Facce & Maschere

 

Facce & Maschere

giornale di San Vittore numero 13 – 2003

 

Sanità penitenziaria, non abbassare la guardia

La sanità in carcere

Ancora sui tagli

Bollate: un passo avanti due indietro

Bollate: tutto affonda

Circolo vizioso

Regole perse col tempo

Punto di vista

In comunità

La Nave

Maschi e femmine in carcere

Sanità penitenziaria, non abbassare la guardia

 

di Marco Alita

Lila Milano Onlus - Progetto Ekotonos

 

Milano, luglio 2003, Piazza Filangieri, 2: "… aspetto da due mesi l’appuntamento con l’infettivologo perché prima della carcerazione mi hanno detto che devo fare l’interferone per l’epatite C, ma non ho ancora visto nessuno e non so niente delle mie transaminasi…" "… ho fatto il test per l’HIV il 7 aprile e non ho ancora avuto l’esito…" "… prima di cambiarmi la terapia per l’HIV il medico ha controllato nell’armadietto quali farmaci erano disponibili…".

Scene di ordinaria amministrazione nella torrida estate di San Vittore, questi sono soltanto alcuni dei racconti dei detenuti che stanno vivendo sulla propria pelle la grave crisi del sistema sanitario penitenziario, crisi che ha raggiunto in quest’ultimo periodo uno dei punti di maggior picco.

Si è evidenziato in tutta chiarezza infatti, se mai ce ne fosse stato bisogno, lo scenario drammatico derivante dalla riduzione dei fondi per la sanità in carcere in atto ormai dal ‘99. Personale infermieristico insufficiente, medici specialisti pressoché assenti, scarsa disponibilità di farmaci.

Naturalmente per i farmaci il problema riguarda solo chi non può farseli portare dall’esterno, e prontamente un Ordine di servizio separa dalla quota di spesa individuale dei detenuti l’acquisto di farmaci.

Chiaramente un intervento di riduzione del danno, in attesa che la situazione possa tornare alla "normalità". Quale però ?

La Lila di Milano, che opera all’interno di San Vittore nell’ambito del progetto Ekotonos, si è incaricata di verificare in particolare la situazione per le persone con HIV ed epatiti e, nonostante da più parti venga sottolineato che i farmaci antiretrovirali non mancano e i medici infettivologi non sono compresi tra gli specialisti che hanno sospeso il servizio, il quadro che emerge è quello di una carenza che va consolidandosi, di lunghi tempi di attesa per visite ed esami, di cambiamenti nella combinazione dei farmaci non concordati con i pazienti, e in generale di un’area di assistenza di difficile accesso per i detenuti e dove le persone si sentono in generale poco seguite, quando non dimenticate.

È presto per fare un bilancio preciso del livello di gravità della situazione, poiché vanno verificate con attenzione le situazioni che verranno via via individuate, ma è evidente che anche solo la percezione diffusa, tra le persone detenute sieropositive o con epatiti, che la loro salute sia considerata un aspetto di poco conto, aggiunge ansia e sofferenza a quella già quotidianamente vissuta per la condizione detentiva.

Noi continueremo a monitorare nel tempo la situazione e a segnalare anche le questioni più gravi ed urgenti di cui verremo a conoscenza, in accordo con le altre realtà di Ekotonos e con la Direzione, convinti come siamo che il diritto alla salute e alla cura non sia prerogativa di alcuni cittadini ma di tutti.

La sanità in carcere

 

di Donatella Zoia

 

Cosa sta succedendo della sanità a San Vittore? E, più in generale, cosa sta succedendo alla Sanità all’interno delle Carceri?

Sono due domande che sicuramente si stanno ponendo tutti i detenuti, ma anche molti operatori, dell’area sanitaria e non, visto quanto è successo nelle ultime settimane.

La risposta a queste domande è molto semplice: hanno tagliato i fondi per la sanità penitenziaria, e li hanno tagliati senza alcun criterio. Voglio dire, cioè, che non c’è stato un lavoro di riflessione e programmazione che ha valutato bisogni, necessità, risorse e in base a questa valutazione ha poi programmato la spesa sanitaria. No, non è andata così.

