perplesso, quella di Bartleby è una presenza di cui vorrebbe liberarsi, ma l’azione presuppone un minimo di comprensione di quella imperscrutabile persona, quali segreti nasconde? Cosa lo spinge a quei rifiuti? Cosa si propone? Nulla trapela e, deliberatamente, niente si saprà fino alla fine. Il racconto ci comunica che voler capire sempre e comunque l’atteggiamento degli altri, così da poterlo ridurre ai nostri schemi di comprensione, può alle volte infrangersi contro l’irriducibile libertà soggettiva, non segreti da svelare quindi, ma l’immensa complessità dell’animo umano e la sua capacità di infinite sfumature nel reagire alle vicende della vita. Bartleby rifiuterà ogni offerta di aiuto e "preferirà" restare in quell’ufficio anche quando il magistrato si deciderà a traslocare. La conclusione è tragica: i nuovi inquilini lo faranno arrestare e condotto alle "tombe", com’erano chiamate le carceri, si lascerà morire "preferendo non lamentarsi". Un uomo capace di dire no fino alle estreme conseguenze, non una contrapposizione dura, non lotta contro una visione della vita incondivisa, ma forse "…uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione". Il precedente lavoro di Bartleby, impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite a Washington, di cui veniamo a conoscenza in chiusura, senza calzare e accentuare tale natura. Lettere smarrite, morte, che contengono frammenti di storie umane, speranze, illusioni, gesti mai arrivati a destinazione e come questi destinati a perdersi.
Il libro, di Bruno Amante
Pagine vecchie ingiallite dal tempo. Emozioni e sentimenti repressi, intrappolati dalla ragnatela dell’egoismo. Messaggi muti, grida di aiuto soffocati dall’indifferenza. Lì sta scritta la mia vita riposta in uno scaffale. Ad impolverarsi d’ipocrisia, dove mai nessuno andrà a leggerlo. Ho tanto da dare e coltivo la speranza che qualcuno un giorno lo apri per guardarci dentro. Mi auguro ci trovi ancora l’attualità di un uomo, scritta con l’inchiostro rosso della sofferenza e non la storia di un fantasma.
Dalle ceneri, di Bruno Amante
Il cimitero dei sogni e delle ambizioni. Alte e spesse mura, cancelli e grate per reprimere il mio esistere e isolarmi da una società schiva e intollerante. Nudo di valori e alla mercé di plagiatori. Non soccombo Costruisco la corazza. "Speranza". E affilo l’arma. "Volontà". Per partire nella crociata della vita ho perso la battaglia, non perderò la guerra. Combatterò per quei valori che troppe volte il mio egoismo negava. La scuola della sofferenza ha fatto maturare un uomo.
Incontro con l’autore, di Giuseppe Frattaruolo
Oggi, 28 maggio, all’interno della Cappella della Casa Circondariale si è svolto il primo di un’annunciata serie di incontri con l’autore, momento chiave del progetto "Un libro dietro le sbarre" promosso dalle assistenti volontarie e con il favore della Direzione dell’Istituto. Scopo dell’iniziativa è promuovere la lettura tra i detenuti, ritenuto momento altamente educativo e capace di fornire gli strumenti per una corretta comprensione della realtà umana e sociale, potenzialmente occasione per una riconsiderazione del proprio vissuto e stimolo a ricercare percorsi di vita di più alto valore. Il primo gradito incontro è stato con lo scrittore e poeta Attilio Romano, figura di rilievo nella realtà culturale di Paola e delle Calabria, pronto e disponibile a confrontarsi anche con le situazioni difficili presenti sul territorio, come la vita carceraria. Dopo una breve presentazione, l’illustre ospite ci ha esposto il suo pensiero su temi inerenti l’attività artistica. Predilige la scrittura in italiano per la prosa e la saggistica, riservando il dialetto per le composizioni poetiche in quanto capace di una maggiore immediatezza espressiva. I temi ispiratori sono quelli del vissuto personale, sia come specchio degli stati d’animo più intimi che riflessi dalla realtà in cui ha vissuto. Conservare la capacità di avere dei sogni permette di non cedere agli inevitabili momenti di pessimismo. L’amore, in tutte le sue forme è il sentimento con cui vivere le esperienze e attraverso il quale confrontarsi. L’Arte, come espressione dell’animo, è strumento che ci fa avvicinare a Dio; come tale però mostra la sua finitezza, la sua capacità parziale. La pubblicazione delle opere è vissuta come una sorte di confessione pubblica. Sono rare le occasioni di ascoltare dalla viva voce dell’autore la sua produzione ed è quanto accaduto nella spazio utilizzato di solito per il culto e per incontri di rilievo. Si sono alternate poesie dedicate a personaggi popolari: "Zu Pippinu", "U figliu d’a Madonna", dedicate all’emigrazione, al primo amore. Notevole il suo impegno per far conoscere la vita e le opere di San Francesco da Paola; contestualmente abbiamo ascoltato la registrazione di alcuni canti del recital "‘U santu nuostu". Un momento molto emozionante e rappresentativo della partecipazione dei detenuti è stato quanto uno di noi ha letto sue poesie ricevendone apprezzamento e stimolo a continuare. Ancora un grazie ad Attilio Romano per averci regalato momenti così intensi nella routine di tutti i giorni.
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