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Anagramma Espressione periodica del carcere a custodia attenuata di Lauro (AV) Anno 2, numero 3, settembre 2004
di Cristo Di Domenico Avevo sei anni quando i miei genitori si sono separati. Il distacco da mio padre mi ha fatto male, molto male. Non soffrivo tanto perché aveva abbandonato me e mia sorella, ma a vedere tutti i sacrifici che mia madre doveva fare per farci stare bene e non farci mancare nulla. Ci riusciva benissimo ma, essendo costretta a stare fuori per lavorare, ci portava da una signora che si prendeva cura di noi. Era una bravissima persona ma io sentivo molto la mancanza di mia madre: riuscivo a vederla solo due volte alla settimana. Col tempo le cose sono un pò migliorate. Avevo dieci anni quando mia madre ha ricominciato a stare con noi. Sono cresciuto in un quartiere dove, se non sei sveglio e non ti fai temere, gli altri ne approfittano. Sono cresciuto con tanta rabbia dentro; non avendo un padre a cui rivolgermi nei momenti difficili, dovevo sempre vedermela da solo: ero aggressivo, sempre pronto a difendermi e a reagire. Anche a scuola avevo lo stesso atteggiamento: non avevo voglia di fare nulla e se qualche insegnante mi spronava a studiare io non l’ascoltavo, anzi quando c’era la sua lezione me ne uscivo dalla classe. Per questo mio comportamento ho ripetuto la prima media per ben tre volte! Naturalmente, trascorrevo la maggior parte del mio tempo in strada; frequentavo persone con grandi problemi familiari che vivevano di quello che la strada offriva. Erano ragazzi soli, senza il controllo dei genitori; io almeno avevo sempre mia madre addosso, capiva i rischi che correvo e ne era giustamente preoccupata. Non l’ho mai ascoltata; anzi, per non sentirla sono arrivato al punto di andarmene di casa. Spesso mi capitava di dormire in una macchina qualsiasi; a volte erano i proprietari stessi che mi svegliavano e quasi avevano anche paura di farlo. Vivendo in strada, frequentando persone sbagliate, inevitabilmente ho conosciuto la droga. Proprio io che non avevo mai tollerato chi ne faceva uso: consideravo i drogati persone inutili, non immaginando quanto fosse facile caderci e quanto fosse difficile uscirne. All’epoca avevo circa quindici anni. Iniziò anche la storia con una ragazza, oggi mia moglie. Lei aveva solo undici anni e, come succede a tanti ragazzi della mia età, fu amore a prima vista. Quando lo seppe la sua famiglia, Conoscendo le storie che facevo, successe il finimondo. Riuscii comunque a farmi accettare, anzi a farmi volere bene, continuando, purtroppo, le mie storie sbagliate. Avevo iniziato fumando e sniffando cocaina; frequentavo assiduamente determinati locali; ogni volta prendevo qualche pasticca finché un giorno ho conosciuto il "cobret". Non sapevo bene cosa fosse e cominciai a fumarlo. Il "cobret", dopo aver assunto la cocaina, mi dava un effetto rilassante, mi levava tutta l’ansia che la cocaina mi procurava. Non sapevo che il "cobret" portava dipendenza, lo scoprii solo più tardi, troppo tardi. Intanto la mia storia d.amore continuava, promettevo di cambiare e per un pò ci riuscivo anche. Abbandonavo le cattive compagnie, lavoravo ma poi mi stancavo; non sopportavo che il mio datore di lavoro mi dicesse cosa fare e per di più per pochi soldi alla settimana. E così tornavo alla vita di sempre, sapevo che non era giusto ma, era l’unico modo che mi facesse sentire bene, e libero. Avevo diciotto anni quando seppi che la mia ragazza, che ne aveva quindici, aspettava una bambina. Mi diedi da fare per trovare casa, sembrava tutto bello, ero felice, ma durò poco. Ben presto iniziarono i problemi. Facevo sempre uso di droga, quindi mi servivano molti soldi: per me, per i miei vizi e per mantenere la famiglia alla quale non volevo assolutamente che mancasse qualcosa. Il modo migliore per guadagnare e che meglio mi riusciva, era estorcere denaro. Ho conosciuto il carcere e da allora non ho fatto altro che uscire e rientrare da istituti penitenziari. Mia madre non mi ha mai abbandonato, cercava di aiutarmi in ogni modo. Mi ha anche aperto un negozio di profumi e detersivi, ma è durato poco: stanco, ho lasciato tutto nelle sue mani, ma non potendosene occupare è stata costretta a venderlo. Solo ora capisco quanto ho sbagliato. Intanto mia figlia cresceva, era nato anche un altro bambino. Mia moglie, per fortuna, si occupava di loro, mentre io, pur cercando di essere presente, continuavo le mie storie: ormai ero dipendente dalle sostanze stupefacenti, cercavo di smettere ma ci riuscivo sempre per poco, per troppo poco tempo. Un giorno mi sono chiesto che vita fosse la mia, che cosa stavo facendo non solo a me ma anche ai miei figli, a mia moglie. È vero, io non avevo avuto un padre, ma mia madre e la mia famiglia non mi avevano mai abbandonato. Mi ripromisi che era ora di cambiare vita, completamente. Così fu: con i bambini e mia moglie andai al nord; insieme cominciammo a lavorare, ci sistemammo. Anzi, stavamo anche progettando di comprare casa, eravamo felici, finalmente sereni. Ma gli errori si pagano, prima o poi, e purtroppo, mentre tutto andava per il meglio, mi è arrivato un ordine di cattura per i miei reati passati. Certo, avevo commesso dei reati, ma questo scoppio ritardato della giustizia, per molte persone tossicodipendenti, è più che un’ingiustizia: il carcere, a fronte delle peripezie attraverso le quali spesso si raggiunge un faticosissimo esito positivo, rimette tutto in discussione: il lavoro, la famiglia, gli affetti, la stessa emancipazione dalle sostanze. Sembra quasi un dispetto, una provocazione, una inesorabile spinta all’indietro. È come se la giustizia non sapesse tener conto dei cambiamenti, delle fatiche buie e solitarie che una persona tossicodipendente deve profondere per raggiungere un’evoluzione positiva, un’incapacità deplorevole. E non manca la beffa, se si volge lo sguardo ai tanti autori di reati gravissimi (si pensi ai reati finanziari ma non solo) che non fanno neppure un giorno di prigione! Oggi sto scontando l’ultimo debito che ho nei confronti dello Stato, ho naturalmente dei momenti di sconforto, di amarezza, ma cerco di farmi forza, di continuare a combattere… la mia famiglia lo merita, anche se avverto come un macigno l’ingiustizia subita: proprio ora che stavo bene, ora che mi ero ripreso in mano assumendo la responsabilità di padre, marito, lavoratore onesto; proprio ora lo Stato mi dice che tutto questo non vale niente! Forse sto seguendo un percorso che credo mi renderà migliore. Forse ne uscirò rafforzato. O forse no, è difficile dirlo da qui. Sto impiegando il mio tempo al meglio: sto studiando, quest’anno prenderò la licenza media; seguo diversi corsi che faciliteranno il mio reinserimento nella società, in quella società in cui un giorno sogno di vivere senza più commettere errori. La droga mi ha distrutto, ha distrutto la mia vita e quella di chi mi è stato accanto, di chi mi ha voluto bene. Per fortuna e con non poca fatica credo di aver girato pagina, mia moglie e i miei figli non mi hanno abbandonato, nonostante le difficoltà. È il mio piccolo mondo caldo, a fronte di un mondo grande che sembra fregarsene di me e dei tanti giovani che, come me, affollano le prigioni e le strade e le case in una disperante solitudine. Certo, ci sono responsabilità soggettive, alle quali non mi sottraggo. Ma le storie, i percorsi che conducono alle droghe sono ormai tanti da suscitare anche qualche serio interrogativo a monte delle droghe. Il "dopo" lo conosciamo. Sul "prima" e sul "perché" non si registra neppure uno straccio di riflessione seria. Eppure quando un fenomeno sociale si allarga fino a raggiungere le dimensioni dell’uso e abuso di droghe così diffusi, una qualche ragione profonda ci deve pur essere. Forse questa ragione profonda non conviene cercarla giacché è probabile che andrebbe a scoperchiare un modello di vita da giungla, tutt’altro che desiderabile, Forse è più facile riempire le galere, giocare pesante sugli effetti senza toccare le cause. Forse è più facile parlare di malattia e di delinquenza: due terreni che da sempre fanno le fortune indiscutibili di molta gente. La teoria del capro espiatorio ha funzionato sempre nella storia; ancorché bugiarda, perché non dovrebbe funzionare ancora? (sommario)