Semplicemente, a un certo punto, qualcuno ha detto: "L’anno scorso avete speso 100, per la sanità nel vostro carcere? Bene, quest’anno vi do 40".

 

Le conseguenze immediate sono state:

 

la riduzione del numero degli infermieri (e, di conseguenza, grossi problemi nella gestione dei reparti, delle terapie farmacologiche, dell’organizzazione degli ambulatori di reparto ecc.);

la sospensione del servizio degli specialisti: per qualunque problema di pertinenza specialistica e per tutti gli accertamenti strumentali (dalle radiografie alle ecografie agli esami del sangue) i detenuti sono stati inviati all’esterno, negli ambulatori degli ospedali cittadini. Con ovvi allungamenti del tempo necessario per visite e accertamenti… oltre a difficoltà di tipo logistico;

la difficoltà ad acquistare alcuni farmaci necessari (ma particolarmente costosi).

 

Grazie alle segnalazioni della Direzione e della Direzione Sanitaria al Ministero, ora un po’ di soldi sono arrivati, e questo ha permesso di riattivare il servizio specialistico e di acquistare alcuni farmaci.

Questo, però, non significa che quello che è accaduto non sia stato un fatto molto grave, e che, tuttora, la riduzione delle ore di servizio infermieristico non creerà problemi e disservizi molto seri. La gravità sta nel fatto che, senza nessuna programmazione e senza nessuna valutazione, da un giorno all’altro, il ministero o chi per lui, abbia deciso di ridurre nettamente i finanziamenti per un capitolo importante della spesa delle carceri: quello della sanità, senza preoccuparsi delle conseguenze di questa riduzione.

Credo che questa situazione sia lo specchio ingrandito di quello che sta accadendo nel nostro paese in materia di politiche e interventi sociali e in materia di sanità pubblica: come sempre in questi casi, chi è poco tutelato lo diventa ancora di meno, e vengono a cadere (o diventano insignificanti) gli interventi di tutela delle fasce più deboli.

Ancora, a volte, si discute del passaggio della Sanità Penitenziaria alla ASL (e al Servizio Sanitario Nazionale). Credo che PRIMA si dovrebbe discutere e decidere quali sono le politiche e gli interventi necessari per garantire, a chi è detenuto (e a chi è privo di mezzi e di risorse), diritti e tutela della salute pari a quelli degli altri cittadini, e agli operatori della sanità in carcere (medici, infermieri, tecnici ecc.) la possibilità di un lavoro serio, professionale e adeguato alle esigenze dei pazienti che si trovano davanti. Solo dopo aver deciso cosa fare e come fare si può decidere chi lo deve fare. Purché vengano date le risorse necessarie (soldi, strumentazione, personale preparato ecc.) per farlo e farlo bene.

Ancora sui tagli

 

Vorremmo segnalare la situazione di invivibilità in cui versa il 2° raggio, comunemente detto COC, e il 6° raggio (terzo e quarto piano). Iniziando dalla situazione sanitaria, che ultimamente ha subito un drammatico peggioramento determinato dai tagli previsti dall’attuale governo al settore sanità e più in specifico alle spese destinate alle carceri.

In pratica, c’è stato un dimezzamento del personale sanitario che già prima di questi tagli era insufficiente a garantire le più elementari necessità della popolazione detenuta. Oltre a questo anche i farmaci sono insufficienti

se non inesistenti, mancano quelli più comuni come antibiotici, antistaminici e antidolorifici e, cosa più grave e drammatica, mancano anche i farmaci salva vita tipo retrovirali e insulina per i diabetici.

Si fa altresì notare che sono state dismesse tutte le attività specialistiche (diabetologo, chirurgo, infettivologo, oculista, dermatologo, dentista, ortopedico).

Finora si è sopperito a queste mancanze con iniziative del singolo dottore e grazie a tanta fortuna, ma non si può delegare la salute alla fortuna, in un paese che si definisce civile. Inoltre, con l’arrivo della stagione estiva sono scoppiate altre emergenze tipo la mancanza d’acqua, casi di scabbia che non vengono adeguatamente curati con il rischio che l’epidemia si allarghi, oltre che tra noi detenuti, anche ai nostri familiari che vengono a colloquio (quindi con il rischio che l’epidemia esca dalle mura del carcere).

