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Doveri dei giornalisti in rapporto al diritto di cronaca e di critica di Franco Abruzzo (presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia)
Nota dell'autore
Questa ricerca non riflette posizioni dottrinarie sul tema del diritto di cronaca e di critica in connessione con i doveri dei giornalisti. Vuol essere, invece, un lavoro eminentemente giurisprudenziale diretto ai giornalisti, che trattano le notizie, giorno dopo giorno. E' opportuno che i giornalisti riflettano sulle sentenze dei giudici e sulle loro scelte. L'obiettività assoluta non esiste, ma è un traguardo cui tendere. I cronisti sono stati definiti da Umberto Eco storici del presente o dell'istante: conoscere gli strumenti giuridici può essere d'ausilio in un lavoro delicatissimo al servizio dei padroni dei giornali, i lettori. Un'obiettività bassa è a portata di mano: è quella che presuppone da parte dei giornalisti ascoltare sui fatti almeno due campane diverse, contattare eventuali testimoni, portare alla luce documenti più o meno nascosti o segreti, pubblicare tutte le versioni esistenti sui fatti medesimi. Rispettando sempre la dignità dei protagonisti delle vicende e inseguendo "la necessaria correlazione tra quanto narrato e quanto accaduto nella realtà, risultando inammissibile il valore sostituivo della verosimiglianza". 1. Premessa. Il rispetto della dignità della persona umana fondamento della nostra Costituzione. L'interesse della Repubblica all'integrità morale della persona. Il concetto (giuridico) di giornalismo.
Questa ricerca prende le mosse da due massime giurisprudenziali: 1. "In tema di diritti della personalità umana, esiste un vero e proprio diritto soggettivo perfetto alla reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo (Corte costituzionale 184/1986, 479/87), in particolare nell'articolo 2 (oltre che nell'articolo 3, che fa riferimento alla dignità sociale) e nel riconoscimento dei diritti inviolabili della persona. L'articolo 2 della Costituzione, nell'affermare la rilevanza costituzionale della persona umana in tutti i suoi aspetti, comporta che l'interprete, nella ricerca degli spazi di tutela della persona, è legittimato a costruire tutte le posizioni soggettive idonee a dare garanzia, sul terreno dell'ordinamento positivo, ad ogni proiezione della persona nella realtà sociale, entro i limiti in cui si ponga come conseguenza della tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la sua personalità L'espresso riferimento alla persona come singolo rappresenta certamente valido fondamento normativo per dare consistenza di diritto alla reputazione del soggetto, in correlazione anche all'obiettivo primario di tutela "del pieno sviluppo della persona umana", di cui al successivo articolo 3 (cpv.) della Costituzione (implicitamente su questo punto Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 13). Infatti, nell'ambito dei diritti della personalità umana, con fondamento costituzionale, il diritto all'immagine, al nome, all'onore, alla reputazione, alla riservatezza non sono che singoli aspetti della rilevanza costituzionale che la persona, nella sua unitarietà, ha acquistato nel sistema della Costituzione. Trattasi quindi di diritti omogenei essendo unico il bene protetto". (Cass. civ. Sez.III 10-05-2001, n. 6507; Cancani c. Paglierini; FONTI Diritto e Giustizia, 2001, f. 22, 15 nota di Rossetti). 2. "Oggetto della tutela penale del delitto di diffamazione è l'interesse dello Stato (della Repubblica, dopo le modifiche al Titolo V della Costituzione, ndr) all'integrità morale della persona: il bene giuridico specifico è dato dalla reputazione dell'uomo, dalla stima diffusa nell'ambiente sociale, dall'opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro. Intendendo la previsione legislativa punire l'attacco all'altrui personalità morale, è fondamentale accertare quando l'interesse alla protezione del bene giuridico debba prevalere sulla libertà individuale di espressione del pensiero". (Cass. pen. Sez. V 28-02-1995, n. 3247; Lambertini-Padovani e altri: FONTI Cass. Pen., 1995, 2535 nota di Iacoviello; Giust. Pen., 1995, II, 551) Da queste due sentenze emerge nitidamente un grande principio: il diritto di cronaca e di critica arretra di fronte alla tutela della dignità della persona, che a sua volta è un diritto inviolabile dell'uomo e in quanto tale tutelato dall'articolo 2 della Costituzione. Le offese (attraverso i giornali) all'identità, alla reputazione, all'onore, all'immagine e alla riservatezza di una persona sono sanzionati penalmente con il terzo comma dell'articolo 595 Cp (diffamazione a mezzo stampa) e con l'articolo 13 (diffamazione a mezzo stampa con l'attribuzione di un fatto determinato) della legge n. 47/1948 sulla stampa. Anche la violazione della privacy può far scattare il reato di diffamazione a mezzo stampa: "Integra il reato di diffamazione la pubblicazione di notizie pur vere sulla salute di un soggetto (nel casi di specie: tossicodipendenza e sieropositività) nonché la pubblicazione della sua fotografia in quanto si tratta di dati personali e attinenti alla sfera della riservatezza rispetto ai quali difettano i requisiti scriminanti sia dell'interesse pubblico che della continenza" (Trib. Bolzano 18 marzo 1998; Riviste: Dir. Informazione e Informatica, 1998, 616). In base all'articolo 13 della legge sulla stampa, "nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire cinquecentomila", mentre in base all'articolo 595 (diffamazione) del Cp, "se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a lire un milione". Anche la registrazione delle testate (con gli articoli 3 e 5 della legge sulla stampa n. 47/1948), - rendendo obbligatorio il ricorso a un direttore responsabile, a un editore, a un proprietario e a uno stampatore - è finalizzato alla tutela dei diritti dei cittadini vittime dei delitti commessi con il mezzo della stampa. "E' manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 cost., la questione di legittimità costituzionale degli art. 57 Cp e 3 legge 8 febbraio 1948 n. 47 in quanto rendono responsabile il direttore di pubblicazioni per l'omesso controllo necessario ad impedire la pubblicazione di un articolo diffamatorio, essendo stata dichiarata infondata identica questione con la sentenza n. 198 del 1982 e non contenendo l'ordinanza di rimessione motivi che possano indurre a modificare la precedente decisione" (Corte cost., Ord., 16-05-1983, n. 139; Oriani; FONTI Giur. Costit., 1983, I, 817). Della normativa sull'informazione fa parte anche il "Testo unico sulla privacy" (Dlgs n. 196/2003, che ha assorbito la legge n. 675/1996 sulla tutela dei dati personali), che così affianca, per quanto riguarda i doveri dei redattori multimediali, la legge sull'ordinamento della professione giornalistica, la legge sulla stampa, il Contratto nazionale di lavoro giornalistico, il Dlgs sulla pubblicità ingannevole e comparativa, la legge sul diritto d'autore, le leggi sull'editoria, le leggi sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato, la legge sulla disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni. Al centro di questo "sistema" è la persona umana. La persona umana è il cuore della nostra Costituzione repubblicana: "....il rispetto della persona umana, valore che anima l'articolo 2 della Costituzione.... Quello della dignità della persona umana è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull'interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale" (sentenza n. 293/2000 della Corte costituzionale). E' spiegabile il forte richiamo alla dignità della persona umana operato dalla Corte costituzionale ove si legga l'articolo 3 della carta fondamentale: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge". Emerge così che il principio della dignità sia proclamato (addirittura!) prima di quello dell'eguaglianza. Anche l'articolo 41 è su questa linea: "L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Se ne deduce che quello del rispetto della dignità della persona umana sia il pilastro fondamentale della carta dei "valori" della Repubblica democratica. Con la legge sulla privacy, il nostro ordinamento compie un salto di qualità di grande profilo. Cresce la tutela dei diritti della persona. L'articolo 2 del Dlgs n. 196/2003 afferma che "il presente testo unico, di seguito denominato "codice", garantisce che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all'identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali". Ma anche la legge sull'ordinamento della professione giornalistica (n. 69/1963) assegna un ruolo centralissimo alla persona umana, quando afferma (all'articolo 2) che "è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede". La libertà d'informazione e di critica, insopprimibile, quindi, sulla scia dell'articolo 2 della Costituzione, ha due confini invalicabili: il rispetto della dignità della persona e quello della verità sostanziale dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, non è un diritto sciolto dal rispetto degli altri diritti primari costituzionalmente protetti (onore, decoro e dignità della persona, riservatezza e identità personale). A tal riguardo vanno richiamate anche le disposizioni contenute nell'articolo 10 (II comma) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (recepita nella legge n. 848/1955), quale fonte di norme integrative del diritto sostanziale italiano, le quali, a fronte del diritto del singolo alla libertà di espressione, subordinano l'esercizio del suddetto diritto a restrizioni e sanzioni "per la protezione della reputazione o dei diritti di altri". Questo articolo 10 richiama in sostanza gli articoli 11, 12 e 13 della legge sulla stampa n. 47/1948, che puniscono i giornalisti riconosciuti colpevoli del reato di diffamazione commesso con il mezzo della stampa e con l'attribuzione di un fatto determinato. L'articolo 8 della Convenzione europea afferma, inoltre, che "ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare". L'articolo 16 della Convenzione Onu del 1989 sui diritti del fanciullo (legge italiana n. 176/1991) afferma che "nessun fanciullo può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata" (sono le parole precise dell'articolo 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo). L'ordinamento italiano, quindi, partendo dall'articolo 2 della Costituzione, che cala nel diritto positivo i diritti inviolabili dell'uomo, - e disegnando un arco che abbraccia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, la legge sulla stampa, la legge sulla privacy e la legge sulla professione giornalistica -, forma un ampio reticolo di norme che rendono intangibile la tutela della vita privata e dell'onore dei cittadini. "Il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all'identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali" è il valore sommo che il Dlgs n. 196/2003, come afferma il richiamato articolo 2, intende proteggere nel processo di trattamento dei dati personali. Si può dire, quindi, con i giudici supremi (Cass. pen., sez. III, 7 ottobre 1998, n. 12744), che nel nostro ordinamento il diritto di cronaca e di critica, quale esercizio del democratico principio di libertà di manifestazione del pensiero, trova un limite invalicabile nel rispetto di altri diritti fondamentali, parimenti sanciti dalla Costituzione in quanto attinenti alla pari dignità sociale di tutti i cittadini, nonché nella salvaguardia dei diritti inviolabili d'ogni persona, sia come singolo, sia come membro delle più diverse formazioni sociali nelle quali si forma e si sviluppa la personalità d'ognuno, diritti inviolabili tra i quali vanno annoverati, senza alcun dubbio, il diritto all'onore, alla reputazione, al decoro, all'identità personale e alla riservatezza. Secondo la Corte costituzionale (che sul punto si è pronunciata con chiarezza con la sentenza n. 86/1974) l'onore (comprensivo del decoro e della reputazione) è tra i beni protetti e garantiti dalla carta fondamentale, "in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana". Va sottolineata l'importanza dell'articolo 11 del Dlgs n. 196/2003, che completa il quadro dei doveri richiesti al giornalista dall'articolo 2 della legge professionale n. 69/1963. Questo articolo 11 vuole che i dati personali (=notizie) debbano essere: a) trattati in modo lecito e secondo correttezza; b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi; c) esatti e, se necessario, aggiornati; d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; e) conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati. Dietro le notizie, quindi, c'è un professionista impegnato nella raccolta e nella elaborazione delle stesse secondo regole deontologiche precise. La deontologia, quindi, è il cuore dell'agire del professionista, che opera nei mass media. L'etica, si legge nello Zingarelli, è l'insieme delle norme di condotta pubblica e privata che una persona o un gruppo di persone scelgono e seguono nella vita o in un'attività. La deontologia, scrive sempre Nicola Zingarelli, è, invece, il complesso dei doveri inerenti a particolari categorie professionali. Etica e deontologia esprimono concetti che condizionano la vita dei professionisti e, quindi, anche dei giornalisti. Le regole deontologiche dei giornalisti sono racchiuse nell'articolo 2 della legge n. 69/1963. Queste regole garantiscono l'autonomia della professione (così l'articolo 1 del Cnlg). E' inconcepibile, infatti, una professione senza deontologia. Va detto anche che la deontologia non è un optional. Dalla legge professionale si ricava che il giornalismo è da concepire come informazione critica e che non può essere confuso con il messaggio pubblicitario esplicito o indiretto. La cornice legislativa conferisce, quindi, al giornalista il massimo grado di libertà. La legge professionale fissa le regole che i giornalisti sono tenuti a osservare, tra le quali quella che impegna giornalisti ed editori a promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori. Senza quella legge, i giornalisti si ridurrebbero a essere degli impiegati di redazione senza deontologia. Gli articoli 2 e 48 della legge professionale n. 69/1963 impegnano il giornalista a essere e ad apparire corretto. I principi, ricavati dagli articoli 2 e 48, "formano" la deontologia professionale vivente dei giornalisti: 1) la libertà di informazione e di critica (valori che fanno definire il giornalismo informazione critica) come diritto insopprimibile dei giornalisti. La Corte costituzionale ha sottolineato, con la sentenza n. 1/1981, "il rilievo costituzionale della libertà di cronaca (comprensiva della acquisizione delle notizie) e della libertà di informazione quale risvolto passivo della manifestazione del pensiero, nonché il ruolo svolto dalla stampa come strumento essenziale di quelle libertà". 