di Antonella Monetti Era la prima volta in assoluto che il Festival Volterrateatro ospitava un’altra compagnia di teatro carcere. Ma nessuno pareva ricordarsene; tutti i colleghi teatranti preferivano pensare che eravamo stati invitati perche detenuti… come se il direttore artistico del festival Armando Punzo, avesse fatto scelta di solidarietà, non una scelta artistica: come se fare teatro con i detenuti ti aprisse una corsia preferenziale, ti aprisse delle porte in più… Nessuno pareva ricordarsi che l’anno prima. in occasione del festival Scenario, la nostra compagnia fu ammessa alla finale "fuori concorso" proprio perché i nostri attori detenuti non potevano garantire una libera circuitazione degli spettacoli e che la commissione si spaccò in due fazioni proprio sulla valutazione artistica del nostro lavoro. Sono cose che nel pettegolo ambiente teatrale viaggiano di bocca in bocca, da nord a sud c’è chi ci apprezza e chi preferisce compatirci. Armando Punzo ha ricevuto da quattro anni a questa parte tutte le videocassette dei nostri spettacoli; non gli sono piaciuti "Aspettando Godot proprio!", "Per finire" e nemmeno "L’Oreste" (che pure ha vinto il premio Ustica - Scenario)… "Calderon: il padre, il figlio, la torre e il palazzo" gli è parso un buon lavoro e noi ci ostiniamo a pensare che sia questo il motivo grazie al quale siamo stati inseriti nel programma del Festival, uno dei più importanti e rinomati di tutta l’Europa. Poi è scattata anche la solidarietà, che si è espressa però nel guidarci per mano ad ottenere il permesso dal giudice di sorveglianza di Avellino, ahimè tanto "parsimonioso" nel concedere le licenze "trattamentali" ai detenuti. Dalla direzione del carcere di Volterra ci hanno mandato un fax contenente una loro richiesta-tipo… l’abbiamo riprodotta più fedelmente possibile, formulando un programma contenente indicazioni precise su orari di partenza di arrivo e sosta in autogrill, percorsi, località, ristoranti e ostelli completi di numeri telefonici. Il cappellano, Padre Carlo, ci ha prestato il suo furgone (abbiamo indicato anche questo nel programma) per il trasporto della comitiva, quindici persone. Abbiamo spedito entrambi i programmi, quello già approvato dalla magistratura di Pisa e il nostro: se è vero che la legge è uguale per tutti... ciononostante nell’attesa abbiamo trepidato assai, tutti col fiato sospeso, dal direttore a noi operatori, per non parlare dei detenuti: (e se ci avesse concesso il permesso con la scorta? Quale degli agenti avrebbe mai rimandato le ferie per accompagnarci? E se si fosse resa necessaria una traduzione dei detenuti nel carcere di Volterra? Non sarebbe stato chiedere troppo ai nostri attori di farsi trasferire nel blindato chiuso, col caldo di fine luglio, fino al carcere di Volterra per usufruire di un paio d’ore di libertà e poi tornare alla casa circondariale di Lauro chissà quando?) abbiamo continuato a farci le domande mentre provavamo, fino a tre giorni prima della partenza, quando finalmente è arrivato il (si). Un si che ci ha dato quasi le vertigini… i detenuti erano affidati al nostro controllo per tre giorni dalle nove di mattina alla mezzanotte, per tre giorni il nostro ruolo veniva stravolto: da operatori a "controllori". Nel frattempo due dei detenuti erano stati scarcerati, la nostra organizzatrice rinunciava ai pernottamenti, la nostra scenografa pure, si erano liberati alcuni posti: l’organizzazione di Volterra teatro ancora una volta ci offriva disponibilità è solidarietà, al posto degli assenti potevamo portare con noi le mogli e i figli dei "liberanti". È stata un’esperienza bella assai, sotto tutti i punti di vista. La Toscana è un altro mondo dalla Campania, Volterra è un salotto buono dove ti fa timidezza buttare una cicca in terra, anche il clima è un pò più fresco e secco e non avevamo tutti il golfino... Il primo ristorante dove siamo andati a mangiare era gestito da un detenuto veneto in semilibertà, Franco, che si era fatto già sedici anni e gliene mancavano "solo" altri cinque per essere scarcerato: aspettava con affetto i "napoletani" e aveva preparato in nostro onore una cena a base di pesce. Lo spaghetti no allo scoglio era irrimediabilmente scotto e il nasello surgelato tutt’altro che appetitoso, ma un pò la fame del viaggio un pò la reciproca cortesia tutto venne spazzolato. Volterra poi era piena di Napoletani in trasferta: la Contrabbanda di Luciano Russo (quaranta elementi), la Compagnia "liberamente" di Davide Iodice (dieci), la compagnia di danza contemporanea di Enzo Pezzella (altri dodici all’incirca), un gruppo di musica popolare, e noi quindici con i figli a carico (ma allora è vero che i napoletani sono i migliori?). Armando Punzo ci incontra nella piazza, ci presenta la direttrice del carcere di Volterra, piacere, piacere, benvenuti, grazie dell’ospitalità, a che ora dovete rientrare? Qui la sorveglianza è generosa, ma inflessibile nei controlli, dovete rispettare alla lettera il programma, la pattuglia ci mette cinque minuti a fare il giro di Volterra, state sicuri che già vi hanno riconosciuti e conoscono il vostro programma, ne controllano l’applicazione, qui siamo i professionisti del recupero ma le condizioni sono il rispetto assoluto dei limiti… ci si fanno intorno anche i detenuti semiliberi, ci abbracciano, ci salutano affettuosamente, ma mettono in guardia i ragazzi, qua l’elasticità non è contemplata… Torniamo in ostello con qualche minuto di anticipo. E da quel momento ci atteniamo al programma come un prete al Vangelo. Il giorno dopo ci rendiamo conto che il teatro è davvero minuscolo, un’intera giornata spesa per adattare le nostre scenografie e il nostro disegno luci all’angusto (ma magico) spazio, pochi posti anche per gli spettatori mentre scopriamo che c’è attesa e curiosità intorno alla rappresentazione del nostro lavoro… Alle dodici ci viene comunicato che sono già quattordici i giornalisti accreditati... (chi li ha mai visti quattordici giornalisti tutti assieme?) e poi scriveranno? Su quale giornale? I costumi di scena sono stati tutti lavati e stirati? L’emozione cresce, è tutto a posto? Ognuno ricorderà la parte? Ricorderanno da quale parte si entra in scena e da quale si esce? E il pubblico arriverà? Finalmente arrivano le famigerate otto e mezza e si può fare sala… noi ce ne stiamo nascosti dietro le quinte a sentire la gente prendere posto uno addosso all’altro ma alla fine resteranno fuori quasi una trentina di persone… Si spengono le luci, buio, parte il sassofono, il cuore batte all’impazzata. Si entra in scena: adrenalina pura. Lo spettacolo fila liscio come l’olio e le uscite di scena sono sottolineate da applausi "a scena aperta" del pubblico, ci carichiamo ancor di più: la gente ride, alcuni non capiscono il dialetto, altri traducono sottovoce, quando esco di scena rimango visibile per un attimo, vedo che mi guardano con occhi sgranati, mi ritiro nell’ombra in attesa dell’esito finale: venti minuti di applausi. Mentre ci inchiniamo a salutare ci vengono le lacrime agli occhi, tutti che si complimentano, tutti che ci chiedono di parlare del nostro metodo di lavoro, della nostra bellissima esperienza (avisseva sapè)… Alla fine anche Alessandra, la regista (sempre ipercritica nei giudizi a fine spettacolo), ci conferma: questa è stata la più bella replica dell’annata. Purtroppo la correttezza dei nostri detenuti attori sia in scena che fuori non verrà premiata dalla magistratura di sorveglianza: alla replica successiva (il 16 Agosto a Santa Severina provincia di Crotone) il programma, pressoché identico a quello di Volterra, non viene approvato perché sono passati pochi giorni dal permesso precedente. I detenuti sono tutti mandati in licenza a casa (chi libero chi agli arresti domiciliari), ma il teatro no, non si deve esagerare con tutto questo successo. La cosa che ci ha colpito, più di ogni altra nella nostra permanenza toscana, è stato il rilevare quanto la struttura carceraria sia riuscita a connettersi con la società civile del proprio territorio. Ogni bottega artigiana, ogni ristorante, ogni circolo, ogni dove. ospitava la prestazione professionale di un detenuto in misura alternativa... Nelle parole di Gigino il cuoco (ergastolano, socio della pizzeria) che incoraggiava i ragazzi: "… ‘o recupero è bello guagliù!", abbiamo effettivamente potuto constatare quanto la concertazione tra le istituzioni riesca a creare un terreno favorevole alla reinclusione, quanto invece al sud siamo lontani anni luce da tutto questo. (sommario)