Siamo costretti a vivere 5 o 6 per cella per 21 ore al giorno, questo se usufruiamo delle tre ore d’aria al giorno che, invece, da regolamento penitenziario, dovrebbero essere 4. Ricordiamo che le celle sono di 12 mq e quindi invivibili.

Questa promiscuità oltre a privarci della dignità umana mette a repentaglio la nostra sicurezza perché è chiaro che in queste condizioni aumenta in maniera spropositata il rischio di liti e altre dinamiche che possono diventare incontrollabili, come è stato riconosciuto dalle più alte cariche istituzionali e dal Santo Padre nella discussione sull’opportunità di un provvedimento di clemenza.

A sostegno di questo documento ricordiamo che il diritto alla salute è garantito dall’art. 11 O. P. e dall’art. 17 O.P. e dall’art. 27 della nostra Costituzione.

Bollate: un passo avanti due indietro

 

Negli ultimi tempi nel carcere di Bollate si sono verificati alcuni episodi che hanno portato tensioni fra i detenuti e le guardie penitenziarie. L’ultimo episodio - il ritrovamento di una corda o lenzuolo per un’eventuale fuga - assieme a precedenti episodi come il ritrovamento di una pallina da tennis contenente droga e la modifica di alcuni computer per comunicare con l’esterno, hanno portato al restringimento di alcune "libertà" fra i detenuti. Si è aperto anche un dibattito su questi episodi e quello che pubblichiamo, di seguito, sono due contributi a questa discussione scritti dai detenuti C.D.S. e G.D.B., redattori del giornale carte Bollate.

 

Come tutte le evoluzioni della vita, anche nelle carceri si sta cercando di evolversi per far sì che la vita non si fermi dentro le quattro mura. Molte persone, però, quest’evoluzione non la vogliono così da non perdere quella piccolissima fetta di potere che gli consente di dire in modo autoritario: "Fai questo, fai quello".

È anche vero che si fanno delle stronzate come cercare di evadere da un posto che non lo permette, visti i sistemi di sicurezza presenti, oppure farsi una serata per dimenticare le tante giornate di tristezza e mancanza d’affetto. Ma perché penalizzare tutti? Perché penalizzare anche coloro che cercano di trascorrere la propria condanna non come galera, ma come passaggio della propria vita?

Mi vengono in mente le tante guerre esistenti oggi nel mondo e di cui, anche sforzandomi, non trovo i motivi per farle. Anche nelle carceri è in corso una guerra, l’unica e sensata guerra.

Quella che dovrebbe attuare il famoso cambiamento di cui tanto si parla, ma che il governo in carica non vuole. Penso che è proprio su questo che dobbiamo combattere. Non dobbiamo dare loro le motivazioni per affermare che un altro tipo di detenzione non è possibile; dobbiamo dare loro una lezione morale, facendoci noi propositivi e fautori del cambiamento.

Uno dei tanti obiettivi da raggiungere è il confronto costante con le istituzioni per cercare di risolvere, oltre alle problematiche quotidiane, quelle familiari e affettive. L’unico modo, questo, per cercare di scaricare il peso di giornate piene di pensieri esterni, spesso brutti, così che questi non sfocino in tentativi di evasione impraticabili quanto improbabili, atti di autolesionismo o, peggio, in suicidi, com’è effettivamente avvenuto a Bollate.

Bisogna ammettere che in quest’istituto alcune persone tra cui la direzione - si stanno muovendo per cercare di farci trascorrere le giornate di detenzione nel migliore dei modi, come previsto dall’ordinamento penitenziario. Certo, poi, ognuno di noi si assume le proprie responsabilità. So bene che tutto questo, per noi, è un cammino tortuoso, perché siamo detenuti, ma è anche vero che dove non ci sarà un inizio, non ci sarà una fine.