2) la tutela della dignità della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica. 3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà; 4) il dovere di rettificare le notizie inesatte (La rettifica è, per il giornalista, un dovere e un obbligo giuridico: "Il diritto alla rettifica delle notizie pubblicate costituisce fondamentale diritto della persona a tutelare la propria immagine e dignità Pertanto la rettifica va pubblicata conformemente a quanto richiesto, senza che né il direttore del giornale né il giudice abbiano facoltà di modificarne il testo, o anche di sindacarne il contenuto sotto il profilo della veridicità" (Trib. S. Maria Capua V., 22 gennaio 1999; Parti in causa Corriere Caserta c. Credito it.; Riviste Foro Napol., 1999, 37); "L'istituto della rettifica disciplinato dall'art. 42, legge 416/1981 riconosce a chi soggettivamente si ritenga leso da un'informazione non rispondente a realtà il diritto di ottenere la pubblicazione della <propria verità>, garantendo così una dialettica nell'ambito del sistema d'informazione; è pertanto superfluo il vaglio dell'esattezza della notizia originaria" (Pret. Milano 26-05-1986; Soc. Biscardo c. Soc. ed. Il Corriere della Sera; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 1986, 940 nota di ZENO ZENCOVICH). L'articolo 4 del Codice sulla privacy del 3 agosto 1998 arricchisce il quadro di doveri del giornalista, che è chiamato a rettificare errori ed inesattezze "senza ritardo"); 5) il dovere di riparare gli eventuali errori; 6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse; 7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori; 8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali; 9) il rispetto della propria reputazione; 10) il rispetto della dignità dell'Ordine professionale; 11) il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi; 12) il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori. Il potere disciplinare sugli iscritti spetta ai Consigli degli Ordini. I Consigli sono giudici amministrativi disciplinari. Due massime giurisprudenziali fissano i doveri dei giornalisti: L'obbligo di comportarsi in modo conforme alla dignità professionale. "In assenza di tipizzazione dei comportamenti illeciti sul piano disciplinare, la rilevanza deontologica dei comportamenti del giornalista va teleologicamente valutata in rapporto all'obbligo di comportarsi in modo conforme al decoro ed alla dignità professionale e tale da non compromettere la propria reputazione o la dignità dell'Ordine sancito dall'art. 48 1. n. 69 del 1963 nonché al dovere di lealtà e buona fede ed all'obbligo di promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione tra giornalisti ed editori e la fiducia tra la stampa ed i lettori sanciti dall'art. 2 della legge medesima" (App. Milano, 18 luglio 1996; Foro It., 1997, I, 919). Il giornalista deve essere e deve apparire corretto con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede. "Oltre all'obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il giornalista, nel suo comportamento oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa" (App. Milano, 18 luglio 1996; Riviste: Foro Padano, 1996, I, 330, n. Brovelli; Foro It., 1997, I, 938) Interessante è questa massima, che richiama i doveri del cronista così come delineati dalla legge professionale. In sostanza la buona fede deve essere esclusa quando il giornalista abbia agito con negligenza: "Nel campo degli illeciti a mezzo stampa, la buona fede del giornalista, necessaria ad integrare l'esimente della verità putativa, richiede non solo la verosimiglianza della notizia, oggettivamente falsa, ma anche il controllo della fonte di provenienza e della sua attendibilità; accertamento - quest'ultimo - che il giornalista, agli effetti dell'esimente in questione, non deve mai omettere, neppure per il convincimento, proprio o della pubblica opinione, della verità della notizia o per l'esigenza della speditezza dell'informazione. La buona fede del giornalista deve essere, tuttavia, esclusa allorquando, nel controllo della notizia (doveroso anche ai sensi del comma 1 dell'art. 2 l. 3 febbraio 1963 n. 69, sul relativo ordinamento professionale, che impone al giornalista l'obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale dei fatti, nonché i doveri di lealtà e buona fede), egli abbia agito con negligenza (ovvero imperizia o imprudenza). L'indagine a ciò relativa comporta accertamenti di fatto e, pertanto, è rimessa al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici". (Cass. civ. Sez.III 20-08-1997, n. 7747; Gibilisco c. Soc. Terme di Crodo; FONTI Mass. Giur. It., 1997). Anche il rispetto della verità sostanziale dei fatti è un caposaldo della deontologia dei giornalisti come emerge da quest'altra massima: "Affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca, devono ricorrere le seguenti condizioni: la verità oggettiva della notizia pubblicata; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta: pertinenza) e la correttezza formale dell'esposizione (cosiddetta: continenza). La condizione della verità della notizia comporta, come inevitabile corollario, l'obbligo del giornalista, non solo di controllare l'attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate), ma anche di accertare e di rispettare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia (non scalfita peraltro da inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o ad aggravarne la valenza diffamatoria); con la conseguenza che, solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente osservato, potrà essere utilmente invocata l'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, restando peraltro escluso che, ove le suddette condizioni non ricorrano, l'equilibrio generale dell'articolo giornalistico escluda la natura diffamatoria dei fatti riferiti, potendo eventualmente comportare una minore gravità della diffamazione ed incidere quindi sulla liquidazione del danno". (Cass. civ. Sez. III 04-07-1997, n. 6041; Soc. Il Messaggero c. Vitalone; FONTI Mass. Giur. It., 1997). Il principio della tutela della personalità altrui è racchiuso in queste massime: "Non è precluso dall'art. 21 cost. il provvedimento d'urgenza a carattere inibitorio, inteso a far cessare temporaneamente o a contenere il pregiudizio, che potrebbe derivare da una pubblicazione non ancora edita ai diritti altrui, soprattutto quando si tratta della tutela di diritti della personalità" (Pret. Roma 03-07-1987; Marzotto c. Soc. Rizzoli periodici; FONTI Foro It., 1988, I, 3464). "Per aversi prestazione giornalistica o pubblicistica, il contenuto del mezzo espressivo adoperato (giornale, radio, televisione ecc.) deve riassumere i requisiti dell'informazione dell'opinione come oggetto di comunicazione e di conoscenza interpersonale; deve, quindi, avere contenuto di libera formazione e valutazione dei fatti e dei concetti esposti, rispondere a verità sostanziale nei limiti della buona fede e della lealtà, avere come limite il rispetto delle opere poste a tutela della personalità altrui ed essere destinata ad un numero indeterminato di lettori e di ascoltatori". (Cass. civ. 03-06-1985, n. 3309; rai-Tv c. De Monte Major; FONTI Mass. Giur. It., 1985). Il comportamento tenuto dal giornalista estensore nonché dal direttore della testata che ha pubblicato un articolo in cui vengono riportate le generalità e le foto di un minore, è idoneo a violare le norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ("sub specie" di lesione della normativa a tutela dei minori, come approvata dalla convenzione di New York e recepita nel nostro ordinamento con l. 27 maggio 1991 n. 176) nonché ad essere valutato come non conforme al decoro ed alla dignità professionali così da compromettere anche la dignità dell'Ordine ("sub specie" di violazione di precisi intendimenti fatti propri dalla categoria con la sottoscrizione delle carte di autoregolamentazione). (Trib. Milano 12-07-2001; FONTI Giur. milanese, 2002, 33) Le carte di autoregolamentazione costituiscono un'esemplificazione del contenuto "in bianco" delle norme deontologiche professionali. Le prescrizioni contenute nelle carte di autoregolamentazione (Carta di Treviso e Carta dei doveri del giornalista) devono essere ritenute idonee a costituire un'esemplificazione del contenuto "in bianco" delle norme regolamentari di cui agli art. 2 e 48 l. n. 69 del 1963. (Trib. Milano 12-07-2001; FONTI Giur. milanese, 2002, 33). Il diritto insopprimibile dei giornalisti. L'articolo 2 della legge professionale riconosce che "è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede". Il tribunale di Roma da questo principio ha tratto il corollario che "è dovere insopprimibile del giornalista, anche se collegato ad organi di stampa di partiti politici, esercitare con assoluta correttezza il diritto di cronaca": E' dovere primario ed insopprimibile del giornalista, anche se collegato ad organi di stampa di partiti politici, esercitare con assoluta correttezza il diritto di cronaca, nel senso di riportare le notizie in maniera assolutamente fedele, spogliandosi, in tale fase, della propensione verso determinate ideologie, di qualunque natura siano; al giornalista è consentito soltanto nella fase in cui proceda a commentare la notizia, esercitando il diritto di critica, d'esprimere le proprie convinzioni personali, in forma anche polemica ed aspra, purché non venga offesa la reputazione altrui (nella specie: è stato ritenuto diffamatorio un articolo nel quale il giornalista riferiva opinioni critiche e lesive della reputazione relative all'atteggiamento del partito radicale nel dibattito sul referendum abrogativo della l. n. 194 del 1978). (Trib. Roma 27-02-1982; Sica; FONTI Giur. It., 1983, II, 140) Il corretto esercizio del diritto di cronaca è fondamentale e deve essere inderogabilmente salvaguardato al fine di garantire lo sviluppo democratico della società; se l'informazione giornalistica è corretta, il lettore è in grado di formarsi convincimenti personali e quindi di valutare l'esattezza del commento; in caso contrario, le sue opinioni si fonderanno su premesse false e quindi finirà con il formarsi opinioni a loro volta false; tale dovere primario e insopprimibile è a carico anche del giornalista dipendente di organi di stampa ufficiali di partiti tenuto egualmente a fornire informazioni assolutamente corrette, cioè vere e complete; solo nella fase successiva del commento possono essere espresse le proprie convinzioni personali, anche in forma polemica ed aspra. (Trib. Roma 13-02-1982; De Rosas; FONTI Giur. di Merito, 1982, 1244 nota di Zeno-Zencovich). Non esiste il concetto giuridico di giornalismo, ma viene estrapolato dagli articoli 2 e 32 della legge professionale n. 69/1963. Non esiste il concetto giuridico di giornalismo. Il concetto, abitualmente estrapolato dall'articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 dedicato alla deontologia della categoria, si riassume nella frase "giornalismo=informazione critica". Il primo comma dell'articolo 2, infatti, dice: "È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica.....". La dottrina e la giurisprudenza legano inoltre il giornalismo all'attualità sulla base dell'articolo 32 della legge professionale e dell'articolo 44 del Regolamento di esecuzione della stessa legge i quali prescrivono, infatti, per la prova scritta dell'esame di idoneità professionale, la "redazione di un articolo su argomenti di attualità". L'attualità, quindi, è una connotazione centrale e qualificante della professione giornalistica. Concludendo possiamo affermare che il giornalismo è informazione critica legata all'attualità. Il giornalismo è tradizionalmente definito "l'insieme delle