di Antonio Ruffo Sono detenuto da sei anni ininterrottamente. Mi trovo all’Istituto di Lauro da un paio di anni ed ho un residuo pena che durerà ancora un paio di anni. Nel corso dell’ultimo anno ho partecipato prima al corso di formazione teatrale svoltosi all’interno dell’Istituto, poi come attore alle varie rappresentazioni svoltesi all’interno, fino a diventare membro effettivo della compagnia teatrale "I Liberanti", la compagnia dell’ICATT di Lauro. Devo dire che questa opportunità che mi è stata offerta mi ha molto aiutato a ripensarmi, a riprendermi in mano con qualche speranza in più. Il teatro mi consente di esprimere al meglio le mie attitudini che vedo apprezzate e riconosciute, oltre a restituirmi quel protagonismo attivo che è proprio di ogni persona e di cui io avevo perso cognizione. L’attività teatrale, tra le altre attività laboratoriali interne, è diventata una "fornace espressiva" che ha raggiunto livelli di qualità notevoli. A mi punto che la compagnia in più occasioni ha portato all’esterno lo spettacolo; più volte a Napoli, ad Avellino, in Calabria… fino ad approdare alla tre giorni tenutasi nella città di Volterra (Pisa) per il festival del teatro. Una tre giorni (30 e 31 luglio, 1° agosto 2004) che ha visto protagoniste varie compagnie provenienti dalle carceri, compreso Lauro. Io ho partecipato volentieri a questa, come ad altre manifestazioni. Un’esperienza che lascerà traccia dentro di me e non solo perché la nostra rappresentazione nella città di Volterra è stata apprezzata, ma pure perché questa occasione mi ha dato la possibilità di stare coi miei compagni in condizione di libertà. Soprattutto ho potuto stare coi miei due bambini in tenera età e con mia moglie da uomo "libero" tra altri uomini liberi. Libertà e responsabilità sono andati a braccetto così come i padri vanno a braccetto coi figli, con le mogli… Un frammento di liberazione effettiva dove il teatro è stato presupposto e conseguenza, un mezzo liberatorio che a buon titolo spinge a mettere in discussione tutti i percorsi balordi del passato e la stessa dimensione carceraria da superare in un percorso di vita che schiude a nuove, possibili progettualità. Lo spettacolo nostro è stato molto applaudito ed ancora una volta ho potuto assaporare l’esito delle faticose prove e riprove laboratoriali. Ho potuto apprezzare il tormento assillante che le operatrici del teatro spesso ci hanno imposto. Evidentemente loro sapevano l’obiettivo da proseguire ed ora pubblicamente posso ringraziare per il loro vigore professionale, l’impegno, gli strumenti espressivi che ci hanno passato. In carcere tutto questo è difficile da scorgere, sono queste le cartine di tornasole, le verifiche che restituiscano il respiro della formazione nel chiuso del carcere. Ovviamente, in questo caso come in altri simili, il "lavoro" svolto in laboratorio non è stato solo il veicolo professionale e basta. C’è stato anche il fatto di poter esprimere in pubblico le cose imparate, da uomo quasi libero… e soprattutto da padre di famiglia e marito per completi tre giorni. Stare con i miei bambini, con mia moglie, pur in compresenza con i miei compagni ed in funzione dello spettacolo da produrre, è stata un’emozione irripetibile che ancora di più mi spinge verso un maggiore impegno e per il raggiungimento di un’effettiva, completa liberazione da protagonista responsabile. Nei tre giorni ho avuto modo di incontrare, insieme agli operatori, alcuni miei compagni di vecchia data che, come me, hanno messo seriamente in discussione i loro vecchi e consumati sentieri ripetitivi. Viaggiare con la mia famiglia (sulla via del ritorno), consumare i pasti insieme, condividere alcuni momenti riservati con loro, è ben diverso dall’incontrarli al colloquio, per quanto i colloqui al carcere di Lauro sono sempre improntati alla "delicatezza" commisurata alla responsabilità verificata dei protagonisti, detenuti e familiari. È una cosa diversa quella che ho vissuto nei tre giorni di Volterra: un’esperienza indimenticabile ed insieme una promessa fatta a me stesso, alla mia famiglia: riprendere il mio ruolo di marito e di padre, libero tra altri uomini liberi, un futuro ormai in fase di definitiva elaborazione che spero di attuare al più presto. (sommario)
di Enzo Vidone Per il solo fatto che dovevo partire già non stavo nei panni. Avevo l’adrenalina fin sopra i capelli! L’attesa del permesso è stata lunga, e pure l’ansia, la speranza che arrivasse e che non fosse troppo restrittivo. Tre giorni prima, eccolo: sì, non era condizionato esageratamente, anche se proprio liberi no! Altra attesa. I tre giorni, anche quelli, non passavano mai; le ore lente, i minuti, l’orologio sembrava fermo! E di nuovo tanta ansia. Alla fine è arrivato il giorno e l’ora giusta: si parte. Già l’uscita dal carcere sembrava aver cambiato i colori al sole, anche l’aria si respirava più facilmente. Il viaggio di otto ore sembrava non finire mai; ma a me andava bene così. La prima tappa è stato l’autogrill, il caffè sull’autostrada sembrava persino più buono del buon caffè napoletano. Anche gli occhi si riempivano di tutti i colori, macchine veloci, gente libera alla guida per viaggi che non si sa, qualche macchina prestigiosa mi richiamava vecchi ricordi e non tutti belli. A tratti i pensieri mi conducevano per sentieri strani, giocavano con la memoria e senza regole. Città e paesi più o meno distanti dall’autostrada, sembravano dipingere un presepe che variava continuamente. Poi, finalmente, l’arrivo a Volterra, dopo aver attraversato una buona parte del territorio toscano. Volterra, per i reclusi, non è una città, è un carcere. E invece no, noi eravamo approdati in una bellissima cittadina, accogliente e graziosa: meravigliosa. Alloggiammo proprio di fronte alla Fortezza, il carcere di Volterra, un enorme castello che quando sali i tornanti te lo vedi apparire in alto con tutta la sua severità. Dopo esserci sistemati nell’ostello scendemmo per farci un giro e andare a mangiare: incontrammo un casino di gente... eravamo finalmente liberi! O per lo meno questa era la sensazione che mi attraversava. Poi, incontrammo il maestro della "Contrabbanda", la compagnia della Fortezza, Luciano Russo, originario del mio stesso quartiere. Una persona meravigliosa, i nostri genitori si conoscevano da piccoli... A Napoli chi l’aveva mai visto! La cosa bella era che giravamo senza guardie. È stata un’esperienza indimenticabile. Un’emozione unica. Anche incontrare i detenuti di Volterra, che si stavano preparando anche loro a debuttare diventava evento, clima particolare, aria di festa e d’impegno. Un ragazzo, in particolare, mi è rimasto impresso: parlammo del più e del meno quando mi disse: "Enzo, finalmente mi mancano solo quattro mesi!". Aveva già scontato venti lunghi anni, e mi venne il freddo addosso! Verso sera, insieme ai miei compagni, iniziò la preparazione dello spettacolo. I preparativi per lo spettacolo sono sempre molto curati, con la preoccupazione sempre di non dimenticare qualcosa… Alle otto facemmo il nostro teatro e alla fine fu una grande gioia l’applauso: una vera soddisfazione durata venti minuti. In questa circostanza sempre mi viene in mente il lavoro duro fatto dentro il laboratorio a Lauro. I richiami delle operatrici del teatro, le scene ripetute fino alla nausea, la stanchezza, quasi il rifiuto a continuare il laboratorio. Ma, evidentemente ne vale la pena, me ne rendo conto quando il lavoro trova il suo riconoscimento. Quando le fatiche riscuotono l’apprezzamento del pubblico. Vedemmo anche lo spettacolo di quelli di Volterra che era più musicale, ma le parti teatrali erano belle, specialmente quella di quel ragazzo dei vent’anni che faceva "l’accattone finto sciancato", ed era talmente intenso da sembrare vero. La replica dello spettacolo si alternò a lunghe passeggiate per le vie della città, i pasti consumati in compagnia sempre di qualche "ospite" locale e soprattutto dei nostri familiari la cui presenza sembrava scandire un altro elemento di libertà. Già in altre occasioni mi era successo di pensare che il laboratorio teatrale, tra gli altri pur validi che ci sono al carcere di Lauro, è uno strumento straordinario e non solo perché quando bisogna portare fuori lo spettacolo si guadagna un permesso. Certo, anche questo è importante, ma viene dopo. Il primo fatto importante consiste nel riappropriarsi del protagonismo responsabile. È un po’ come prendersi in mano per interagire con gli altri attori e tra questi ed il pubblico, per dire e dare delle cose che diversamente non passano. Peraltro, date le nostre condizioni e le nostre storie, spesso succede che non si tratta di "rappresentare", ma di "essere" il più autenticamente possibile. Anche il viaggio di ritorno è stato pieno di immagini e sensazioni straordinarie. Tre giorni volano in fretta, purtroppo. Resta l’esperienza fatta, gli incontri, i sapori ed i saperi arricchiti e qualche riflessione seria tesa a riprogettare uno straccio di vita possibile, oltre tutte le prigioni, otre ogni ripetizioni. Volterra teatro ha avuto per me il pregio di una verifica: mettere concretamente in discussione i vecchi percorsi, le vecchie strade e non solo come pia illusione o dichiarazione di fede. Forse risiede proprio qui la bontà laboratoriale che il carcere di Lauro offre a tutti come opportunità… da non perdere. (sommario)
Responsabili una volta, responsabili sempre!
