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Padre Vittorio Trani, da 25 anni cappellano di Regina Coeli
Famiglia Cristiana, 30 gennaio 2004
Per un quarto di secolo ha raccolto il grido dei carcerati. E ora lo ha condensato in un libro. Assolutamente vero. Venticinque anni a Regina Coeli. Suona come la condanna di un criminale incallito, invece è la missione di padre Vittorio Trani, cappellano del carcere romano. Regina Coeli è un pezzo di storia di Roma. Già il nome, Regina del Cielo, è un canto alla Madonna piuttosto che l’evocazione di un luogo di detenzione (il carcere sorse nel 1881 sul luogo occupato da due monasteri di suore). Il carcere, poi, si trova nel cuore della città, a metà strada fra il Vaticano e Trastevere. Si affaccia su via della Lungara, che è da secoli uno dei percorsi giubilari per i pellegrini giunti a Roma. Altro record, Regina Coeli è l’unico carcere al mondo visitato da tre Papi: Giovanni XXIII (1958), Paolo VI (nel 1964, una visita che curiosamente non viene mai ricordata) e Giovanni Paolo II (nel 2000). Padre Vittorio, 60 anni, sacerdote francescano conventuale, è arrivato a Regina Coeli il 1° settembre 1978. Originario della provincia di Latina, padre Vittorio si avvicinò al mondo del carcere tra il 1972 e il 1974, lavorando a Rebibbia. Prima di arrivare a via della Lungara è stato parroco nel quartiere di Torre Spaccata. Dopo 25 anni a Regina Coeli padre Vittorio ha pensato che fosse ora di scrivere un libro di aneddoti, ricordi e riflessioni. Si legge con piacere. Si intitola Tra il Serio e il Faceto, lo pubblica Herald Editore di Roma, nella collana "Quaderni dal carcere". Il ricavato della vendita servirà a finanziare nuovi progetti per il recupero di ex detenuti.
Padre Vittorio, perché Regina Coeli è un carcere così particolare?
"Senza dubbio conta il fatto che si trova nel cuore del quartiere più caratteristico di Roma. Ma la ragione principale credo sia questa: si tratta del carcere di prima accoglienza della città. Qui i cittadini arrestati arrivano dal territorio, è un carcere che ha un forte rapporto con la realtà locale".
Si può dire che Regina Coeli è il carcere dei "poveracci"?
"Diciamo che la stragrande maggioranza del migliaio di detenuti che lo popola è gente già sconfitta nella vita. Sia chiaro, non mancano coloro che fanno del crimine un proprio progetto, ma la gran parte delle persone arriva qui da realtà difficili. Abbiamo poveracci, drogati, alcolizzati, stranieri, malati di Aids. Finisce qui dentro molta gente che la mattina si sveglia senza sapere che cosa fare della propria giornata".
Gli stranieri sono tanti?
"Dal 1992 ormai sono la maggioranza dei detenuti. A Regina Coeli abbiamo rappresentate tra le 55 e le 65 nazioni. I più numerosi sono i rumeni, poi tra i gruppi più folti abbiamo albanesi, tunisini, algerini, marocchini, slavi, colombiani, nigeriani".
In questa babele di lingue, tradizioni e religioni, lei come si muove?
"Non è facile, anche perché di solito gli stranieri hanno le famiglie lontane e questo li rende ancora più soli. Io cerco di aprirmi al dialogo con tutti. Anche i non cristiani a quel punto non vedono in me un prete, ma uno che li può ascoltare. E per loro è già tanto. Per quanto riguarda il culto, ricordo che Regina Coeli non ha una chiesa o una cappella, infatti le messe si celebrano nella rotonda centrale. Ma ora esiste finalmente il progetto per realizzare una cappella cattolica e quattro luoghi diversi di culto: per i protestanti, gli ortodossi, i musulmani e uno per gli altri culti. Il progetto c’è, ci mancano ancora i soldi".
La visita del Papa nel 2000 che ricordo ha lasciato tra i detenuti?
"Il Papa è entrato nel cuore di questa gente. Ogni volta che si cita il Papa, magari nelle intenzioni di preghiera della messa, qui dentro scatta l’applauso. I detenuti lo hanno sentito davvero vicino".
Ma l’appello del Papa ai parlamentari per un atto di clemenza verso i detenuti non ha prodotto gli effetti sperati...
"Sì, ci sono state anche proteste, ma devo dire che ad un certo punto è prevalsa la maturità. I detenuti si sono detti: Prendiamo quello che viene, e si sono dovuti accontentare dell’indultino. La delusione è stata grande".
Oggi chi esce dal carcere riesce a reinserirsi nella società?
"Non è facile, perché il carcere ghettizza, etichetta, blocca qualsiasi sbocco, distrugge la dignità delle persone. Eppure sono convinto che nessuna esperienza annulli la dignità dell’uomo".
Noi che stiamo fuori, che cosa possiamo fare per aiutare chi sta dentro?
"Tutti possono avere attenzione. I cristiani hanno qualche dovere in più. Il Vangelo c’invita a visitare i carcerati, ma non è necessaria la presenza fisica. Possiamo farlo anche con la preghiera quotidiana. Le comunità parrocchiali possono prendersi cura dei loro detenuti, si può avere attenzione alle famiglie di chi è in carcere. Chi se la sente può anche fare opera di volontariato all’interno del carcere".
Venticinque anni qui dentro, è stanco, padre Vittorio?
"L’esperienza è forte, assorbe energie e crea tensioni, perciò bisogna sapersi rigenerare continuamente. Sennò, te ne stai qui dentro come in un fiume in piena che ti travolge".
Assistenza sanitaria in carcere: prorogata la convenzione con i medici
Il Gazzettino, 1 febbraio 2004
Per assicurare la continuità delle attività di cura e assistenza ai detenuti tossicodipendenti ospiti degli istituti penitenziari del Veneto, la Giunta regionale - su proposta dell’assessore regionale alle politiche sociali Antonio De Poli, di concerto con il collega alla sanità Fabio Gava - ha dato mandato alle Aziende Ulss di prorogare a tutto il giugno 2004 le convenzioni in atto al 31 dicembre 2003 con il personale medico e paramedico (medici, psicologi, infermieri) che operano nelle carceri. Ne informa lo stesso De Poli il quale riferisce inoltre che "il provvedimento stabilisce che le Ulss faranno fronte alla spesa specifica con le risorse assegnate nel riparto del Fondo sanitario regionale 2004, in attesa di eventuali ulteriori risorse finanziarie erogabili alle Aziende Ulss stesse a seguito degli accordi che interverranno tra i ministeri e le amministrazioni competenti.
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