attività e delle tecniche (redazione, pubblicazione, diffusione, ecc.) dirette a diffondere e a commentare notizie tramite il giornale o pubblicazioni periodiche"; estensivamente indica anche "la professione del giornalista" e "la categoria dei giornalisti o il complesso dei giornali". Il vuoto legislativo sul concetto di giornalismo è stato, però, riempito da alcune sentenze della Corte di Cassazione: a) La nozione dell'attività giornalistica, in mancanza di una esplicita definizione da parte della legge professionale 3 febbraio 1963, n. 69 o della disciplina collettiva, non può che trarsi da canoni di comune esperienza, presupposti tanto dalla legge quanto dalle fonti collettive, con la conseguenza che per attività giornalistica è da intendere l'attività, contraddistinta dall'elemento della creatività, di colui che, con opera tipicamente (anche se non esclusivamente) intellettuale, provvede alla raccolta, elaborazione o commento delle notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi d'informazione, mediando tra il fatto di cui acquisisce la conoscenza e la diffusione di esso attraverso un messaggio (scritto, verbale, grafico o visivo) necessariamente influenzato dalla personale sensibilità e dalla particolare formazione culturale e ideologica (Cass. civ., 23 novembre 1983, n. 7007; Riviste: Mass. 1983). b) E' di natura giornalistica la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e all'elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale (che può indifferentemente avvenire mediante l'apporto di espressioni letterali, o con l'esplicazione di espressioni grafiche, o ancora mediante la collocazione del messaggio) attraverso gli organi di informazione. (Cass. 1/2/96 n. 889, pres. Mollica, est. De Rosa, in D&L 1996, 687, nota Chiusolo, Il giornalista grafico e l'iscrizione all'Albo dei giornalisti). c) Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione; il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso...... differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della dovuta attenzione e considerazione" (Cass. Civ., sez. lav., 20 febbraio 1995, n. 1827). Un aiuto inquadrare il concetto di attività giornalistica e di giornalista viene anche da sentenze di altri e diversi giudici: L'attività giornalistica è caratterizzata dall'elemento della creatività, per cui può essere definito giornalista, con conseguente applicabilità del Ccnl relativo, colui che nel riportare una notizia compia un'opera di mediazione tra la notizia e la sua diffusione (Pret. Torino, 1 agosto 1992; Parti in causa Brunati c. Soc. ed. La Stampa; Riviste: Dir. e pratica lav., 1993, 135). Il giornalismo, quindi, secondo la Corte di Cassazione, è connotato: a) dalla raccolta, dal commento e dall'elaborazione di notizie (attuali) destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale; b) dalla tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della dovuta attenzione e considerazione; c) dagli elementi della "creatività", dell' "intellettualità" e dell' "intermediazione critica" delle notizie. 2. I padri costituenti e i limiti del diritto di cronaca nella legge sulla stampa del 1948. La storia dell'Italia unita, in tema di libertà di stampa, parte con l'articolo 28 dello Statuto Albertino, emanato da Carlo Alberto il 4 marzo del 1848. La norma, dalla formulazione generale, stabilisce che "la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi". Il virgolettato traduce sostanzialmente l'articolo 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo della Francia rivoluzionaria del 1789. E' una svolta, che nasconde la debolezza legata al carattere flessibile dello Statuto. Le Camere potranno utilizzare una sorta di delega in bianco per "reprimere gli abusi" nell'esercizio della dichiarata libertà. Questa disciplina dovrà fare i conti con le leggi di pubblica sicurezza del 1859, 1865, 1889, che, con vari mezzi, limitavano incisivamente nei fatti quella libertà sancita in via di principio. La storia del settimanale socialista "La Plebe" (nato nel 1868 a Lodi e poi nel 1874 trasferito a Milano come quotidiano) è segnata dalle angherie prefettizie, che impedivano la pubblicazione o mutilavano il foglio di Enrico Bignami. In verità tutta la stampa repubblicana e di sinistra era presa di mira dalle autorità di polizia. Allo Statuto segue il regio decreto n° 695, meglio noto come Editto Albertino sulla Stampa. L'articolo 1 dell'Editto affermava che "La manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e di qualsivoglia artificio meccanico, atto a riprodurre segni figurativi, è libera: quindi ogni pubblicazione di stampati, incisioni, litografie, oggetti di plastica e simili è permessa con che si osservino le norme seguenti...". Sul piano storico merita un cenno la regolamentazione dell'Italia fascista. Il Governo Mussolini e le Camere stabilirono (r.d.l. n. 3288 del 1923; r.d.l. n. 1081 del 1924; leggi nn. 2308 e 2309 del 1925; legge n. 2307 del 1925) di sottoporre a riconoscimento prefettizio la nomina del gerente responsabile e di affidare alla stessa autorità il potere di revocare il riconoscimento dopo la commissione di due reati a mezzo stampa nell'arco di un anno, nonché il potere di negare il riconoscimento al gerente subentrante, nell'ipotesi in cui quello revocato avesse subito nello stesso anno due condanne per reati a mezzo stampa, comportanti una pena detentiva non inferiore ai sei mesi. La ragnatela di leggi e decreti aveva come possibile risultato la "paralisi" della pubblicazione del periodico. Mussolini controllava la stampa tramite i direttori, che dovevano ricevere il placet del prefetto per insediarsi. Solo nel secondo dopoguerra si assiste al varo di un primo significativo provvedimento legislativo, che segna una svolta radicale rispetto al passato fascista e che fa da testimone ad un atteggiamento favorevole alla restituzione alla stampa della sua dimensione di diritto di libertà: si tratta del Rdlgs. n. 561 del 31 maggio 1946 con il quale fu abolito il sequestro preventivo "della edizione dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato" ad opera dell'autorità di pubblica sicurezza e fu limitato il ricorso ad esso ai soli casi di sentenza di condanna irrevocabile per l'accertata commissione di un reato a mezzo stampa ("Non si può procedere al sequestro della edizione dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato, contemplati nell'Editto sulla stampa 26 marzo 1848 n. 695, se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell'autorità giudiziaria"). Quella norma, che richiama l'Editto Albertino, varata alla vigilia del referendum Monarchia-Repubblica del 2 giugno 1946, è ancora in vigore anche se sostanzialmente assorbita nel terzo e quarto comma dell'articolo 21 della Costituzione. L'articolo 21 della Costituzione repubblicana proclama che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure". Gli articoli 3 e 5 della legge n. 47/1948 sulla stampa affermano: 1. che ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile; 2. che nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Ieri la pubblicazione di giornali era "permessa", mentre oggi "non è soggetta ad autorizzazioni o censure". In questi due passaggi è riassumibile la differenze tra le due Italie, quella monarchica e quella repubblicana. La novità sta nell'abolizione della autorizzazione prefettizia e la sua sostituzione con un semplice obbligo di registrazione delle testate presso i tribunali. Con l'introduzione dell'istituto della registrazione scomparirono anche le vecchie norme fasciste relative al riconoscimento del direttore responsabile. Per quanto concerne la natura della figura del direttore responsabile le novità maturarono soltanto in seguito alla sentenza n. 3/1956 della Corte costituzionale, con la quale venne concepita la responsabilità legata al mancato esercizio della funzione di controllo e quindi a un fatto proprio. Quella sentenza ha partorito la legge n. 127/1958 che ha modificato, come detto, l'articolo 57 del Cp. Concludendo, bisogna porre attenzione alle date. La Costituzione repubblicana è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, mentre la legge sulla stampa, varata l'8 febbraio 1948, è stata approvata da quella stessa Assemblea costituente che aveva scritto la Carta fondamentale della Repubblica. I due eventi sono da raccordare. Si può, quindi, sostenere legittimamente e ragionevolmente che sono da registrare nei tribunali (con un direttore responsabile) tutte le libere manifestazioni del pensiero rivolte al pubblico e strutturate come "giornale" (sia esso di carta, radiofonico, televisivo, oppure utilizzante "ogni altro mezzo di diffusione" che oggi è internet). Nel 1848 il Regno sardopiemontese (poi dal 1861 Regno d'Italia) ha ottenuto dal Re Carlo Alberto lo Statuto e l'Editto sulla stampa. Nel 1948 l'Italia democratica ha guadagnato da sé, a conclusione del secondo Risorgimento, la Costituzione e la legge sulla stampa. A distanza di 100 anni la storia si è ripetuta: Carta fondamentale e regolamentazione della stampa camminano di pari passo, anche se nel primo caso si trattava di una elargizione del Sovrano ai sudditi e nel secondo di una conquista dei cittadini italiani secondo il vaticinio di Giuseppe Mazzini, che aveva "sognato" (invano) una Assemblea costituente diventata realtà solo nel giugno del 1946. I padri costituenti repubblicani del 1946-47, dopo aver scritto la nostra Carta fondamentale, hanno approvato, come riferito, la legge sulla stampa, la n. 47 dell'8 febbraio del 1948, che punisce gli abusi...della stampa (parliamo della diffamazione) in tre articoli: 11. Responsabile civile - Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l'editore. 12. Riparazione pecuniaria - Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può richiedere oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 185 del Cp, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato (In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, la persona offesa, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'articolo 185 del c.p.. può richiedere una somma a titolo di riparazione ai sensi dell'articolo 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. Trattandosi, peraltro, di una sanzione di natura civilistica, la riparazione può essere chiesta anche dinanzi al giudice civile, derivandone altresì che il giudice penale, eventualmente richiesto della sua applicazione, può comunque rimettere la relativa statuizione al giudice civile, allorquando provveda alla condanna generica dell'imputato al risarcimento del danno. - Cass. pen. Sez.V 09-10-2002, n. 38829; Evangelisti e altri; FONTI Guida al Diritto, 2003, 13, 86). 13. Pene per la diffamazione - Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire cinquecentomila. (Nota: in base all'articolo 595 (diffamazione) del Cp, "se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a lire un milione"). La legge sulla stampa, nello spirito del comma VI dell'articolo 21 e dell'articolo 2 della Costituzione, pone, con l'articolo 15, un limite preciso all'esercizio del diritto di cronaca. L'articolo 15 punisce, con la pena della reclusione da tre mesi a tre anni, la pubblicazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Questo principio vale per tutti i media. L'articolo 15, - esteso al sistema televisivo pubblico e privato dall'articolo 30 (comma 2) della legge n. 223/1990 (o "legge Mammì") -, è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale; in sostanza il divieto di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante non contrasta con la Costituzione perché è diretto a tutelare la dignità umana: "Non è fondata, con riferimento agli art. 3, 21 comma 6 e 25 cost., la q.l.c. dell'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47 (Disposizioni sulla stampa) - il quale, nel sanzionare penalmente, ai sensi dell'art. 528 c.p., l'utilizzazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti", lederebbe il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie, quello della libertà di stampa e i principi di ragionevolezza e eguaglianza, perché non offrirebbe idoneo fondamento giustificativo alla punizione di coloro che diffondano siffatte immagini - in quanto la disposizione impugnata, estesa anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall'art. 30comma 2 l. 6 agosto 1990 n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a "turbare il comune sentimento della morale", vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea, e cioè il contenuto minimo del rispetto della persona umana, valore che anima l'art. 2 cost., alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata; sicchè, la descrizione dell'elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite". (Corte cost. 17-07-2000, n. 293 Corvi c. Pres. Cons FONTI Giur. Costit., 2000, 2239; Dir. Informazione e Informatica, 2000, 617). Pubblicare foto "choc" non è diritto di cronaca. Rispondono del reato di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante, previsto dall'art. 15 1. n. 47 del 1948, il direttore di un settimanale e i due giornalisti autori di un art. pubblicato col corredo di fotografie a colori riproducenti le immagini del cadavere di una donna uccisa, cosi come rinvenuto nell'immediatezza