di Giuseppe Lanfranco Mi trovo in questo Istituto da due anni. Io, come tanti altri, provengo da un carcere "ordinario". La differenza tra un carcere "ordinario" ed un ICATT (Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze) è presto detta: nel primo caso, quasi sempre, le persone detenute sono numeri, dati statistici da contenere, non persone da custodire con tutti i mezzi, trascurando persino la legalità dell’Ordinamento penitenziario che pure è legge dello Stato e che riconosce - sulla carta - diritti e doveri per le persone recluse; nel secondo caso, le persone detenute tornano ad essere persone ed in quanto tali depositarie di diritti e doveri. In questo senso si capisce perché quando succedono fatti drammatici nelle nostre carceri, vedi i suicidi, neppure i media se ne occupano. Si tratta di non persone ossia, di persone che non hanno il diritto di esistere e meno che mai il diritto di morire. Diventano fatti inesistenti! Anche quando c’è un cadavere da seppellire, è un fatto che… non esiste! L’ICATT è null’altro che il tentativo di tenere in carcere le persone considerandole tali! Un tentativo di legalità concretamente attuata. Naturalmente nulla è perfetto, ma in queste carceri si può assistere ad uno sforzo corale animato dall’arte del bene comune. I riferimenti di legge qui valgono, o quantomeno ad essi ci si approssima con grande impegno e determinazione. Quanti e quali vantaggi ne derivano da questo modello penitenziario è impossibile dirlo fino in fondo, ma alcune indicazioni mi pare di poterle dare: ci guadagna sicuramente la persona detenuta che per questa via si rende conto d’aver fatto un errore quando ha strappato la legalità coi suoi atti. Ci guadagna perché lo Stato mette a sua disposizione una serie di opportunità, dalla scuola al lavoro, dalle attività interne a quelle esterne, il tutto durante l’esecuzione della pena; ci guadagna l’istituzione carcere che cessa il ruolo odioso di mortificazione allo stato puro, mettendo al centro il valore della legge e con ciò riscattando tutte le figure professionali che prendono parte all’esecuzione della pena; ci guadagna il cittadino contribuente, poiché tutte le pene, anche quelle lunghe, prima o poi finiscono e la persona che avrà lasciato il carcere si porterà appresso il veleno o l’insegnamento utile che dal carcere ha ricevuto. Quali possono essere le conseguenze in un caso o nell’altro non è difficile immaginare! Purtroppo, si tratta di una realtà piccola. Gli Istituti o le sezioni a "Custodia attenuata" sono pochissimi e riguardano un ordine percentuale delle persone recluse talmente basso da diventare quasi irrilevante. Infatti, la loro conduzione soft (secondo legge) suona privilegio alle orecchie della gran massa del popolo dei puniti. Ciò porta a due conseguenze immediate: siamo considerati dalla massa dei detenuti come privilegiati, il che è anche vero; il giudizio però si spinge oltre, si pensa alla "raccomandazione" e non di rado alla collaborazione che nel gergo carceratese significa "infamità"; poiché in queste carceri si arriva passando per la carcerazione "ordinaria", anche chi fosse entrato in carcere per la prima volta, ha già acquisito la cultura dell’odio e della contrapposizione che quel carcere suscita con immediatezza e in ogni caso. Per effetto-trascinamento, perciò, anche il linguaggio e gli atteggiamenti propri del carcere "ordinario" tendono a riprodursi anche nella "Custodia attenuata" compromettendo talvolta tutti gli sforzi, sia da parte dei detenuti che da parte del personale. Naturalmente, io ritengo che valga sempre la pena di lottare per qualcosa di positivo nella vita. Resistere alla cultura dell’illegalità, dopo averci navigato dentro, è una cosa che merita anche qualche boccone amaro. E quando parlo d’illegalità intendo sia quella delle persone che fanno dei reati e perciò finiscono in galera, ma pure quella dell’Istituzione carcere. Infatti, quando parlo di carcere "ordinario" parlo di un carcere dove volontariamente la legge viene seppellita, apparentemente "per necessità", per "difficoltà oggettive", di fatto perché è cultura antica maltrattare i detenuti, non rispettare i loro diritti, considerarli non persone! Sono un tossicodipendente da molti anni. E’ questa, principalmente, la ragione per cui mi trovo qui a Lauro. Entrare ed uscire da un carcere ti comporta tanti punti di rottura, tipo l’emarginazione, i tentativi di riadattamento e quanto c’è di peggio ancora. Un giorno decisi di andarmene in comunità, l’Emmanuel di Lecce. Per me è stato come atterrare su Marte; avevo scoperto un mondo nuovo, di cui non conoscevo affatto l’esistenza. Dopo un pò di tempo, dalla mia bocca cominciavano ad uscire parole che in rare occasioni dicevo. La mia entrata in Comunità è stata una bella scoperta, umanamente parlando, facendomi scoprire quali sono i veri valori, tipo: l’amicizia, la sincerità, la legalità e, soprattutto, il rispetto per gli altri. Dopo quasi un anno sono venuti ad arrestarmi, la legge è legge, e poche volte si dimentica di qualcuno, specialmente se è un povero cristo come me. Ovviamente, vengo portato in un carcere "ordinario", solo dopo 2 mesi vengo trasferito qui a Lauro. Paradossalmente, in questo Istituto ho trovato qualcosa in più rispetto alla Comunità. Una vera e propria ondata di freschezza. Quasi da non crederci! Si capisce, mi trovo pur sempre in un carcere, posto in cui manca la libertà con annessi e connessi. Ma il passaggio prima in Comunità ed il carcere di Lauro poi, mi hanno molto aiutato a riprendermi in mano. Ormai incomincio a sentire il peso di molte cose, questo credo che dipenda soprattutto dal fatto che in me qualcosa è cambiato.Non voglio più fuggire dalle mie responsabilità, e nemmeno voglio peccare di presunzione. Certo, devo fare i conti con un mondo che non segue i miei tempi e le mie modalità di cambiamento ed è questa la lotta alla quale non intendo più sottrarmi. Una lotta che in carcere diventa molto amara, anche perché per un verso riguarda il mondo recluso, per un altro verso riscuote la sordità istituzionale di organi giudiziari per i quali la persona detenuta resta di pietra nei decenni. Sto parlando della Magistratura di Sorveglianza che sembra del tutto insensibile al semplice rilevamento dei processi di cambiamento nelle persone sottoposte ad esecuzione penale, quale che sia il parere articolato dell’equipe trattamentale. Una Magistratura che, secondo me, non tiene in alcun conto, non solo il lavoro di altri attori nell’esecuzione della pena, ma neppure vuole leggere i rilevamenti statistici locali e nazionali. Un organo, la magistratura di Sorveglianza, che, nato per sorvegliare che i diritti dei detenuti venissero rispettati nelle carceri, è diventato un Istituto di oppressione aggiuntivo al carcere. Un OGM, insomma. E certo questo non giova agli sforzi che molti operatori penitenziari fanno, unitamente a quelli di molti detenuti che non vedono riconosciuti i processi di cambiamento assunti soggettivamente. La responsabilità è un valore che andrebbe riconosciuto sempre, soprattutto nei confronti delle persone rese deboli e particolarmente deboli! Ma forse è proprio il riconoscimento, che è alla base della reciprocità, esattamente ciò che non si riesce a fare. Infatti è luogo comune, quando si parla di responsabilità, intenderla solo in negativo, rimovendola quando, viceversa, si presenta in positivo. A Lauro, come in tutte le "Custodie attenuate", questo è un argomento caldo, discusso e vissuto sia da parte delle persone detenute che da parte di tutto il personale. Purtroppo è un argomento dolente giacché manca completamente la presenza di uno degli attori principali che valuta, giudica e decide a distanze siderali: la Sorveglianza! (sommario)