Spero che quest’articolo sia letto anche fuori del carcere. Da coloro che non credono possa esistere questa realtà per fargli comprendere che noi la nostra coscienza la stiamo pagando con la mancanza di libertà e di affetto. Loro, se la devono comprare per appagarla.

 

Ciro De Stefano

Bollate: tutto affonda

 

Nel momento in cui ci pareva di crescere, vediamo, invece, che tutto affonda. Anche qui, in quest’istituto, alcuni si accorgevano che i cambiamenti avvenivano. Solo alcuni, troppi, sono ancora quelli che a Bollate "non esistono".

Mi farei un paio di canne, qualche colpo di coca. Anzi, no.

Vorrei telefonare a casa o meglio fuggire per arrivarci, o meglio no, o forse sì; non importa quale sia la verità tanto siamo tutti coinvolti, simili, contorti e stanchi di una politica assurda e stupida. Così come sono stupidi gli episodi avvenuti. Qualcuno sa se io volevo fuggire con la mia bella corda - impresa improbabile considerando i sistemi di sicurezza - per vedere mio figlio?

Paradossale cercare di fare ciò. Sentivo crescermi dentro questo gesto, bisogno un po’ folle… Parlare con qualcuno poteva forse aiutarmi, ma chi mi conosce?

Grandi pensatori affermano che la società perfetta radica la sua forza nelle fondamenta di una gerarchia che sarà sempre presente, che l’uguaglianza è utopia. Da dove iniziare, dunque? La struttura è vivibile, gli operatori s’impegnano, l’intelligenza istituzionale, infine, sembra davvero credere in un certo equilibrio. Manca forse di riempire quel fosso nel rapporto diretto e fondamentale?

Se venisse meno questo conflitto e si pensasse all’uomo come tale, forse si riparerebbe a molte di quelle mancanze che provocano il desiderio di "fuggire", sia con la droga, con l’etere o con una corda. Come si può fare un passo con molta fatica e arretrare di due con tanta indifferenza e superficialità? L’esempio comportamentale da dove dovrà partire se noi detenuti già camminiamo sul confine della dignità, reprimendo istinti naturali come mandare a quel paese uno che ti deride quando dice: "Sono consegnato"?

Ce ne freghiamo dei panni che s’indossano. È il contesto in cui si nasce a determinare i valori. Forza o debolezza fa il resto, rispettare e capire per migliorarsi. Perché reprimere? Perché trovare piacere quando si requisiscono i computer e si chiudono tutti, anche coloro che non sono neppure sfiorati da queste vicende?

Il clima è questo: soddisfazione o beffa. Difficile credere che qualcosa possa cambiare. Il dialogo, l’alternativa, la ricerca, dove sono? Stiamo affondando e magari è giusto che sia così perché ce la siamo cercata. Avremmo bisogno di essere ascoltati, di urlare ciò di cui abbiamo bisogno. Ma nessuno ci ascolta.

Forse a ridere, a provare piacere e gusto per la repressione sarebbero in meno. E capirebbero, quelli che ridono, quanto sia bello l’uomo con i suoi casini, difetti, mali.

E se telefonassimo a Berlusconi per aver assistenza e sostegno? Anche per i ragazzi di quei padiglioni di Bollate meno "privilegiati"?

Sì, buona notte!

 

G.D.B.

 

Circolo vizioso

 

di Alessandro Pianta, COC San Vittore

 

Ho un continuo problema dato dal mio stato di tossicodipendenza: da circa 15 anni non ritengo opportuno entrare nelle dinamiche di marciapiede visto che sono scontate malattie, astinenza, problemi giudiziari. Cambiano i luoghi, cambiano le persone, ma questi fatti sono sempre uguali e finiscono per essere dibattito e passatempo nelle lunghe notti in cella.

Cerco - ho cercato - di avere una vita normale, un lavoro, una famiglia eccetera eccetera, ma ho avuto l’impressione che la fregatura non sia tanto la sostanza e quell’ambiente ormai familiare, difficile da lasciare, ma bensì le istituzioni.