dell'omicidio, con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce sul corpo e sugli indumenti, e delle nudità del corpo medesimo e delle modalità di esecuzione del delitto, tali da turbare il comune sentimento della morale e l'ordine delle famiglie. (Cass. pen. Sez.III 27-04-2001; Corvì e Corvi e altri; FONTI Foro It., 2001, II, 446). Le finalità di carattere storico non giustificano la pubblicazione di una immagine raccapricciante e impressionante. Nel reato previsto e punito dall'art. 15, legge 47/1948, non ha efficacia esclusiva del dolo né la finalità, o motivazione, della pubblicazione, né il dissenso, pur dichiarato contestualmente alla pubblicazione stessa (nella specie: trattavasi di foto dell'onorevole Moro, nudo all'obitorio, accompagnate da un articolo di commento contro la strage, nel quale venivano evidenziate le finalità di carattere storico della pubblicazione). (Cass. pen. 09-06-1982; Valentini; FONTI Riv. Pen., 1983, 637). Non integra l'elemento oggettivo del reato previsto e punito dall'articolo 15 della legge sulla stampa n. 47/1948 la trasmissione, durante un telegiornale, di un servizio giornalistico sulle atrocità di un conflitto civile. Non integra l'elemento oggettivo del reato previsto e punito dall'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47 la trasmissione, durante un telegiornale, di un servizio giornalistico sulle atrocità di un conflitto civile, avvenuto con modalità obiettivamente percepibili come dotate di intrinseco valore informativo. (Nella specie trattavasi di immagini, tra le quali quelle in primo piano di cadaveri putrefatti, teste mozzate e scheletri impiccati, trasmesse durante il telegiornale delle ore 19,30 dall'emittente televisiva Telemontecarlo, accompagnate da commenti e seguite da una intervista telefonica). Il comune sentimento della morale, non può ritenersi aggredito dall'attività di informazione che, pur ponendosi, per le scene di violenza documentale, ai confini del limite massimo oltre il quale essa travalica la tutela della dignità personale, tuttavia, proprio per la sua intrinseca natura, non entri in contrasto con esso. (Tribunale di Roma, 25 novembre 2003, in "Il Diritto dell'informazione e dell'informatica", n. 1/2004). 3. Diritto di cronaca, diritto dei cittadini all'informazione e Corte costituzionale. L'interesse generale all'informazione "implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee". La Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/1981, ha riconosciuto "il rilievo costituzionale della libertà di cronaca (comprensiva della acquisizione delle notizie) e della libertà di informazione quale risvolto passivo della manifestazione del pensiero, nonché il ruolo svolto dalla stampa come strumento essenziale di quelle libertà, che è, a sua volta, cardine del regime di democrazia garantito dalla Costituzione". La tutela più forte e incisiva dell'attività giornalistica viene, quindi, dalla Corte costituzionale, che ha stabilito via via principi, che il legislatore avrebbe dovuto tradurre in leggi: "I giornalisti preposti ai servizi di informazione sono tenuti alla maggiore obiettività e (devono essere) posti in grado di adempiere ai loro doveri nel rispetto dei canoni della deontologia professionale" (sentenza 10 luglio 1974 n. 225). "Esiste un interesse generale alla informazione - indirettamente protetto dall'articolo 21 della Costituzione - e questo interesse implica, in un regime di libera democrazia, pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee" (sentenza 15 giugno 1972 n. 105). "I grandi mezzi di diffusione del pensiero (nella più lata accezione, comprensiva delle notizie) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse" (sentenza 30 maggio 1977 n. 94). "Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione e questo diritto comprenda la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità" afferma l'articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (recepita nella legge 4 agosto 1955 n. 848). L'articolo 10 della Convenzione, mutuato dall'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, è stato ampliato successivamente dall'articolo 19 del Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici (legge dello Stato italiano 25 ottobre 1977 n. 881) il quale stabilisce: "...Ogni individuo ha il diritto della libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo a sua scelta". Si tratta di un crescendo di affermazioni e riconoscimenti che, partendo dalla solenne dichiarazione dell'articolo 21 della nostra Costituzione, passando attraverso le interpretazioni e le applicazioni della legislazione ordinaria e delle sentenze emesse da Corti di giustizia di ogni ordine e grado, tornano all'articolo 21 citato disegnandone con estrema chiarezza i contenuti anche nei confronti della attività dell'Ordine dei giornalisti il quale "organizza coloro che per professione manifestano il pensiero" (sentenza n. 11/1968 della Corte Costituzionale). Non sfugga la rilevanza dell'inserimento, attraverso leggi ordinarie, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e del Patto di New York relativo ai diritti civili e politici nell'ordinamento giuridico dello Stato: il diritto di "cercare, ricevere e diffondere informazioni attraverso la stampa" figura esplicitamente nel nostro ordinamento e amplia la sfera del "diritto di manifestare il pensiero" tutelata dall'articolo 21 della Costituzione. La Corte costituzionale ha allargato la funzione disciplinare dell'Ordine che "....con i suoi poteri di ente pubblico vigila, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla". La Corte di Cassazione ha stabilito a completamento che "la fissazione di norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare" (Cass. civ., 9 luglio 1991, n. 7543, Mass. 1991). La sentenza n. 11/1968, la cui portata va opportunamente sottolineata, si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato da parte della Corte Costituzionale e che, sia pure con tappe successive, ha condotto la Corte stessa a riconoscere: a) la natura "coessenziale" dell'articolo 21 rispetto al regime di libertà garantito dalla Costituzione, cioè il carattere di "cardine" che tale norma riveste rispetto alla forma di "Repubblica democratica" fissata dalla Carta costituzionale (sentenze n. 5/1965; n. 11 e 98/1968; n. 105/1972; n. 94/ 1977). b) l'esistenza di un vero e proprio "diritto all'informazione", come risvolto passivo della libertà di espressione (sentenze n. 105/1972; n. 225/1974; n. 94/1977; n. 112/1993). c) la rilevanza pubblica o di pubblico interesse della funzione svolta da chi professionalmente sia chiamato a esercitare un'attività d'informazione giornalistica (sentenze n. 11 e 98/1968; n. 2/ 1971). Da questo concerto di norme e di pronunzie giurisprudenziali si trae la assoluta certezza che le regole deontologiche calate nella legge istitutiva dell'Ordine sono non soltanto il perno della autonomia della professione, ma un preciso baluardo agli attacchi che quotidianamente e da più parti vengono mossi al diritto di ciascun cittadino alla informazione corretta e alla oggettiva conoscenza dei fatti per quello che sono, e non per quello che vengono ad arte fatti apparire utilizzando mezzi di comunicazione dei quali la pubblicità è tra i più noti ed importanti e, a seconda delle forme che assume, dei più subdoli e difficilmente riconoscibili. La Corte Costituzionale con una serie di decisioni ha, infatti, riconosciuto e affermato non soltanto il principio che i cittadini-utenti hanno diritto di ricevere informazioni, ma che essi hanno diritto a ricevere un'informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata. Valori, questi, trasfusi dal legislatore nell'articolo 1 (II comma) della legge n. 223/1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato; questa legge, infatti, pone a base del sistema radiotelevisivo pubblico e privato <il pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità dell'informazione, l'apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione>. Sulla base di queste affermazioni della Corte, sin dalla fine degli anni 70, una dottrina ha ritenuto di poter riconoscere esistente nel nostro ordinamento un vero e proprio diritto soggettivo ad essere informati. In realtà, fin dal 1972 la Corte Costituzionale ha riconosciuto esistente un "interesse generale all'informazione, anch'esso indirettamente protetto dall'articolo 21 della Costituzione" . Con una successiva sentenza, la Corte nuovamente affermava esistente, e tutelato implicitamente dall'articolo 21 della Costituzione, "un interesse generale della collettività all'informazione ". Le linee-cardine fissate dalle sentenze emesse dal 1960 in poi hanno trovato un'ampia conferma in nella fondamentale sentenza 24 marzo 1993 n. 112, che dice: ".....la libertà di manifestare il proprio pensiero ...ricomprende tanto il diritto di informare quanto il diritto ad essere informati (v., ad esempio, sentt. nn. 202 del 1976, 148 del 1981, 826 del 1988). L'art. 21....colloca la predetta libertà tra i valori primari, assistiti dalla clausola dell'inviolabilità (art. 2 Cost.), i quali, in ragione del loro contenuto, in linea generale si traducono direttamente e immediatamente in diritti soggettivi dell'individuo di carattere assoluto. Tuttavia, l'attuazione di tali valori fondamentali nei rapporti della vita comporta una serie di relativizzazioni, alcune delle quali derivano da precisi vincoli di ordine costituzionale, altre da particolari fisionomie della realtà nella quale quei valori sono chiamati ad attuarsi. Sotto il primo profilo, questa Corte ha da tempo affermato che il "diritto all'informazione" va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale. Di qui deriva l'imperativo costituzionale che il "diritto all'informazione" garantito dall'art. 21 sia qualificato e caratterizzato: a) dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie - che comporta, fra l'altro, il vincolo al legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l'accesso nel sistema radiotelevisivo del massimo numero possibile di voci diverse - in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti; b) dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti; c) dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata; d) dal rispetto della dignità umana, dell'ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori". 4. La professione giornalistica, come quella degli avvocati e dei medici, è nella Costituzione. Il secondo comma dell'articolo 21 della Costituzione afferma che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. La stampa "vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana dei (giornalisti) professionisti". La Costituzione e la Corte costituzionale disegnano, quindi, una professione giornalistica come professione della libertà. Il nuovo diritto fondamentale dei cittadini all'informazione presuppone la presenza e l'attività di giornalisti vincolati a un percorso formativo universitario (come impongono la direttiva comunitaria n. 89/48/CEE e il comma 18 dell'articolo 1 della legge n. 4/1999), a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato. Ormai è maturo il tempo perché i giornalisti, come i magistrati, siano inseriti nella Costituzione. Nella carta fondamentale c'è scritto che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge. Nella stessa carta fondamentale va scritto che i giornalisti sono soggetti soltanto alla Costituzione e alla deontologia professionale. L'Antitrust, sbagliando, ha affermato che soltanto gli avvocati e i medici sono nella Costituzione (con riferimento agli articoli 24 e 32, che parlano del diritto di difesa e del diritto alla salute). Il secondo comma dell'articolo 21 della Costituzione afferma che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. La stampa è fatta, alimentata, progettata e creata dai giornalisti. "L'esperienza dimostra - come ha scritto la Corte costituzionale nella sentenza n. 11/1968 - che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana dei professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua volta è condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali". La Costituzione e la Corte costituzionale disegnano, quindi, una professione giornalistica come professione della libertà. "Quella libertà che - come ha scritto Mario Borsa - prima di essere un diritto è un dovere". Il monito di Mario Borsa, - giornalista liberale, corrispondente per lunghi anni del "Secolo" da Londra, combattente della libertà negli anni della dittatura fascista e poi direttore del "Corriere della Sera" nel 1945/1946 -, recuperato da Walter Tobagi con un saggio pubblicato nel 1976 (su "Problemi dell'informazione"), è questo: "Dite sempre quello che è bene e che vi par tale anche se questo bene non va precisamente a genio ai vostri amici; dite sempre quello che è giusto, anche se ne va della vostra posizione, della vostra quiete, della vostra vita. Siate dunque indipendenti e inchinatevi solo davanti alla libertà, ricordandovi che prima di essere un diritto la libertà è un dovere". Il secondo comma dell'articolo 21 va incrociato con il quinto comma dell'articolo 33 della Costituzione: "È prescritto un esame di Stato ...per l'abilitazione all'esercizio professionale". Lo Stato, quindi, deve garantire i cittadini