di Antonio Invito Il mio saluto particolare va a quanti hanno la pazienza, la curiosità di fermarsi un attimo a sbirciare una voce che viene da dentro, dove l’orizzonte è alto, dove anche il sole infilando lo sguardo… trattiene il respiro, dove la profondità dei pensieri coincide coi sentimenti, dove è la memoria la protagonista principale. Sono un cantante neomelodico. Vi racconto qualche frammento della mia storia, di come mi sono trovato in carcere. Nel 1989 inizio ad andare a scuola di musica e frequento un corso di canto. La voce c’è e velocemente imparo a modularla, a leggere la musica connettendola con le parole modulate che salgono su senza molta fatica. La passione piano piano mi pervade ed è il sogno: quello di cantare, di costruirmi una vita nella quale fare cose che mi piacessero; insomma l’idea di andare oltre la sopravvivenza, come facevano tanti miei amici, mi spingeva oltre, verso nuovi orizzonti. Non ci volle molto, iniziai a fare piano bar in vari locali. Si trattava di cantare nelle varie cerimonie (matrimoni, feste di comunione, di battesimi e cresime). Per tre o quattro anni ho fatto questo, perfezionando quella che sempre più diventava una professione vera e propria, che oltre a darmi di che vivere, mi appassionava e divertiva sempre di più. Le mie performance musicali erano sempre più apprezzate e poi che si trattava sempre di feste, il clima mi coinvolgeva. Lavorare per fare festa, annegato nei sorrisi e nei piaceri delle persone che mi stavano accanto mi regalava una dimensione della vita davvero piacevole. Non che non ci fossero problemi, quelli non mancano mai in ogni caso, ma mi risultava anche facile affrontarli e risolverli via via che si presentavano, ma erano di gran lunga maggiori i momenti piacevoli, di autostima ed autogratificazione in un clima di alta socialità che significava la costruzione di sempre nuovi rapporti e relazioni. Nel 1993 ho avuto il piacere di conoscere un grande arrangiatore di musica napoletana, all’epoca non molto conosciuto ma che avrebbe fatto fortuna in seguito. Si trattava del grande Gigi D’Alessio, oggi un grande della canzone nazionale. In quello stesso anno esco con un mio c d di cui molte canzoni del grande autore Vincenzo d’Agostino, quello che attualmente le scrive per D’Alessio. La mia carriera andava bene, anzi diventava sempre più vorticosa. Ma la carriera è come i soldi, come la libertà: non basta mai; in tale situazione spesso sorgono anche problemi di resistenza fisica e psicologica. E’ la velocità a guadagnare il sopravvento, dove velocità significa stress ma pure rapporti di un certo tipo. Come dire? Una socialità tutta in superficie, anzi: spesso sopraelevata, mai profonda, mai abbastanza lenta da assaporarla. Ed è stato in questo clima che ha fatto capolino la cocaina! L’impressione immediata che provai subito dopo le prime volte che ne ho fatto uso è stata positiva. Le mie prestazioni aumentarono senza nessuna fatica. Iniziai a sniffarla e ogni giorno avevo voglia di farlo di nuovo, mi sentivo forte ma non quando cantavo. Principalmente quando viaggiavo in auto, dopo che avevo lavorato; non lo so, era, per me, come se riuscissi a disfarmi di tanti impegni che avevo. Dopo dieci anni di questa vita convulsa mi sono fermato perché ero un po’ stanco. Ma pure perché mi ero sposato con il mio dolce amore da cui sono nati due figli molto voluti e molto amati. Ancora ora, naturalmente, i miei figli e mia moglie sono la sola vera speranza, la sola cosa che davvero mi aiuta a superare anche l’attuale difficoltà del carcere. Ma veniamo al resto. Nel periodo di sosta dall’impegno lavorativo, anche il giro dei rapporti e relazioni si sono andati modificando: frequentavo persone che, come me, avevano il problema di procurarsi le sostanze, un bisogno in crescendo… dove anche ogni bussola di "normalità" salta ed altri sono i riferimenti ed il senso stesso della vita. Mi portavo sempre dietro il ricordo e l’amore vissuto con mia moglie, insieme al… complesso di colpa che avevo nei confronti di chi mi aveva davvero amato occupandosi peraltro di accudire i miei figli. Sto parlando di mia moglie, ovviamente. Ma la vita sbattuta nelle "sostanze" induce a mettere in secondo piano i rapporti veri per lasciare libero corso a rapporti strumentali e di usura. In questo contesto ho conosciuto una donna, anch’essa alle prese con le sostanze. Con lei e con la cocaina sono volati via tutti i miei risparmi (e non erano pochi) fino a ridurmi a fare le rapine per poter comprare la cocaina. Una china che mi faceva sempre più sprofondare nella trappola del bisogno, sempre più pressante, della cocaina ad ogni costo! Una spirale irrefrenabile dove tutto e tutti vengono usati per il raggiungimento dell’unico scopo onnipresente, pressante, compulsivo. Era sempre la fame di cocaina a spingere ogni mio passo. E purtroppo si trattava di passi illegali per il procacciamento veloce di più soldi possibili. Se la penso adesso, era proprio una vita impossibile, oltre che aberrante. Anzi, si trattava di un’illusione di vita giacché ora posso dire tranquillamente che si trattava di una non vita! Per questo sono recluso dal 200l. Dopo due anni di detenzione nel carcere di Benevento, sono finalmente approdato all’ICATT di Lauro dove di più e meglio posso riflettere criticamente sulla mia storia, aiutato dagli operatori e dalle opportunità di risocializzazione che questo carcere offre. Il giornale è uno degli strumenti espressivi della Custodia attenuata, ma ci sono anche altri strumenti che consentono una rielaborazione della mia storia per superarla. Qui ho ripreso il mio vecchio mestiere di cantante nel laboratorio interno al carcere. Un’attività che di nuovo mi entusiasma e mi aiuta a credere che potrò ripartire da capo isolando l’aspetto che mi ha tagliato le gambe per non ripeterlo mai più. In questa rinata fiducia nelle mie possibilità molto mi aiuta la vicinanza di mia moglie e dei miei figli il cui bene ha saputo resistere anche alle sciocchezze che pure ho commesso e che hanno reso la vita difficile soprattutto a loro. Il mio saluto particolare, pertanto, è rivolto soprattutto alla mia famiglia che nonostante tutto non mi ha abbandonato e nel cui seno intendo rientrare, appena il carcere me lo consentirà, consapevole di dover recuperare il mio duplice ruolo di marito e padre che già una volta ho tradito, mio malgrado. (sommario)
di Francesco Primicerio Il mio calvario è iniziato il 28 agosto del 2000. Punto di partenza è stato Poggioreale. Padiglione "Napoli". In questa sezione del carcere napoletano ci sono rimasto sei mesi. Ho pensato più volte, in quei sei mesi, che forse l’inferno deve essere qualcosa di molto simile al padiglione "Napoli" di Poggioreale. Per quanto io ci pensi e ci ripensi non c’è modo di descrivere una realtà che non solo è manicomiale, ma è pure terroristica. Ci sono le regole scritte e quelle non scritte ed entrambi i codici valgono sia per i detenuti che per il personale. La cosa che ho capito è che in quel padiglione non esistono "diritti"; sì, ero capitato in un "luogo senza diritti" e con tanti e tali "doveri" da scavarmi dalle viscere tutto l’odio possibile. Naturalmente ciò non valeva solo per me, ma pure per i miei compagni di sventura. Odio e sentimenti profondi di rivalsa che non sempre si riesce a tenere sotto controllo, il che significa che spesso le "vie di fatto" sembrano la sola soluzione possibile. Questo diventa puntualmente un supplemento al già alto indice di violenza irrimediabilmente a carico della persona detenuta e, non di rado, con code giudiziarie aggiuntive. Si capisce che in condizioni simili il conflitto tra "guardie e ladri" ha il potere di accenderne un altro, ancora peggiore, se è possibile: la guerra dei poveri, secondo il proverbiale motto del "dividi et impera". Avevo solo 22 anni e quei sei mesi resteranno certamente incisi nella mia memoria per tutta la vita. Un’esperienza che non auguro a nessuno ma sulla quale varrebbe la pena che qualcuno ci riflettesse. A chi ed a che serve? Che cosa insegna un esperienza simile? È possibile che lo Stato non si rende