Per via dei miei reati, mi è stato applicato l’articolo 9, Sorveglianza speciale, e così, nonostante non rubassi e, anzi, cercassi di rimanere nel lecito, per la seconda volta mi ritrovo chiuso per sconfinamento e ogni volta mi faccio la stessa domanda: non vogliono che intraprenda un’altra strada, a cosa cazzo servono carceri, comunità, la nave, il trenino, l’incontro, il cammino Saman eccetera eccetera?

Stavo andando a lavorare e mi mettono su una nave, dicono. Accendo la tv esento parlare di un trenino, e mi dico: cazzo, hai 36 anni, vorranno giocare ancora per molto?

Regole perse col tempo

 

di Raffaello Gaffo, Fabio Carta, Aldo Lo Nigro

 

Ho 41 anni e, per mia sfortuna, mi trovo di nuovo in carcere da poco più di un mese; mi rendo conto che comunque molte cose anche qui dentro sono cambiate, in meglio credo.

Frequentando il corso del giornalino, per me molto simpatico e utile, mi sono venute alla mente delle cose che sono cambiate con il passare degli anni. In questa occasione vorrei parlare di alcune regole che si trovavano nelle celle dei vari carceri da cui sono passato, almeno una decina, a partire dagli anni Ottanta a oggi.

Certo, non era per tutti così, ma se entravi in alcune celle dovevi rispettare delle regole, parlo di regole vere e secondo me anche giuste che oggi non ci sono più. All’inizio se non le conoscevi, ti venivano spiegate - una sola volta - ma poi non ti era più permesso sbagliare altrimenti ti allontanavano.

Io e il mio amico e compagno Fabio abbiamo pensato di ricordarne alcune, decidendo di metterle per iscritto.

Iniziamo con la regola numero uno: come si entra in cella occorre dire tassativamente "buongiorno" o "buona sera" e sempre "buon appetito"; i compagni ti aiutano a sistemare i tuoi vestiti solo dopo aver letto i tuoi documenti, se li hai con te: mandato di cattura e altro. Leggendoli esprimono "l’idoneità" per la cella (nome in codice non essere infame): solo a questo punto vieni accettato. Subito dopo ti chiedono se vuoi qualcosa da mangiare e ti offrono un caffè per farti sentire a tuo agio, cercano di conoscere e scoprire, sempre con estrema filosofia e furbizia, le tue amicizie per studiarti.

Rispetto alla mia prima esperienza in carcere, ricordo di aver chiesto subito in cella se c’erano delle regole da rispettare, naturalmente per non commettere delle mancanze nei confronti di chi già era lì; con il passare dei giorni me le insegnarono e, anche se alcune mi parevano inutili, ho imparato ad accettarle.

Per esempio, quando si preparava la tavola per il pranzo o la cena, mai mettere il pane al contrario; quando me lo dissero non capivo il senso: dicevano che portava male, ma credo che anche questo significasse un affronto verso qualcuno; lo stesso significato valeva per l’atto di versare il fondo della bottiglia dell’acqua o del vino a qualche commensale.

Quando si preparava la tavola era assolutamente vietato puntare i coltelli di plastica verso qualcuno, questo gesto poteva significare addirittura minaccia di morte.

l’ordine in cella è importante, così come la pulizia. Una regola che ancora oggi non capisco era quella delle ciabatte: chi dormiva nel letto superiore quando saliva doveva mettere le ciabatte con la punta rivolta sotto al letto.

Se entrava qualcuno con tatuati i cinque punti della malavita, si chiedeva subito il significato e se non lo sapevi eri scartato immediatamente.

L’ospite era indesiderato se aveva compiuto uno di questi reati: pedofilia, sfruttamento della prostituzione, maltrattamenti a donne o bambini.

Il buongiorno al passeggio era tassativo: guai a interrompere la catena.

Oggi il rispetto di tutte queste regole non viene più richiesto e credo che il motivo di questo cambiamento sia dovuto ai progressi che ci sono stati col passare del tempo.

Punto di vista

 

di Ivan Bonanomi

 

Da qualche settimana è tornato alla ribalta il problema delle carceri italiane e, puntualmente, i dibattiti si sprecano. Opposti schieramenti si scontrano, tuttologi che esprimono con forza il loro parere, avvocati, direttori di Istituti di Pena, opinione pubblica, tutti hanno delle verità assolute in tasca.