sulla preparazione dei giornalisti "all'esercizio professionale". Su questa base il Parlamento ha stabilito (con la legge n. 69/1963) che esiste una professione giornalistica, che è stata poi organizzata, come prescrive l'articolo 2229 del Codice civile, con l'Ordine (giudice disciplinare e giudice delle iscrizioni) e l'Albo: "Non spetta alla Corte valutare l'opportunità della creazione dell'Ordine, perché l'apprezzamento delle ragioni di pubblico interesse che possano giustificarlo appartiene alla sfera di discrezionalità riservata al legislatore. Compete, invece, alla Corte accertare se la riserva della professione giornalistica ai soli iscritti all'Ordine ed il modo in cui la legge ha disciplinato il regime dell'albo comportino la violazione del principio costituzionale - articolo 21 - che a tutti riconosce il "diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione": un diritto, come altre volte è stato detto (cfr. sent. n. 9 del 1965), coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione, inconciliabile con qualsiasi disciplina che direttamente o indirettamente apra la via a pericolosi attentati, e di fronte al quale non v'è pubblico interesse che possa giustificare limitazioni che non siano consentite dalla stessa Carta costituzionale". La legge istitutiva dell'Ordine (n. 69/1963), realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero: essa - come si legge nella sentenza n. 11/1968 della Consulta - non tocca il diritto che a "tutti" l'articolo 21 della Costituzione riconosce: "Questo sarebbe certo violato se solo gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma è da escludere che una siffatta conseguenza derivi dalla legge". Ha scritto ancora la Consulta: "Chi tenga presente il complesso mondo della stampa nel quale il giornalista si trova ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di lavoro, non può sottovalutare il rischio al quale è esposto la sua libertà né può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla. Il fatto che il giornalista esplica la sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro subordinato non rivela la superfluità di un apparato che si giustificherebbe solo in presenza di una libera professione, tale il senso tradizionale. Quella circostanza, al contrario, mette in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano associati in un organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico del datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto della loro personalità e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla". La Consulta ha superato anche le riserve sul praticantato con questo ragionamento: "La Corte osserva che, se è vero che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma come praticante egli non potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto può svolgere la sua attività professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale la non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della molteplicità delle iniziative giornalistiche". Oggi la presenza di 15 scuole di giornalismo, riconosciute dall'Ordine, hanno attutito di molto le polemiche sull'accesso alla professione. E' di importanza strategica per una società democratica il nuovo diritto fondamentale dei cittadini all'informazione ("corretta e completa"), costruito dalla Corte costituzionale (vedi tra le tante la sentenza n. 112/1993) sulla base dell'articolo 21 della Costituzione e dell'articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l'attività di giornalisti vincolati a un percorso formativo universitario (come impongono la direttiva comunitaria n. 89/48/CEE e il comma 18 dell'articolo 1 della legge n. 4/1999), a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede appunto l'articolo 33 (V comma) della Costituzione. Gli Ordini, enti pubblici, hanno la specifica competenza della tenuta dell'albo, dei giudizi disciplinari, della proposta della tariffa professionale nonché della liquidazione dell'onorario. Tali funzioni sono assegnate a tutela non degli interessi della categoria professionale ma della collettività nei confronti dei professionisti: tale principio è fissato nella sentenza n. 254/1999 del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (magistratura equiparata al Consiglio di Stato). Molti sostengono, invece, che "gli Ordini hanno la finalità di tutelare (solo) gli interessi della categoria". Ma non è così. Secondo il Consiglio della Giustizia amministrativa della regione siciliana, invece, gli Ordini, devono tutelare gli interessi dei clienti dei professionisti. "Le specifiche competenze della tenuta dell'albo, dei giudizi disciplinari, della redazione e della proposta della tariffa professionale nonché della liquidazione dei compensi - scrive il Cgars - sono assegnate dalla legge agli Ordini essenzialmente per la tutela della collettività nei confronti degli esercenti la professione, la quale solo giustifica l'obbligo dell'appartenenza all'Ordine, e non già per una tutela degli interessi della categoria professionale che farebbe degli Ordini un'abnorme figura d'associazione obbligatoria, munita di potestà pubblica, per la difesa di interessi privati settoriali". Un concetto, questo, che prefigura un ruolo moderno degli Ordini non più intesi come corporazione ma come enti pubblici che concorrono ad attuare valori e finalità propri della Costituzione repubblicana. 5. Il "decalogo" della Cassazione sui limiti del diritto di cronaca: "Perché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecita espressione del diritto di cronaca, e non comporti responsabilità civile per violazione del diritto all'onore, devono ricorrere tre condizioni: 1)utilità sociale dell'informazione; 2) verità oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di diligente lavoro di ricerca; 3) forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza, evitando forme di offesa indiretta". I limiti del diritto di cronaca sono stati fissati con la famosa sentenza n. 5259 del 18 ottobre 1984 della prima sezione civile della Corte di Cassazione meglio nota come sentenza-decalogo sulla libertà di stampa e quindi sul diritto di cronaca e di critica. Vengono codificati in una sorta di decalogo i criteri che i giornalisti devono rispettare per non incorrere nei rigori della legge. Chi si ritiene diffamato da un articolo può rivolgersi direttamente al giudice civile senza prima presentare una querela alla Procura della Repubblica nei confronti del giornalista autore dell'articolo contestato e del direttore responsabile della pubblicazione. Questi i principi fissati nella sentenza (Il Foro italiano, anno 1984, Vol. CVII, pagg. 2712-2722): 1) Non è affatto vero che l'esercizio del diritto di stampa (e quindi di cronaca e di critica), garantito dall'articolo 21 della Costituzione, non possa essere censurato se non in sede penale e, quindi, solo se e in quanto costituisca reato. 2) In altre parole può ben esservi un illecito civile che non sia anche penale, mentre il contrario non può mai verificarsi. 3) Il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti), sancito in linea di principio dall'articolo 21 Cost. e regolata fondamentalmente nella legge 8 febbraio 1948 n. 47, è legittimo quando concorrano le tre seguenti condizioni: a) utilità sociale dell'informazione; b) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest'ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; c) forma "civile" dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione", cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere consentita l'offesa triviale o irridente i più umani sentimenti. 4) La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche colposamente taciuti altri fatti tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. 5) La verità non è più tale se è "mezza verità" (o, comunque, verità incompleta). La verità incompleta deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa. 6) La forma della critica non è civile, non solo quando eccede lo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. 7) Lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista ricorre a uno dei seguenti subdoli espedienti nei quali sono ravvisabili in sostanza altrettante forme di offese indirette: a) al sottinteso sapiente, cioè all'uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma comunque sempre in senso più sfavorevole nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette allo scopo di far intendere ai lettori che esse non solo altro che eufemismi e che sono da interpretarsi in ben altro (e ben noto) senso da quello che avrebbero senza virgolette; b) agli accostamenti suggestionanti di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti riguardanti altre persone o con giudizi sempre negativi apparentemente espressi in forma generale ed estratta e come tali ineccepibili (come, ad esempio, l'affermazione "il furto è sempre da condannare") ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate. c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli) o comunque all'artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie "neutre", perché insignificanti o comunque di scarsissimo valore sintomatico al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione (classici sono a tal fine l'uso del punto esclamativo o la scelta di aggettivi sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive come, ad esempio, "notevole", "impressionante", "strano", "non chiaro"). d) alle vere e proprie insinuazioni, anche se più o meno velate (la più tipica è certamente quella secondo cui: "non si può escludere che..." riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda egualmente in considerazione denigrando la reputazione di un determinato soggetto. Questa la massima tratta dalla sentenza n. 5259/1984 della Sezione I civile della Corte di Cassazione (Il Foro italiano, anno 1984, Vol. CVII, pag. 2712): "Perché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecita espressione del diritto di cronaca, e non comporti responsabilità civile per violazione del diritto all'onore, devono ricorrere tre condizioni: 1)utilità sociale dell'informazione; 2) verità oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di diligente lavoro di ricerca; 3) forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza, evitando forme di offesa indiretta". Con un'altra sentenza del 23 ottobre 1984, emessa a pochi giorni da quella del 18 ottobre, le sezioni unite penali della Cassazione stabiliscono che "l'esercizio legittimo del diritto di cronaca - anche sotto il profilo putativo - non può essere disgiunto dall'uso legittimo delle fonti informative". Nella nuova sentenza viene sottolineato che non esistono fonti informative privilegiate, tali cioè da svincolare il cronista dall'onere: 1) di esaminare, controllare e verificare i fatti, - oggetto della sua narrazione -, in funzione dell'assolvimento da parte sua dell'obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale degli stessi; 2) di dare la prova della cura da lui posta negli accertamenti esplicati per vincere ogni dubbio ed incertezza prospettabili in merito a quella verità. In sostanza occorre che il cronista - seguendo i suggerimenti della prudenza e i consigli della perizia professionale - eserciti l'insopprimibile diritto di informazione con il rispetto delle norme dettate a tutela della personalità altrui e dell'obbligo inderogabile di salvaguardia della verità sostanziale dei fatti narrati con la lealtà e la buona fede imposte dai doveri che ne qualificano ineludibilmente l'operato. Solo in questo caso il giornalista non è personalmente punibile per diffamazione avendo esercitato legittimamente il diritto di cronaca (articolo 51 Cp). Viceversa può essere condannato se ha violato i canoni sopracitati riferendo fatti discordanti dalla verità. Principi, questi, ribaditi nel 1997 e nel 2001: "Ai fini della configurabilità dell'esimente del diritto di cronaca, anche sotto l'aspetto putativo o dell'eccesso colposo, in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa, la necessaria correlazione fra quanto è stato narrato e ciò che è realmente accaduto importa l'inderogabile necessità di un "assoluto" rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto riferito, nonché lo stretto obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, risultando inaccettabili i valori sostitutivi di esso, quali quello della veridicità o della verosimiglianza dei fatti narrati; né il giornalista può appagarsi di notizie rese pubbliche da altre fonti informative (altri giornali, agenzie e simili) senza esplicare alcun controllo, perché in tal modo le diverse fonti propalatrici delle notizie - attribuendosi reciproca credibilità - finirebbero per rinvenire l'attendibilità in se stesse" (Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 1997, n. 6018; Riviste: Cass. Pen., 1999, 853; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 595). "Ai fini dell'esimente ex art. 51 cp, anche sotto il profilo putativo, la necessaria correlazione fra quanto narrato e quanto accaduto nella realtà implica l'assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto esposto, nonché il rigoroso obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, risultando inaccettabili i valori sostitutivi di esso, quale