conto di questa semina di odio? E la legge, che cos’è la legge al padiglione "Napoli" di Poggioreale? Eppure i cittadini che pagano le tasse sono sicuri che la legge penitenziaria in carcere viene rispettata, almeno dal personale! Trascorsi i sei mesi di babilonia al "Napoli" sono stato "trasferito", con un gruppetto di miei compagni, al padiglione "Torino", la cui fama era ancora peggiore del "Napoli". Se non l’avessimo già saputo, ci pensavano i poliziotti che ci accompagnavano nella "trasferta" a farci salire il panico con atteggiamenti e verbalizzazioni irripetibili ma decisamente minacciosi. Al padiglione "Torino" in realtà si stava meno peggio, anche perché in tale padiglione erano detenuti alcuni personaggi della cronaca nera metropolitana, quelli che non fanno e non vogliono casini. Una sezione con 45 detenuti è sempre comunque preferibile alla bolgia infernale del "Napoli". Rimasi in quella sezione per altri due mesi. Poi fui trasferito a Secondigliano. Tutti mi dicevano che ci avevo guadagnato ad essere trasferito a Secondigliano. In realtà c’è voluto poco per capire che ero caduto… dalla padella alla brace. Già il giorno dopo il mio arrivo mi fu chiaro che alcuni dei miei compagni mi conoscevano e mi volevano bene, ma c’erano pure altri ai quali proprio non andavo giù. Continuavo a ripetermi che sarebbe stato meglio se fossi rimasto dov’ero prima. Ma ormai ero lì e certo questi trasferimenti non dipendevano da me. La cosa più insopportabile era il mio compagno di cella che russava tutta la notte e non c’era verso di farlo smettere… Le prime notti non riuscivo a dormire, poi in qualche modo devo essermi adattato, forse per necessità. Anche qui era la stessa solfa di Poggioreale con le provocazioni deliberate da parte della polizia, dove ci sono sempre alcuni che devono distinguersi per bravura o per prepotenza. Uno di loro pretendeva che lasciassimo le sigarette in cella quando andavamo alla "socialità". Naturalmente me le trovava addosso nella perquisizione e quindi mi inviava al suo superiore per i provvedimenti del caso. E anche il suo superiore mi diceva… "quando c’è lui, evitate". Anche alcuni detenuti non vedevano di buon occhio il fatto che io mi portavo le sigarette dietro. La mia ribellione, ovviamente, mi costava sempre rapporti disciplinari. Mi hanno anche cambiato di sezione, nello stesso padiglione, ma pure lì capitava il provocatore che insisteva a farmi rapporti disciplinari in continuazione. Mi cambiarono ancora di sezione ma la musica delle provocazioni non cambiava, anzi peggiorava sempre di più. A volte osservando alcuni poliziotti mi succedeva di pensare a dei veri camorristi. La prepotenza, almeno, era la stessa, nonostante la divisa, dietro la quale uno sempre si aspetterebbe un certo contegno… E arrivò anche lo scontro fisico, c’è un limite a tutto e pure alla mia capacità di sopportazione. Mi ritrovai malconcio, ammaccato da tutte le parti e con le ossa doloranti. In questi casi non c’è difesa possibile, anche perché il rapporto numerico è assolutamente sproporzionato. Anzi, poiché in questi casi agiscono in squadra contro un solo detenuto, nella ressa si fanno male pure tra di loro e alla visita medica dichiarano che è stato il detenuto! Seguirono 22 giorni di punizione in celia d’isolamento, durante i quali per ben due volte i miei familiari che erano venuti a farmi il colloquio furono mandati indietro senza spiegazioni. Finita la punizione fui trasferito al carcere di Avellino dove sono rimasto per due anni senza particolari problemi. Il carcere di Avellino non è Secondigliano e neppure Poggioreale, anche se è pur sempre un carcere col suo stillicidio di sofferenza. Ma almeno il suo governo non è basato sulla provocazione sistematica e quotidiana com’è a Secondigliano ed a Poggioreale! Infine, pochi mesi fa, sono approdato all’ICATT di Lauro, dove mi trovo tuttora e dove è almeno possibile ragionare, lontano dalle minacce e dalle provocazioni e dalle botte. Di più: qui è possibile ripensarsi guardando avanti, alla propria vita, gli affetti, la famiglia, il lavoro. In breve, è possibile guardare oltre il muro pur senza poter cancellare l’odissea infernale che pure ho vissuto. Qui ho ritrovato una dimensione umana ed un rispetto per la legalità che mi fa riflettere anche sui miei atti illegali, sia pure sulla spinta che l’uso di droghe provoca. L’ICATT non è il paradiso, anche questo di Lauro. È comunque un carcere e dunque con un indice di sofferenza insopprimibile, ma almeno vengo riconosciuto come una persona. Una persona che ha fatto degli errori, ma pur sempre una persona, depositaria di diritti e doveri!Non è poca cosa. Il fatto che io racconti, sia pure sommariamente, le mie vicissitudini carcerarie sul nostro giornale è una cartina di tornasole che mai avrei potuto fare dai carceri precedenti. Tutto questo dovrebbe suggerire delle cose. Io almeno lo spero. (sommario)
a cura della Redazione Sono le ore 20,00 di venerdì 6 agosto 2004. Gli operatori e le persone detenute sono in attesa da un po’. C’e la direttrice, le assistenti sociali del CSSA, alcuni operatori esterni, qualche amico comune e, ovviamente, la polizia penitenziaria. In programma è un concerto che gli amici della cooperativa "E. Aprea" di Avellino dedicano alla casa circondariale di Lauro con la quale c’è un pregresso rapporto di reciproca collaborazione. Il tempo è incerto, in mattinata c’è stata un pò di pioggia, ma il cielo è aperto, la serata è calda, il "clima" è quello della festa. Il pulmino con gli amici disabili di Avellino arriva, con un pò di ritardo ma è comprensibile, le difficoltà del raduno, l’attenzione che ci siano tutte le attrezzature egli strumenti, un pò di emozione che tradiscono ogni volta che entrano in carcere, è successo in passato, succede anche stavolta. È, peraltro, un’emozione ricambiata anche da parte delle persone detenute e del personale d’istituto tutto. Il pulmino arriva fino alla quarta porta del carcere, non può andare oltre. Vengono scaricati gli strumenti, il palco è allestito nel passeggio, all’aperto. Durante l’allestimento degli strumenti e le prove voce, troviamo il tempo per un veloce incontro "programmatico" come sviluppo dei precedenti incontri. C’è la direttrice, le assistenti sociali del CSSA, Franco il presidente della cooperativa "E. Aprea", una rappresentanza dell’associazione "Il Pioppo" che con l’Istituto di Lauro collabora da anni. Ci si interroga sul "senso" da attribuire a questi incontri e, orientativamente, ci si accorda per promuovere un evento, sempre all’interno dell’Istituto, in autunno. Un evento che sviluppi quelli precedenti e che si apra a nuova visibilità territoriale con l’intento di sensibilizzare, richiamare l’attenzione sui "limiti" oggettivi e soggettivi che in qualche modo, con forme diverse, scandiscono la solitudine che non riguarda solo i disabili ed i carcerati, ma che in qualche misura complica la vita di tutti i giorni a tutte le persone. Per tale evento abbiamo previsto la presenza di testimonials prestigiosi, provenienti dal mondo dello sport. Una kermesse, fatta certamente di musica ma pure di vari schetc e pure una leggera tavola rotonda con l’obiettivo di affermare che la "normalità" non esiste: ci sono limiti per tutti: talvolta si tratta di limiti drastici, altre volte meno rilevanti ma pur sempre limiti. Come dire: "siamo tutti handicappati". E che a sostenerlo sia un atleta prestigioso sta ad indicare che anche i primati sportivi hanno un limite, che non è lecito illudersi ed illudere circa le progressioni infinite, le velocità infinite che tante vittime mietono tutti i giorni, che drogano lo sport, che trasformano l’agonismo in antagonismo, che inducono le giovani generazioni alla teoria della "prestazione" ad ogni costo, che macinano l’umanità col tritacarne, che fanno terra bruciata della cultura inchiodandoci ad antiche e desolanti antinomie senza respiro, senza speranza. Un