A questo punto mi chiedo come mai tale situazione così patologica e gravosa, non venga mai risolta. Dico questo perché dagli anni Ottanta ai giorni nostri si è cercato di guarire un male, annoso e tanto maligno, con dei palliativi.

I fallimenti di questa strategia votata al rattoppo sono palesemente sotto gli occhi di tutti, ma anche questa volta l’arroganza di chi crede di "sapere", fa naufragare un’altra possibile occasione per comprendere i reali problemi di questo "mondo parallelo" chiamato carcere.

I detenuti, dopo la protesta pacifica, stanno alla finestra sperando che qualcuno si accorga di loro… è bastato pronunciare le paroline magiche "amnistia e indulto" per far placare gli animi in fermento.

la mia critica è voluta, in questo atteggiamento mi ci ritrovo alla perfezione, sulle ali dell’entusiasmo si perdono di vista i reali problemi di tutti noi. Non vorrei essere frainteso, ben venga un atto di clemenza, sarebbe molto stupido da par te mia affermare il contrario. È normale e ovvio che un individuo privato della libertà personale sia concentrato a raggiungere la propria vita senza vincoli o muri perimetrali.

Premesso questo, rimango dell’idea che il condono e l’amnistia non possono e non devono bastare.

Dostojevskji, dopo una breve carcerazione, disse che il grado di civiltà di una nazione è misurabile dalle sue carceri. Se questa considerazione corrispondesse al vero, l’Italia dovrebbe veramente interrogarsi sul suo attuale stato di civiltà. Sovraffollamento, lungaggini burocratiche, leggi applicate con libere e discriminanti interpretazioni, una migliore tutela garantita ed estesa a tutte le classi sociali, riforme del codice di procedura penale, uso e abuso di potere esercitato all’interno di un qualunque microcosmo isolato, pregiudizi, reinserimento…

Non vorrei sembrare un nostalgico idealista, anzi… sono convinto che con il dialogo e un atteggiamento propositivo si possano raggiungere molti traguardi. Per esempio, creare associazioni di ex detenuti, cooperative di reinserimento, coinvolgere i mass media, instaurare un parallelismo di comunicazione tra società e sistema coercitivo. Per ottenere dei risultati soddisfacenti bisogna creare le condizioni giuste ed effettuare il salto di qualità che ci manca. Con lo scontro, la rabbia, la frustrazione, la rassegnazione, non credo si possa ottenere un riscontro positivo. Il problema delle carceri è determinato dall’istituzione stessa, proprio come il cane che si morde la coda.

Chiunque si trovi da una parte o dall’altra delle barricate che si elevano all’interno di queste istituzioni, deve fare i conti con dinamiche di violenza inflitta o ricevuta, in maniera più o meno sistematica e traumatica.

È tempo di cambiare, di crescere, di abbattere il pregiudizio per una società migliore e civile.

In comunità

 

di Alberto

 

Mi chiamo Alberto, ho 34 anni con qualche anno di carcere sulle spalle, attualmente sono ancora in carcere ma non è su questo che voglio soffermarmi. Quello che voglio raccontare in breve è l’unica esperienza che ho avuto con le comunità residenziali. Nel ‘91 sono andato a San Patrignano e lì ho scontato una condanna di 18 mesi. Non ero mai stato in comunità e ho pensato che andarci in alternativa al carcere sarebbe stato meglio. Ma mi sono trovato molto male, cerano delle regole che non accettavo e non accetterei mai, tanto è vero che, dopo 3 giorni che ero lì, ho chiesto a Vincenzo Muccioli di farmi tornare in carcere e lui mi rispose: "Qui sei voluto venire e qui ci rimani".