quello della verosimiglianza. Per invocare l'esimente putativa, occorre che il giornalista usi legittimamente le fonti informative mediante l'esame e la verifica dei fatti che ne costituiscono il contenuto, offrendo la prova della cura posta negli accertamenti svolti, per fugare ogni incertezza prospettabile in ordine alla verità sostanziale dei fatti" (Cass. pen. sez. V 17-01-2001, n. 11657; FONTI Massima redazionale, 2002). Obbligo inderogabile del giornalista è il rispetto della verità sostanziale dei fatti, non rilevando le inesattezze che incidono su semplici modalità del narrato, senza modificarne la struttura o (se si tratta di cronaca giudiziaria) se consistono nella errata indicazione del titolo del reato (consumato anziché tentato). (Trib. Messina, 13 dicembre 1988, Pollichieni, Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1210). Affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca, deve ricorrere, tra le altre, la condizione della verità oggettiva della notizia pubblicata, la quale comporta, come inevitabile corollario, l'obbligo del giornalista, non solo di controllare l'attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate), ma anche di accertare e di rispettare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia, con la conseguenza che, solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente osservato, si potrà utilmente invocare l'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca. (Trib. Napoli 30-07-2001; FONTI Riv. giur. Polizia, 2002, 375). In tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, qualora il fatto non sia stato ancora valutato in sede penale, presupposto per l'applicabilità della esimente dell'esercizio del diritto di cronaca è la continenza del fatto, intesa in senso sostanziale e formale. Sotto il primo profilo, i fatti narrati devono corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma soggettiva; sotto il secondo, la esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, deve, cioè, essere contenuta negli spazi strettamente necessari. Peraltro, quando, come accade frequentemente, la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell'autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta, sulla basedei soli criteri indicati, essenzialmente formali, dovendo, invece, lasciare spazio alla interpretazione soggettiva dei fatti esposti. Infatti, la critica mira non già ad informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali, e, se è vero che, come ogni diritto, anche quello in questione non può essere esercitato se non entro limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall'ordinamento positivo, da ciò non può inferirsi che la critica sia sempre vietata quando sia idonea ad offendere la reputazione individuale, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita. Siffatto bilanciamento è ravvisabile nella pertinenza della critica di cui si tratta all'interesse pubblico, cioè nell'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza del fatto oggetto di critica, interesse che costituisce assieme alla correttezza formale (continenza), requisito per lainvocabilità della esimente dell'esercizio del diritto di critica. (Cass. civ. Sez.III 24-05-2002, n. 7628; Frustagli c. Soc. Poligrafici ed.; FONTI Studium juris, 2002, 1260). Cronisti tra articoli 51 e 59 Cp. In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, nel caso di provata verità della notizia pubblicata, pure avente carattere diffamatorio, deve ritenersi sussistente l'esimente del diritto di cronaca ex articolo 51 Cp. Quando, invece, il fatto narrato risulti obiettivamente inveritiero, non è esclusa l'applicazione della scriminante de qua - sotto il profilo della putatività ex articolo 59, comma 1, del Cp - purché, però, il cronista abbia assolto l'onere di controllare accuratamente la notizia risalendo alla fonte originaria, senza che l'errore circa la verità sia frutto di negligenza, imperizia o comunque colpa non scusabile. (Cass., 21 febbraio 2000, Latella e altro). 6. Il diritto di cronaca (e di critica) ancorato a "notizie vere". La cronaca giudiziaria e il limite del rispetto del principio della presunzione di non colpevolezza (o di innocenza). I nostri tribunali, nel verificare il rispetto del limite della verità, fanno una valutazione sulla base di ciò che risulta "al momento in cui la notizia viene diffusa e non già secondo quanto viene successivamente accertato". Una sentenza della Cassazione (Cassazione, 22 marzo 1999, n. 2842) ha capovolto le precedenti decisioni del Tribunale di Roma e della Corte d'Appello stabilendo che la verità della notizia va valutata operando una verifica sull'esattezza, o meno, delle informazioni pubblicate in relazione ai provvedimenti adottati dall'ufficio del Pm, senza dover invece far riferimento al successivo esito delle indagini. La cronaca giornalistica delle attività di indagine del Pm non potrà ritenersi priva di obiettività, perché la cronaca si esaurisce nell'attività investigativa. In sostanza i nostri tribunali, nel verificare il rispetto del limite della verità, fanno una valutazione sulla base di ciò che risulta "al momento in cui la notizia viene diffusa e non già secondo quanto viene successivamente accertato, con la conseguenza che l'eventuale discrepanza tra i fatti narrati e quelli realmente accaduti non esclude che possa essere invocato l'esercizio del diritto di cronaca". "Il giornalista nell'esercizio del diritto di cronaca deve pubblicare la notizia di un arresto e dei motivi che lo hanno determinato, anche se successivamente tali motivi risulteranno infondati: l'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti di grande rilievo sociale, quali la perpetrazione di reati e l'attività di polizia giudiziaria è preminente rispetto al principio della presunzione di innocenza. Ogni notizia idonea ad indurre l'opinione pubblica ad attribuire, prima della condanna, un reato ad un persona in quanto relativa a fatti che la espongono ad un giudizio penale (denunce, querele, rapporti, arresti, ecc.) deve essere vera, ed avere un contenuto ed una forma tali da rendere avvertito il pubblico, quanto più è possibile in relazione alle circostanze del caso concreto, che la colpevolezza della persona accusata non può considerarsi ancora acquisita come un fatto certo e, quindi, evitare tutti quei particolari non ancora sicuramente accertati e tutte quelle espressioni, non strettamente indispensabili che tale certezza possono creare nel pubblico". (Cass. pen., 7 marzo 1975, Vola, in Giust. civ., 1975, I, 972). Il cronista deve far salvo sempre il principio della presunzione di non colpevolezza: "In tema di cronaca giudiziaria, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste, ai fini della scriminante di cui all'art. 51 c.p., ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti. Il limite della verità deve essere restrittivamente inteso, dovendosi verificare la rigorosa corrispondenza tra quanto narrato e quanto realmente accaduto, perché il sacrificio della presunzione di innocenza non può esorbitare da ciò che sia necessario ai fini informativi. (Fattispecie in cui è stato ritenuto diffamatorio affermare, contrariamente al vero, che l'imputato era stato arrestato)" (Cass. pen. Sez.V 03-06-1998, n. 8036; Pendinelli; FONTI Cass. Pen., 1999, 2518 Giust. Pen., 1999, II, 529). Va detto che l'abuso della libertà di informare non gode di tutela costituzionale. La Cassazione collega (Cass. sez. III, n. 6877 del 25 maggio 2000) la legittimità dell'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria alla contestuale ricorrenza dei requisiti della verità del fatto, della pertinenza e della continenza. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 9/1965 ha scritto parole fondamentali sull'impossibilità di porre limitazioni sostanziali alla libertà di manifestazione del pensiero: "La libertà di manifestazione del pensiero é tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com'é del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell'interpretazione giuridica". Il cronista giudiziario non può essere condannato per diffamazione quando riporta il contenuto degli atti e provvedimenti del magistrato, purché si astenga da illazioni ed esagerazioni. Nel periodo fra l'ottobre 1992 e il giugno 1993 i quotidiani La Repubblica, Il Messaggero e Il Tempo hanno pubblicato notizie su perquisizioni eseguite presso lo studio e l'abitazione dell'avvocato M. nell'ambito di un'inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Palmi al fine di accertare eventuali rapporti illeciti fra logge massoniche "deviate" e associazioni mafiose. In seguito a una querela sporta dall'avvocato M., il Tribunale di Roma ha condannato per diffamazione gli autori degli articoli e per omesso controllo i direttori dei giornali. La Corte d'Appello di Roma ha confermato la condanna osservando che l'indagine svolta nei confronti dell'avvocato M. non aveva conseguito alcun risultato, in quanto non era stata provata l'esistenza di alcun suo legame con ambienti criminali nè lo svolgimento di attività illecite da parte della loggia massonica cui egli apparteneva. Escludendo la veridicità delle notizie pubblicate, la Corte d'Appello ha negato ai giornalisti l'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca. La Suprema Corte ha accolto il ricorso dei giornalisti, affermando che la Corte d'Appello di Roma, al fine di stabilire se essi avessero esercitato correttamente il diritto di cronaca, non avrebbe dovuto fare riferimento all'esito delle indagini, bensì all'esattezza o meno delle informazioni pubblicate sui provvedimenti adottati dagli inquirenti. Nell'ambito della cronaca giudiziaria -ha affermato la Corte- la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; pertanto per il riconoscimento dell'esimente del diritto di cronaca è sufficiente che l'articolo pubblicato corrisponda al contenuto di atti dell'autorità giudiziaria, senza che sia richiesto al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni e dei provvedimenti da essa adottati. Deve peraltro escludersi -ha precisato la Corte- che il cronista possa fondare la propria attività su mere voci e illazioni raccolte, anticipare il contenuto di provvedimenti del giudice o del pubblico ministero ed attribuire ad essi una valenza maggiore di quella reale. Nel caso in esame - ha rilevato la Corte - l'indagine della Procura di Palmi tentava di svelare i legami occulti tra logge deviate della massoneria ed ambienti affaristico-criminali, non alieni talvolta dal coltivare progetti di eversione dell'ordine costituzionale; il giudice di merito avrebbe dovuto accertare se l'accostamento, operato dai giornalisti, dell'avvocato M. a tali ambienti fosse il coerente portato dell'indagine della Procura di Palmi ovvero costituisse un'illazione, un'esorbitanza, un'avventata od anche arbitraria elaborazione, nel qual caso sarebbe spettato al giornalista dimostrare la corrispondenza fra quanto narrato e la realtà storica. (Cassazione Sezione V Penale n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato). Nell'ambito della cronaca giudiziaria la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; pertanto per il riconoscimento dell'esimente del diritto di cronaca è sufficiente che l'articolo pubblicato corrisponda al contenuto di atti dell'autorità giudiziaria, senza che sia richiesto al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni e dei provvedimenti da essa adottati. Deve pertanto escludersi che il cronista possa fondare la propria attività su mere voci e illazioni raccolte, anticipare il contenuto di provvedimenti del giudice o del pubblico ministero ed attribuire ad essi una valenza maggiore di quella reale (Cassazione, sezione V penale, sentenza n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato). Il cronista giudiziario non può essere condannato per diffamazione quando riporta il contenuto degli atti e provvedimenti del magistrato, purché si astenga da illazioni ed esagerazioni (Cassazione Sezione V Penale n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato). La verità del fatto deve essere apprezzata, nella serietà della prospettazione e ai fini dell'accertamento del dolo e dell'esimente, con riferimento al momento in cui viene posto in essere l'atto diffamatorio e alle circostanze e ai comportamenti che, in quel tempo, fanno ritenere fondata la propalazione. In tema di diffamazione, l'esercizio di un diritto scrimina se il fatto offensivo è vero. Quando viene attribuito un reato, ciò che scrimina non è soltanto la verità dell'incolpazione, sub specie di "nome iuris" del fatto, ma anche la verità del solo dato oggettivo che è rappresentativo, di per sè, secondo la diligenza dell'uomo medio, del corrispondente reato. La verità del fatto, in tal senso inteso, deve essere apprezzata, nella serietà della prospettazione e ai fini dell'accertamento del dolo e dell'esimente, con riferimento al momento in cui viene posto in essere l'atto diffamatorio e alle circostanze e ai comportamenti che, in quel tempo, fanno ritenere fondata la propalazione. Il "post factum", in quanto estraneo alla verità del momento, ed il successivo accertamento giudiziale dell'infondatezza dell'accusa, basata su elementi non conosciuti o non conoscibili al tempo