obiettivo in controtendenza che vuole, peraltro, scandire l’assurdo e vecchio modernismo che sembra suggerire l’illimitato come possibile, vale per la velocità, ma vale anche per i rapporti e le relazioni sociali che non a caso condannano ciascuno e tutti ad una solitudine feroce, ad un disadattamento generalizzato. Lo slogan olimpico del "sempre più veloci, sempre più in alto, sempre più forti", noi vorremmo rovesciarlo riscoprendo la "lentezza", la "profondità" e la "debolezza" che ci accompagnano se e nella misura in cui non vogliamo perdere la nostra dimensione umana e sociale. Ci siamo detti velocemente che questo appuntamento dovrà essere fruito anche dal territorio, con inviti certo misurati giacché comunque è un appuntamento da realizzare in carcere. Ci lavoreremo ancora per preparare bene questo evento e ci impegniamo fin da ora a dare ampio resoconto a chi e quanti non potranno partecipare a questa festa. Alle 20,30 è iniziato il concerto. Bravissimi i nostri amici della "E. Aprea" ci hanno stupiti con la loro bravura musicale e canora.Abbiamo cantato insieme a loro; per qualche ora abbiamo dimenticato i limiti, le difficoltà, i tormenti di ciascuno e di tutti. Poi, alle 22,30 è stata l’ora dei saluti, un momento sempre toccante: abbracci, baci, qua e là qualche lacrima è scivolata in silenzio come una promessa. Il prossimo appuntamento è per fine ottobre: i "sognatori" ed i "liberanti" hanno ancora qualcosa da dire. (sommario)
Forse il tempo non è passato invano
di Ulisse Festino Ispettore, comandante dell’Istituto di Lauro Per circa venticinque anni ho lavorato nelle carceri della Repubblica. Lavorare ogni giorno, per tutto questo tempo, in questo contesto, a me aveva dato un senso di assuefazione. Mi è sembrato, a volte, di essere un lavoratore "normale", di quelli che tutte le mattine vanno al loro posto di lavoro con automatismi e umori sempre più o meno uguali. Poi un giorno arriva uno che ti dice: "Questo è il giornale del carcere: perché non scrivete qualcosa"? Accetto. Penso di scrivere di quanto sia duro il nostro lavoro, delle ferie e dei riposi mancati; della "cronica carenza di personale", di AIDS, epatiti, minacce, straordinario… e questo, e quello, e quest’altro ancora. Appena metto penna su carta mi accorgo, però, che probabilmente devo ripensare a quello che volevo scrivere. Mi è venuta in mente una polaroid, sbiadita dal tempo, che giorni fa guardavo insieme ai miei figli: la Piazza D’Armi della scuola di polizia di Parma. Con me, i colleghi di corso con i capelli corti e le divise "tre taglie più grandi". Osservavo con i miei ragazzi che, a mia insaputa, il tempo era passato. La piccola diceva che, in fondo, ero migliorato!!!? Pensavo a questo e vedevo il carcere e la sua fotografia: forse mia figlia ha ragione: sono proprio migliorato… e come me anche il carcere… il mio lavoro. Gli anni non sono passati invano in "questo" carcere che ancora molti di noi (poliziotti penitenziari) non sentono come parte di sé. Per è qualcosa di estraneo, da evitare. Siamo cresciuti "accumulando", come una malattia cronica, pregiudizi cinematografici e culturali di cui siamo, spesso, portatori sani. Mentre rughe e chili pian piano cambiavano il mio corpo, nel carcere succedeva che la 395/90 (legge di riforma del Corpo degli agenti di custodia), trasformava quello che fino ad allora era il solo "custodire anime perse". Anime perse su cui la cosiddetta "società civile" voleva si sfogassero tutte le colpe di non si sa chi, o non si sa cosa. La legge sul "trattamento penitenziario" diventa parte importante per il lavoro del poliziotto penitenziario. La legge 395/90 si preoccupa di dare il "là" per formare questo nuovo poliziotto: l’amministrazione risponde (con un attimo di fisiologico ritardo) con una gran quantità di corsi di aggiornamento. Il mio ruolo di mercenario "vendicatore conto terzi" è trasformato, raffinato… snaturato?! "Carcere di Lauro" sintetizza magnificamente il mio vissuto da poliziotto penitenziario in fase di continuo aggiornamento culturale. Detenuti che non vogliono essere più "camosci". Poliziotti che, con tutta la fatica che richiede, pensano che è possibile. Il teatro, i computer, il giornale, le canzoni, il lavoro (interno ed esterno), valori e regole che appaiono indispensabili al percorso che ogni essere umano deve fare per potersi dire tale: con molta più forza e determinazione in un essere umano detenuto. E allora, se un giorno un collega mi dirà: "Ispettò, quel carcerato… bisognerebbe aiutarlo a… esserlo di meno!": forse il tempo non è passato invano. Veramente. (sommario)
di Tonino Madonna Dopo che finii la scuola ed iniziarono le vacanze, iniziò anche la mia amicizia con Tanino. Non fu facile, perché prima dovetti fare in modo che Tanino si fidasse di me e, dopo molto tempo, gli domandai come aveva fatto quel giorno a tagliare la faccia e le mani al suo avversario, visto che nessuno dei due aveva con se un’arma da taglio. Tanino mi raccontò quell’episodio solo dopo una dimostrazione di amicizia da parte mia. Infatti, fui preso dai vigili urbani perche ci beccarono mentre mettevamo le mani nel bancone di Luisella. Tanino era più agile di me e riuscì a fuggire, ma io ero più conosciuto in quella zona e preferii farmi prendere, quando don Salvatore, il vigile, mi chiamò per nome e questo per evitare che andasse a casa mia. Prima di accompagnarmi a casa (non potevano fare altro, vista l’età) mi fecero paura e mi chiesero il nome del mio amico e complice. Io ero però pronto anche a morire pur di non fare quel nome. All’indomani, dopo aver seminato il mio fratello maggiore, andai dove potevo incontrare Tanino, che finalmente mi confessò che conosceva l’arte della lametta da barba e, durante il combattimento, lui la teneva in bocca; ecco perché non la trovarono! Ma la cosa che più mi sbalordì fu quando mi raccontò che non era nipote dell’arrotino, ma era orfano ed era figlio dello Zingaro; viveva con l’arrotino, perché Benito lo Zingaro, suo padre, aveva salvato l’arrotino in un accoltellamento a Poggioreale e, quindi, per riconoscenza l’arrotino aveva preso con se Tanino. Io avevo sentito parlare spesso di Benito ‘o Zingaro, ma non sapevo che Tanino fosse suo figlio. Da quel giorno, fino all’età di diciotto anni, Tanino ed io siamo stati fratelli di sangue. Mi trovavo con mia sorella a Genova quando ebbi la notizia che Tanino si era lanciato da un finestrone del carcere di Foggia e, ancora oggi, l’anima di Tanino vaga per le patrie galere. La cosa che più apprezzavo in lui era il senso del rispetto per le regole; le regole erano tutto per lui. Avevano preso il posto dell’educazione impartita dal padre e dalla madre. Anch’io sono stato vittima delle regole di un codice che adesso alle soglie del terzo millennio, non esiste più. Forse, per voi che non avete vissuto nemmeno per un attimo la vita della strada, vi sembreranno sciocchezze, frutto di ignoranza. Ma vi sbagliate: quelle regole sono state scritte, volute e messe in atto da uomini che ne sapevano di più di dieci scienziati messi insieme. Solo uno sciocco non si accorge che, anche se stiamo parlando di cose negative, quella mancanza di regole oggi sta creando il caos e lo potete vedere, semplicemente guardandovi intorno. Se oggi ci fossero ancora quelle regole, si leggerebbe molto meno la cronaca nera e tanti stupri e casi di bigamia non ci sarebbero, tanti piccoli Silvestro (ragazzino ucciso insieme allo zio a Somma Vesuviana N.d.R.) sarebbero risparmiati. Adesso che ci sentiamo un popolo emancipato, vantando duemila anni di storia, ci accorgiamo che il nostro cammino, la nostra emancipazione va all’indietro. Il passato più remoto è per noi l’oggi e il futuro. Per le strade possiamo vedere Beirut. I kalashnikov però sono passati di moda. I signori dei bottoni si gustano il loro operato facendo uccidere con bazooka e missili terra-aria. Ogni giorno che passa imitiamo sempre di più l’America e