Ho vissuto veramente male in quella comunità di merda. Passavano 10 sigarette al giorno (Alfa, Nazionali, Esportazioni e, se volevi le MS, erano 5). Cerano vari servizi obbligatori, a rotazione tra settori. Un servizio che non sopportavo era lavare i piatti e i bicchieri, perché se uno si rompeva il giorno dopo non ti passavano neanche quelle 10 sigarette. Finii la mia pena e chiesi di andarmene, volevo tornare a casa mia. Gli operatori responsabili e Muccioli mi dissero che non ero pronto ad affrontare la società perché sarei andato subito a fare di nuovo uso di sostanze stupefacenti; io gli risposi che non ero andato lì per smettere e il giorno dopo sono scappato da quella maledetta comunità. Era il gennaio 1993 e feci una promessa a me stesso, di non mettere più piede in una comunità residenziale, anche a costo di rimanere in carcere.

Penso che le comunità non servano per smettere di usare sostanze; se uno vuole smettere lo può fare, se è convinto di farlo. Sono d’accordo che da soli raramente si riesce, ma se si è vicini a persone che non usano sostanze e che danno fiducia si può uscire da quel maledetto tunnel della droga. Premetto una cosa: la fiducia bisogna guadagnarsela.

Un paio di anni prima di andare a San Patrignano accadde un bruttissimo fatto, un omicidio. Nel periodo che ci sono stato io, di quel fatto non si seppe nulla, si venne a sapere tutto l’accaduto quando io ero già via, e ho pensato subito in che posto ero andato a finire, perché avrei potuto fare la stessa fine di quel ragazzo che è morto ammazzato dai responsabili di un settore cui Muccioli aveva dato delle responsabilità che non doveva dare.

Io ho odiato Muccioli e tutto San Patrignano, stracolmo di persone inutili e vigliacche e tuttora, quando ci penso, provo odio e spero tanto di trovare per strada uno di quei responsabili per fargli veramente tanto male.

La Nave

 

Un detenuto del II° Raggio

 

Sono un detenuto di San Vittore, sono in carcere per aver commesso una rapina, sono in attesa di processo ma ho già scontato più condanne, sia a San Vittore che in altri carceri, tra cui due condanne in Olanda e una in Croazia.

Anche la carcerazione prima di questa che sto facendo l’ho scontata qui a San Vittore ed è stata breve, quattro mesi; ho avuto la possibilità di scontarli al 3° Raggio 4° piano, La Nave, e appunto su questo voglio soffermarmi.

In quella sezione è tutto un altro vivere, le celle sono pulitissime e tutto è nuovo, si ha la doccia in cella, le celle sono aperte dodici ore al giorno, e ci sono molte attività da svolgere.

Per poterci andare, alla Nave, non si devono assumere terapie del tipo psicofarmaci, ansiolitici e così via. Quando sono andato alla Nave ero ancora in cura con il metadone e l’ho scalato lentamente fino a zero, così che uscendo a fine pena ero pulito da qualsiasi sostanza stupefacente.

Ci sono molte persone negli altri Raggi che pensano che la Nave sia una pre-comunità, ma per me non è esattamente così perché c’è chi va in comunità e ci sono tanti altri che hanno programmi differenti. Io ritengo che serva anche per prepararsi a inserirsi nella società, per quando si uscirà in libertà, lì le opportunità ci sono.

Per rimanere alla Nave si deve firmare un contratto che bisogna rispettare, altrimenti lì non si può rimanere.

Maschi e femmine in carcere

 

di Alessandra Dusi

 

La differenza essenziale tra uomini e donne è, ovviamente, il "sesso" da cui derivano un illimitato numero di divergenze. È vero che, biologicamente, siamo diversi e questo è più che dimostrato, ma è proprio per questo che i maschi hanno avuto finora il posto d’onore della società e la donna è stata considerata più fragile, più debole, colei che, a seconda dei fatti, è da difendere o da prevaricare.

Chissà perché, però, quando si è in stato di reclusione e viene a mancare l’affetto e il confronto con il sesso opposto, nascono dei melodrammi da cineteca. Che cosa ci succede quando siamo forzati e privati di alcune cose per noi esseri umani necessarie? E chi dice che non lo sa racconta un sacco di palle perché, a mio parere, il confronto e l’incontro con l’altro sesso è fondamentale, come il cielo, il sonno. Il sesso è un bisogno fisiologico ed è per questo che in carcere le persone sono semizombi imbottiti di terapie e medicinali vari.