della propalazione, non possono avere incidenza giuridica per escludere la causa di giustificazione. Tuttavia, poichè la norma incrimina anche la propalazione di fatti veri, l'esimente postula il limite della continenza onde evitare che l'esercizio del diritto si risolva in un pretesto e in uno strumento illecito di aggressione all'altrui reputazione. La continenza, quindi, ha una duplice prospettazione, soggettiva e oggettiva, formale e sostanziale, in quanto desumibile da due elementi essenziali, sintomatici di serenità, misura e proporzione. (In motivazione la Corte ha chiarito che se è vero che la configurabilità del delitto prescinde dall'"animus diffamandi", essendo il reato punibile a titolo di dolo generico, è anche vero che il "dolus bonus", quale l'"animus defendendi", può essere sintomatico di una posizione psicologica inconciliabile con la coscienza di ledere e mettere in pericolo il bene protetto). (Cass. pen. Sez.V 23-02-1998, n. 5767, Saturni; FONTICED Cassazione, 1998). Il criterio della verità della notizia deve essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo. L'articolo pubblicato deve corrispondere al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell'autorità giudiziaria. Per l'applicazione della causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 51 c.p., con riferimento all'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, nei casi in cui si tratta di pubblicazione di notizia mutuata da un provvedimento giudiziario, è necessario che essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti. E' pertanto sufficiente che l'articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell'autorità giudiziaria, non potendosi richiedere al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria e dovendo, d'altra parte, il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo. (Cass. pen. Sez.I 10-11-2000, n. 439; Scalfari e altri; FONTI Cass. Pen., 2001, 3045 nota di CERASE) Quando la cronaca giudiziaria è lecita. La cronaca giudiziaria è lecita quando venga esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé, specie ove adottato nei confronti di persona investita di pubbliche funzioni, ovvero a riferire o commentare l'attività investigativa o giurisdizionale; non lo è invece quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario vengano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare, o a sostituire, gli organi investigativi nella ricostruzione delle vicende penalmente rilevanti, ed autonomamente offensive. In tal caso il giornalista deve assumersi direttamente l'onere di verificare la notizia e di dimostrarne la pubblica rilevanza, senza poter esibire il provvedimento giudiziario quale sua unica fonte di informazione e di legittimazione. (Fattispecie di conferma della sentenza di condanna in relazione ad un articolo intitolato "Tradito dalle donne il boss delle tangenti", in quanto oggetto della notizia non fu tanto il provvedimento giudiziario quanto i fatti che lo avevano giustificato, reinterpretati e riferiti nel contesto di un'autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica). (Cass. pen., sez. V, 2 giugno 1998; Riviste: Giust. Pen., 1999, II, 327; Rif. ai codici CP art. 595). Una volta venuto meno l'obbligo del segreto secondo le previsioni dell'articolo 329 Cpp non vi è limite alcuno alla pubblicazione e diffusione del contenuto dell'atto del procedimento così consacrandosi il diritto di cronaca su di esso. Merita un cenno la sentenza del Gip milanese Andrea Manfredi (Ordine Tabloid, n. 7/1994, pag 12) che ha assolto con la formula più ampia i giornalisti Andrea Monti e Marcella Andreoli imputati del reato di diffamazione per aver pubblicato su "Panorama" del 4 ottobre 1992 i verbali d'interrogatorio d'un imputato di Tangentopoli. Scrive il Gip: "...Ciò sta a significare che una volta venuto meno l'obbligo del segreto secondo le previsioni dell'articolo 329 Cpp non vi è limite alcuno alla pubblicazione e diffusione del contenuto dell'atto del procedimento, così consacrandosi il diritto di cronaca su di esso, nel segno di un apprezzamento della prevalenza dell'interesse collettivo alla conoscenza delle vicende processuali e del controllo sociale della loro gestione, essenziale in un assetto ordinamentale ispirato a principi democratici... In definitiva, se l'articolista riporta il contenuto di atti del procedimento non più coperti da segreto, e ciò fa legittimamente non travisandoli, non aggiungendovi commenti volti alla denigrazione incivile, con l'uso di espressioni gratuite ed offensive, mantenendosi nell'ambito della obiettività, come è da ritenere sia avvenuto nel caso in questione, la condotta appare pienamente scriminata dall'esercizio del diritto di cronaca (giudiziaria), specie se esso attiene a vicende di sicuro interesse generale". La sentenza del Gip milanese riprende sostanzialmente la sentenza 16 giugno 1981 della Cassazione penale (Foro It., 1982, II, 313; Giur. It., 1982, II, 346) che dice: "Il diritto di cronaca può essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell'altrui reputazione, purché la notizia pubblicata sia vera o almeno seriamente accertata, esista un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti medesimi e la esposizione della notizia sia obiettiva, nel senso che non trasmodi in una incivile denigrazione che si risolva nell'offesa dell'altrui onore". Il pieno diritto alla difesa della propria onorabilità, come previsto dagli art. 2 e 27 Cost., spetta a ogni cittadino e quindi anche a colui che, pur sottoposto a procedimento penale, non deve peraltro essere danneggiato dalla pubblicazione di notizie, né dalla formulazione di giudizi preventivi, in senso negativo, precedenti l'accertamento giudiziario definitivo; da detto principio deriva che in materia di cronaca giudiziaria è idonea a ledere l'interesse protetto dall'art. 595 c. p. la pubblicazione di notizia relativa a un rinvio a giudizio, non ancora formulato, trattandosi di notizia non vera in quel momento e sicuramente lesiva dell'onorabilità della parte offesa. (App. Roma, 20 gennaio 1989, Scalfari, in Giust. Pen., 1991, II, 519). Non costituisce diffamazione col mezzo della stampa riferire, nel corso di più telegiornali della Rai, di un'inchiesta giudiziaria circa una associazione mafiosa attribuendo ad una delle persone coinvolte imputazioni più gravi di quelle per le quali è effettivamente inquisita, ove il giornalista abbia desunto le informazioni da fonti normalmente attendibili (nella specie, le agenzie di stampa Ansa e Italia), poiché, senza pretendere nel vaglio della notizia un astratto rigorismo, il diritto di cronaca deve ritenersi in simili ipotesi correttamente esercitato. (Pret. Roma, 24 febbraio 1989, Longhi, in Foro It., 1989, II, 488). L'interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati deve essere conciliato con il principio costituzionale di non colpevolezza; pertanto ogni notizia idonea ad indurre l'opinione pubblica ad attribuire, prima della condanna, un reato ad una persona deve, per essere lecitamente pubblicata, rispondere ai requisiti oltre all'utilità sociale dell'informazione, della veridicità e della forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non esorbitante rispetto allo scopo informativo da conseguire ed improntata a serena obiettività. (Trib. Roma, 6 aprile 1988, Cosci, Dir. Inf., 1988, 837). Nella cronaca giudiziaria il giornalista deve rendere omaggio alla oggettività delle notizie più che al rigore giuridico delle proprie opinioni. Si ha una inesattezza giuridica di opinione e non una falsità di confezione di una notizia quando si dà per certa la meccanica apertura di un procedimento penale per calunnia a carico del soggetto (nel caso di specie si trattava di un avvocato) la cui tesi accusatoria è già stata sconfessata dai giudici competenti essendo l'azione penale del reato di calunnia meramente eventuale in quanto rimessa alla valutazione tecnica del P.M che tale azione esercita. Costituisce reato di diffamazione il riportare la notizia di un rinvio a giudizio quando l'atto introduttivo (denuncia, querela ecc.) non sia stato ancora inoltrato, in quanto fa nascere nel lettore il convincimento erroneo della presenza di una esito processuale scontato e già in itinere. (Trib. Roma, 9 luglio 1991, Vitalone, in Dir. inf. 1992, 463). I soggetti sospettati come colpevoli di un reato non possono dolersi che si dia notizia di un fatto già accaduto nei loro confronti - e cioè che essi sono sospettati di appartenere ad un'associazione mafiosa, o comunque di avere commesso dei reati - ma possono legittimamente invocare la tutela penale qualora il giornale, anticipando la (eventuale) conclusione dell'inchiesta, li abbia presentati quali sicuri responsabili del reato per il quale invece sono in corso soltanto indagini. Il giudizio di colpevolezza non può essere anticipato dall'organo di stampa, perché si tratterebbe, né più né meno, della pubblicazione di una notizia notoriamente falsa, in quanto la valutazione della responsabilità degli inquisiti non è ancora stata effettuata dagli organi competenti. (Trib. Genova, 15 aprile 1985, Corrado, in Giust. pen., 1986, II, 722). Costituisce diffamazione col mezzo della stampa riferire inesattamente su giornale quotidiano, della condanna penale riportata nel primo grado del giudizio da amministratore pubblico, definendolo nella cronaca giudiziaria come <speculatore>. (Trib. Roma, 14 aprile 1984, Scalfari, in Foro It., 1985, II, 124). Costituisce esercizio del diritto di critica e di cronaca giornalistica, e pertanto esula dall'ipotesi di diffamazione col mezzo stampa, aggravata dall'attribuzione di fatto determinato, definire il soggetto <speculatore> e <usuraio>, ricavando tali qualifiche dal resoconto di fatti veri, documentalmente provati e accertati con sentenza penale passata in giudicato. (Trib. Roma, 25 febbraio 1984, Agnese, in Foro It., 1985, II, 124). Il diritto di cronaca giornalistica, sia questa giudiziaria o di altra natura, rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e di stampa riconosciuti dall'art. 21 Cost.; e consiste nel potere-dovere conferito al giornalista di portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata. (Cass. pen., 12 gennaio 1982, Lo Greco, in Giust. Pen., 1982, II, 656). In tema di diffamazione a mezzo stampa non è invocabile il diritto di cronaca quando la notizia è stata data attraverso uno scritto anonimo, come tale insuscettibile di controlli circa l'attendibilità della fonte e la veridicità della notizia stessa, né tale notizia può ritenersi controllata per il solo fatto che sia stata eventualmente aperta un'inchiesta giudiziaria sui fatti pubblicati (Cass. pen., sez. V, 5 marzo 1992, Giur. It., 1992, II, 618). Il limite della verità della notizia è travalicato dal giornalista non soltanto qualora la narrazione dei fatti venga arricchita di particolari e descrizioni contrarie al vero ma anche nella ipotesi in cui siano tenui sotto silenzio aspetti che, ove venissero conosciuti, sarebbero idonei a mutare il significato di ciò che è stato narrato (nel caso di specie il giornalista nel riferire un fatto di cronaca giudiziaria aveva taciuto avvenimenti idonei a scagionare colui il quale veniva indicato come omicida). Non può essere esonerato da responsabilità il giornalista che usa un termine giuridico improprio non solo in relazione alla sostanziale differenza tra i due istituti (archiviazione e proscioglimento con formula piena) ma soprattutto in relazione alla competenza professionale media da riconoscere al giornalista che affronti temi specifici come la cronaca giudiziaria nel corso della quale la verità del narrato non può andare disgiunta dalla utilizzazione della terminologia più appropriata soprattutto quando a termini diversi corrispondano concetti e conclusioni diverse (Cass. pen., 26 giugno 1987, Scialoja, Riv. pen., 1988, 865). Il giornalista pur investito dell'altissimo compito di informazione deve sempre attenersi, fino a che non intervenga una sentenza di condanna, al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell'imputato e non può tacciare quindi lo stesso di una colpevolezza non ancora accertata, tanto meno se la notizia di colpevolezza provenga da altra fonte informativa - giornali agenzie RAI - non accuratamente controllata, altrimenti le fonti propalatrici delle notizie - attribuendosi reciprocamente credito - finirebbero per rinvenire in se stesse attendibilità. (Cass pen., 17 aprile 1991, Bocconetti, in Riv. pen., 1991, 912). Deve considerarsi illecito sia sotto il profilo civile che quello penale (reato di diffamazione a mezzo stampa) il comportamento del giornalista che divulghi notizie attinenti alla commissione di reati ed alla attribuzione di essi ad una persona, raccogliendo le voci negli ambienti giudiziari senza un più approfondito controllo delle fonti d'informazione, senza attendere l'effettivo e reale svolgimento dell'iter processuale, e riferendo per di più dei fatti specifici che non hanno trovato alcuna rispondenza neppure in sede istruttoria, con la conseguenza che il diritto di cronaca non appare rettamente esercitato neppure sotto il profilo della <putatività>. (Trib. Roma, 5 febbraio 1991, Vitalone, in Dir. Inf., 1992, 459). Nella cronaca giudiziaria