le sue lotte di quartiere, senza regole e senza onore. E tutto questo è perché l’emancipazione va verso orizzonti sconosciuti. Come noi, i cosiddetti diversi o devianti, abbiamo seppellito codici e regole, così voi, popolo positivo, avete seppellito i valori più elementari come l’amore, l’accettazione, il riconoscimento, l’accoglienza e l’uguaglianza, sostituendoli con razzismo, opportunismo ed egoismo di massa. Un Abate Francescano, che faceva volontariato nel carcere di Salerno, mi disse un giorno: "Tutto è voluto". Voleva dirmi che tutto è manovrato. Io penso che, così come le cose buone e celesti sono manovrate da Dio, le cose terrene sono manovrate dagli uomini. Noi tutti dobbiamo, una volta e per sempre, metterci in testa che le nostre idee, le nostre libertà, i nostri pareri, i nostri obiettivi, i nostri modi di essere e la nostra diversità, devono essere protetti, sostenuti, al costo di ribellarci e al costo della vita (che cos’è una vita rispetto a questi valori?), e se bisogna sacrificare qualcosa per ottenere la nostra libertà di essere, facciamolo, altrimenti saranno sacrificati i nostri figli, la nostra carne, il nostro futuro. Così come hanno voluto, con metodi occulti, abolire le vecchie regole del popolo anti-Stato, riuscendoci pienamente, così un domani non molto lontano aboliranno le regole - di una società civile, per suggellare la dittatura. Sta a noi difendere l’equilibrio migliore, per noi e per i nostri figli. Come io oggi rimpiango il vecchio mondo e le sue regole, così voi un domani rimpiangerete le vostre libertà. Non c’è bisogno di guerre odi modi drastici, ma basta fare le cose con amore, senso di accettazione e di uguaglianza. Dio ci ha creati tutti uguali e sta al più forte difendere il più debole, al più intelligente supportare il meno intelligente e non viceversa. Dopo qualche mese, la mia amicizia con Tanino ed i miei amici di casa venne interrotta, traumaticamente per me. Ormai nella mia famiglia era entrata la manna del consumismo e del progresso. Ci trasferimmo, avendo trovato i miei genitori una casa a tutti gli effetti. Anche noi ragazzi possedevamo la nostra stanzetta. Non capii perché il destino si stesse accanendo su di me, giocandomi quel tiro del cavolo. Ricordo che, i primi due mesi, tra mio padre e me fu guerra aperta. La malinconia per i miei amici e per il posto che avevo da poco lasciato mi consumava maledettamente. Ma il dolore che provavo era incomprensibile per me. Io non avevo mai pensato di attaccare mio padre così selvaggiamente. Preferivo le botte, che erano per me come un momento di sollievo. Dopo tre mesi, mio padre, con la sua filosofia, facendo in modo di non cedere apertamente, per salvarsi la faccia, escogitò una punizione per il mio comportamento, ma tutti si accorsero che, più che una punizione, sembrava un premio. Dall’età di quindici anni, fino alla morte di mio padre, fra noi c’è stato un ininterrotto conflitto. A parere suo, io avevo la qualità di arrivare molto, ma molto più avanti di lui; ma per me, mio padre rappresentava solo l’ostacolo più grosso da sempre, per raggiungere i miei obiettivi. A volte, anzi, più di una volta, riusciva a corrompere i miei compari, mandando all’aria progetti che studiavo per mesi e, qualche volta, devo essere sincero ed onesto, mi ha salvato da brutti fossi. Come riuscisse a sapere certe cose, questo non lo so, eppure erano cose che noi facevamo con molta discrezione. Per tirarmi fuori da quello stato di malinconia, in cui ero caduto dopo esserci trasferiti, mio padre mi trovò un’occupazione dopo la scuola, mandandomi, sotto forma di punizione, da un meccanico suo conoscente, dove avrei dovuto imparare il mestiere. Sono certo che, in quella circostanza, era stato tutto preparato, poiché l’officina si trovava a poche centinaia di metri da dove abitavamo prima di trasferirci. E poi c’era la paga. Conoscendomi, mio padre fece in modo che venissi invogliato con un’ottima paga settimanale, che passava lui al principale, il sabato. L’officina si trovava nella zona che veniva allora frequentata da guappi, magnaccia e ladruncoli: Piazza Pugliano. Allora era la Piazza principale del paese e del malaffare. Tutto quello che ti serviva potevi averlo, pagandolo a prezzo stracciato. Bastava che ti recassi al mercato di Pugliano e lo trovavi. La sorte ci mise lo zampillo: Già da due anni lavorava dal meccanico, dove lavoravo anch’io, un ragazzo più grande di me, credo di quattro anni, ma solo l’età lo faceva più grande di me, a parte l’astuzia. Era il classico scugnizzo, di forma e di idee. Durante i primi tempi andavamo molto d’accordo, poi entrò in noi lo spirito competitivo, ma in un certo senso l’ho sempre rispettato. Scusatemi se non dico il suo nome. Lo potrei chiamare in tanti modi, ma l’unico nome che potrei dargli è il suo e, poiché dalle nostre parti era molto conosciuto e per certi ragazzi della mia età era leggenda, io lo chiamerò il mio collega. La sera prima che succedesse quello che vi sto raccontando, il mio collega ed io, anche se non avevamo ancora l’età, riuscimmo ad impadronirci di due macchine dei clienti e facemmo una gara. Quel giorno, erano le dieci del mattino, con la scusa di smontare una trasmissione ad una 124 fiat, parlammo della stronzata che avevamo fatto la sera precedente; la macchina era stata sistemata un pò più lontano dall’officina per motivi di spazio e, stesi per terra sotto di questa, avevamo la veduta di tutta la piazza. Ad un tratto, sentimmo dei colpi di pistola a distanza ravvicinata ed una 1750 Alfa Romeo che sbandava e vomitava pallottole. Il mio amico ed io uscimmo da sotto la macchina, precipitandoci senza paura verso quegli spari. Ci mettemmo dietro un pulman scassato, che faceva la linea del Vesuvio, e ci gustammo tutta la scena. Dopo che il mezzogiorno di fuoco finì, ci recammo verso quella sagoma tremante che stava distesa a faccia in giù in una pozza di sangue. Ricordo ancora che non avvertimmo nessuna emozione spaventosa, anzi la vista del sangue ci eccitava. Alla fine vedemmo correre il nostro padrone con una faccia di mille colori. A mio parere, tremava più per la stronzata che avevamo fatto in quel momento, che per quello che era successo. Quell’episodio delittuoso segnò la nostra vita; io sono stato più fortunato dell’altro spettatore, che è morto ammazzato in tenera età. Non c’è tanto da discutere tra una morte precoce e un delirio fatto di rimorsi come nel caso mio; in un fatto di sangue, come in tutte le cose, c’è chi ci lascia le penne e chi si arricchisce. Nel nostro caso, si arricchì il regista che prese quell’evento come spunto per un film; infatti, da quel fatto, è nata la trama del film "camorra", con Fabio Testi. Credo che il regista fosse Squittirei. Ci sarebbe voluto solo un miracolo di San Gennaro, per tiranni dalla morsa del destino, oppure sarei dovuto nascere a Milano! Ricordo quando uscì il film. Non so quante scuse trovò mio padre, per non farmi andare a vederlo. Quel film, quei posti, mi hanno accompagnato per tutta la vita. Dovete sapere che, per completare lo scenario probatorio, il destino mi fece innamorare di una ragazza, che poi è diventata mia moglie, che abitava proprio nel portone e nel vico dove sono state girate le scene più cruente di quel film. Finché quella pellicola esiste, basterà che la riveda per trasferirmi nel passato, dove sono stato immortalato insieme a mia zia ‘a nera nera (sì, ci sono anch’io in una scena). Comunque, quel passato, per quanto negativo possa essere, rispetto alla camorra di oggi è una passeggiata in Villa Comunale. Ditemi, dai fatti che vi racconto potevo avere un destino diverso? E non venitemi a dire che abbiamo tutti un intelletto e che Dio ci ha creati con il bene della ragione. Non credo che, inculcatisi nella mente di un ragazzo certi modi di vedere e di vivere, egli possa decidere il suo futuro equamente. (sommario)
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