Voglio sapere cosa farebbe una persona cosiddetta normale, dell’età di vent’anni, nel sapere di dover stare almeno 10 anni senza la presenza di una persona del sesso opposto. Non dico di stare 10 anni senza sesso, affetto, carezze, coccole, dico 10 anni fatti di sole donne o di soli uomini.

Cosa fareste voi? Io che sono "normale" sto male solo all’idea di vivere da 6 mesi soltanto con donne e, tra l’altro, sempre le stesse, con le solite menate, e gli unici maschi che vedo sono medici, preti, o qualche volontario del CPA o della biblioteca.

Per ampliare il discorso, c’è da dire che il bisogno di confronto tra maschio e femmina non è solo il sesso; ma ammettiamo che entrambi i detenuti siano genitori: come si fa in un’ora alla settimana a parlare di se stessi, dei figli, di tutta la cornice affettiva che contorna la popolazione detenuta? Che già si sgretola abbastanza quando un parente "sano" deve venire a trovare il "malato" detenuto, se ci mettiamo a pensare che, per esempio, come i miei genitori, per la vergogna non sono mai venuti a trovarmi, né mi hanno scritto una lettera e mi hanno negato di vedere mio figlio per ben 18 anni. Qualche vaglia, una o due foto, e lui cresceva sapendo che la mamma vera, cioè io, era morta, e io crescevo pensando chissà mio figlio, mia madre, mio padre…

Il mio uomo veniva a trovarmi, ormai conviventi da 7 anni, e al primo bacio sfiorato sulle labbra venivamo ammoniti. Se voleva portarmi un regalo o io volevo scendere al colloquio col caffè o dei dolci, domandina su domandina che poi vanno perse: che poi, cosa c’è di male a scendere una scalinata con in mano due brioches da poter consumare con il proprio partner, non capisco. Ancor di più quando mi hanno diagnosticato un tumore all’utero: come riuscire in un’ora alla settimana a fare entrare nel cervello (già nel mio) e poi nel suo questa nuova situazione? Niente ti è più dovuto e sei solo un semplice numero quando entri nelle patrie galere. Donne che, pur di sfogare la loro libidine, vanno con altre donne. Non perché lesbiche ma perché sane e ormai senza morale, perché qui dentro ti fanno perdere ogni credo, ogni pudore, ogni dignità.

Questo non è un giudicare: è un constatare visto che anch’io l’ho vissuto in prima persona. Non ti innamori della donna se fino a ieri eri sposata con 3 figli eccetera; ti innamori dell’idea di essere innamorata, coccolata, vezzeggiata da qualcuno che qui dentro sembra prendersi cura di te. Ci si innamora dell’idea di essere innamorata. E non ci si innamora di un’altra donna, quasi sempre ci si innamora di una donna con sembianze mascoline, atteggiamenti da uomo, modo di fare, di parlare e comportamento maschile. È ovvio che è lo stato di detenzione nella maggior parte dei casi a far nascere queste coppiette. Perché le vere lesbiche, signori miei, sono bellissime donne che cercano altrettante belle donne e non si atteggiano a maschi.

Detto questo, non so fino a che punto anche gli uomini detenuti abbiano compagni gay, né mi interessa saperlo. So solo che, se arriva un operato anche solo al seno di qua, lo lasciano liberamente in sezione, non lo mettono al maschile se non in determinati raggi. Dove automaticamente sta in cella con qualcuno come lui. O se è in cella con un altro uomo, succede spesso che diventano amici molto intimi.

Scrivo ciò perché non sarebbe così malsano fissare un giorno alla settimana, nel quale detenuti maschi e detenute femmine potessero usufruire di un briciolo di privacy e fare cose normali che accadono tra maschi e femmine, invece di venire imbottiti di farmaci, che peraltro l’amministrazione non passa neanche più per via delle nuove leggi sulla sanità.

Questo sarà il tema che tratterò nel mio prossimo contributo a Facce & Maschere. Perché qui di facce non ce ne sono molte, ma di maschere ve n’è grande abbondanza!

 

 

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