relativa a fatti oggetto di un processo penale anche se non ancora concluso, e a maggior ragione nel resoconto del processo stesso, il giornalista adempie l'obbligo di controllo delle fonti quando fonda la notizia sulla lettura degli atti processuali, fonte più attendibile e certa nel momento della redazione dell'articolo. (Trib. Milano 11 gennaio 1991, Postiglione, in Dir. inf., 1991, 606). L'errore del giornalista non è scriminante quando tocca la verità dei fatti fondamentali della notizia, nel caso di una ricostruzione della storia processuale a distanza dei fatti medesimi, la cui falsità poteva essere facilmente accertata: l'obbligo di puntuale ricerca e riscontro delle fonti è tanto più possibile quando si tratti di ricostruzione a distanza di un fatto e non di resoconto immediato dello stesso. (Trib. Roma, 10 marzo 1989, Scottoni, in Foro It., 1990, II, 137). Qualora uno sceneggiato fondi la ricostruzione di un fatto di cronaca sulla fedele osservanza delle risultanze e degli atti di un procedimento giudiziario conclusosi definitivamente con il passaggio in giudicato della sentenza, non può ravvisarsi pregiudizio all'onore dell'interessato; in tal caso, tuttavia, le esigenze artistico-rappresentative devono essere raccordate al dato storico, senza che aggiunte o soppressioni operate dal regista, possano alterare, anche in minima parte, la figura psicologica dell'interessato e l'equilibrio della trama. (Pret. Roma, 7 novembre 1986, Maresca c. Rai-Tv, in Giur. It., 1989, I, 2, 428). L'attribuzione a un cittadino, in termini di certezza, di un fatto rimasto non accertato, non perde il connotato della illiceità sol perché sia inserito all'interno di una determinata analisi sociopolitica. Due massime tratte dalla stessa sentenza della Cassazione penale, sez. I, 12 gennaio 1996 n. 2210 sono illuminanti al riguardo: 1) "In tema di reato di diffamazione a mezzo stampa, l'attribuzione a taluno, in termini di certezza, di un fatto che è invece rimasto non accertato, non perde il connotato della illiceità sol perché sia inserita all'interno di una determinata analisi sociopolitica: ed invero, costituisce causa di giustificazione soltanto la critica che rispetti la verità dei fatti e non anche quella che si sviluppi attraverso l'arbitrario inserimento di circostanze non vere, dato che, in questo caso, la critica diviene un mero pretesto per offendere l'altrui reputazione. (Nella fattispecie, l'imputato, in un articolo giornalistico - in cui aveva inteso tracciare un'analisi sociopolitica del fenomeno eversivo - aveva rappresentato il contributo offerto da una persona a gravissimi fatti oggetto di un procedimento penale, indicando anche gli atti attraverso i quali si sarebbe concretizzato il detto contributo, ed omettendo di riferire che tali circostanze non erano state ritenute certe all'esito del procedimento conclusosi con sentenza passata in giudicato. La S.C. ha ritenuto la sussistenza del reato di diffamazione a mezzo stampa ed ha enunciato il principio di cui in massima". 2) "Il diritto di critica, al pari del diritto di cronaca, incontra un limite invalicabile nel rispetto della verità oggettiva sui presupposti storici della valutazione, se vuole assumere le dimensioni e gli effetti di una causa esimente della responsabilità penale. Ciò che fa venire meno l'illiceità della condotta diffamatoria non è il diritto di critica in quanto tale, ma soltanto quella critica che rispetti la verità dei fatti dai quali trae occasione e forza per manifestarsi, con la precisazione che viceversa, allorquando la critica si sviluppa su episodi non veri, o rievocati attraverso l'arbitrario inserimento di circostanze qualificanti non vere, essa diviene un mero pretesto per offendere l'altrui reputazione". La verità putativa, prevista come ulteriore presupposto della legittimità del diritto di cronaca, opera in tutti i casi in cui la ricostruzione della vicenda narrata si discosti parzialmente dalle risultanze delle indagini investigative senza tuttavia mutare la sostanza dei fatti emersi; deve comunque escludersi sussista un esso di causalità tra i danni lamentati dal presunto diffamato - indubbiamente conseguenti al fatto di essere stato imputato, arrestato e rinviato a giudizio per un reato infamante e di aver visto la propria vicenda giudiziaria legittimamente riportata da numerose testate giornalistiche - e la circostanza che la stampa ed altri mezzi di informazione invece di parlare del rinvenimento di documentazione compromettente abbiano riferito del rinvenimento di denaro contante e bot. (Cass., sez. III, 16 settembre 1996, n. 8284, Vittoria c. Soc. ed. Esedra, in Resp. civ., 1997, 453). Pur se la rappresentazione (televisiva), dopo oltre vent'anni dall'accaduto, di un grave e clamoroso fatto di cronaca nera giudiziaria per porlo alla riflessione del pubblico costituisce legittimo esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, del diritto di cronaca e dello "jus narrandi", nell'osservanza dei limiti di verità e continenza, la riproduzione (televisiva) di vicende attinenti alla vita privata del condannato può ledere il c.d. diritto all'oblio dei familiari, qualora manchi un interesse pubblico attuale a conoscere le vicende stesse, sì da legittimare il ricorso ex art. 700 Cpc (Trib. Roma, 21 novembre 1996; Parti in causa M.G. c. Rai-Tv e altro; Riviste; Dir. Famiglia, 1999, 141, n. CASSANO; Rif. ai codici: COST art. 2, COST art. 3, COST art. 13, COST art. 14, COST art. 15, COST art. 21, COST art. 24; Cpc art. 700; CC art. 7, CC art. 8, CC art. 10; Rif. legislativi: L 22 aprile 1941 n. 633, art. 93; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 94; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 95; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 96; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 97; L 4 agosto 1955 n. 848, art. 8; DLT 6 settembre 1989 n. 322; L 8 giugno 1990 n. 142; L 7 agosto 1990 n. 241, art. 24). La ricostruzione delle vicende a distanza di tempo. In materia di diffamazione a mezzo della stampa, al giornalista che intenda dar conto di una vicenda la quale implichi risvolti giudiziari a distanza di tempo dall'epoca di acquisizione della notizia, incombe l'obbligo stringente, in ragione del naturale e niente affatto prevedibile percorso processuale della vicenda, di completare e quindi "aggiornare" la verifica di fondatezza della notizia nel momento diffusivo, utilizzando le pregresse fonti informative, o qualunque altra idonea disponibile. Sotto tal profilo, ogni individuo coinvolto in indagini di natura penale, è titolare di un interesse primario a che, caduta ogni ragione di "sospetto", la propria immagine non resti offesa da notizie di stampa che riferiscano dell'iniziale coinvolgimento ed ignorino, invece, l'esito positivo delle indagini stesse (Cass. pen., sez. V, sent. n. 5356 del 27 aprile 1999). In tema di cronaca giudiziaria, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste, ai fini della scriminante di cui all'art. 51 c.p., ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; il limite della verità deve essere restrittivamente inteso, dovendosi verificare la rigorosa corrispondenza tra quanto narrato e quanto realmente accaduto, perché il sacrificio della presunzione di innocenza non può esorbitare da ciò che sia necessario ai fini informativi (fattispecie in cui è stato ritenuto diffamatorio affermare, contrariamente al vero, che l'imputato era stato arrestato). (Cass., sez. V, 03 giugno 1998, Pendinelli, in Cass., rv. 211487). Nella inchiesta di fatti intorno a cui sia ancora in corso un procedimento penale, il giornalista deve riportare i fatti in chiave di assoluta problematicità senza enunciare una verità certa ed assoluta, ma esponendo tutti gli elementi certi (sulla base degli accertamenti e dei riscontri del giornalista) che vengono a connotare la complessità della realtà (Trib. Roma, 5 novembre 1991, Remondino, in Dir. inf., 1992, 478). Il limite della verità della notizia è travalicato dal giornalista non soltanto qualora la narrazione dei fatti venga arricchita di particolari e descrizioni contrarie al vero ma anche nella ipotesi in cui siano tenuti sotto silenzio aspetti che, ove venissero conosciuti, sarebbero idonei a mutare il significato di ciò che è stato narrato (nel caso di specie il giornalista nel riferire un fatto di cronaca giudiziaria aveva taciuto avvenimeni idonei a scagionare colui il quale veniva indicato come omicida). Non può essere esonerato da responsabilità il giornalista che usa un termine giuridico improprio non solo in relazione alla sostanziale differenza tra i due istituti (archiviazione e proscioglimento con formula piena) ma soprattutto in relazione alla competenza professionale media da riconoscere al giornalista che affronti temi specifici come la cronaca giudiziaria nel corso della quale la verità del narrato non può andare disgiunta dalla utilizzazione della terminologia più appropriata soprattutto quando a termini diversi corrispondano concetti e conclusioni diverse. (Cass. pen., 26 giugno 1987, Scialoja, Riv. pen., in 1988, 865). Non costituisce diffamazione col mezzo delle stampa aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato, riferire durante una cronaca giornalistica radiofonica, dell'affiliazione di due soggetti ad una loggia massonica organizzata e controllata dal capo della P2 Licio Gelli, ove il fatto sia vero, e definire un soggetto <latitante> se la circostanza sia sostanzialmente vera secondo il senso comune, anche quando giuridicamente non ne ricorrono gli estremi. L'uso dei termini da parte del giornalista non deve essere valutato in senso restrittivo o addirittura tecnico. E' evidente che colui il quale deve fornire notizie e commenti al pubblico deve tenere ben presente che non si rivolge solo a specialisti o a raffinati cultori della lingua italiana ma, al contrario, deve sforzarsi di rendere comprensibile a chiunque l'informazione che divulga. (Pret. Firenze, 2 maggio 1985, Di Giovanni, in Foro It., 1985, II, 399). In materia di cronaca giudiziaria per stabilire se il relativo diritto sia stato esercitato con rispetto del limite della verità oggettiva non deve aversi riguardo a quelle inesattezze che incidono su semplici modalità del fatto narrato senza modificarne la struttura. Non integra gli estremi del reato di diffamazione la pubblicazione di un articolo in cui il giornalista, nel divulgare la notizia dell'arresto di una persona, usa espressioni e toni che consentono al lettore di intendere che i fatti che hanno determinato l'arresto non sono stati ancora definitivamente accertati. L'indagine del giudice di merito volta a stabilire se nei casi concreti il giornalista abbia rispettato il limite della continenza e della verità deve essere particolarmente frequente in tema di cronaca giudiziaria, poiché il sacrificio del diritto alla presunzione di innocenza non deve spingersi al di là di quanto è strettamente necessario ai fini informativi. (Cass. pen., 18 dicembre 1980, Faustini, in Giust. Pen., 1982, II, 139). Un decreto penale opposto non costituisce fonte di prova ai fini dell'applicazione della esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, poiché non può ritenersi attendibile una notizia che è ancora oggetto di indagine giudiziaria. (Cass. pen., 9 luglio 1979, Vecchiato, in Cass. Pen. Mass., 1981, 191). Non si può ritenere cronaca rispettosa della verità dei fatti quella di chi, nel riferire notizie la cui fonte si rappresentata da dichiarazioni o provvedimenti di organi dello Stato (nella specie autorità giudiziaria) non tenga conto dei limiti processuali delle accuse di un organo inquirente, in spregio al disposto dell'art. 27, II comma, Cost., presentando come certa e definitiva una situazione che è suscettibile in una fase successiva di modifiche o addirittura di ribaltamenti. (Trib. Genova, 24 ottobre 1986, Boiso, in Dir. inf., 1987, 239). Non costituisce esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire la deposizione, in un procedimento civile, di un testimone lesiva dell'altrui reputazione e di cui non sia stata provata la verità. (Trib. Roma, 26 novembre 1985, Ravelli, in Dir. Inf., 1986, 894). In tema di diritto di cronaca giornalistica, la verità di una notizia, mutuata da un provvedimento giudiziario, sussiste ogniqualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso; è pertanto sufficiente che l'articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell'autorità giudiziaria, non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria e dovendo, d'altra parte, il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo e non già, secondo quando successivamente accertato in sede giurisdizionale (nella fattispecie, la corte ha ritenuto nei limiti della esimente il comportamento dei giornalisti che avevano riferito circa l'esecuzione di un provvedimento di perquisizione e sequestro disposto dal p.m., dando inoltre conto del contesto dell'indagine giudiziaria e delle ipotesi investigative elaborate dall'organo inquirente; la corte ha inoltre ritenuto che il giudice di merito aveva non correttamente desunto l'inosservanza del limite della verità dal risultato, poco soddisfacente sul piano probatorio, dell'operato sequestro e delle indagini nel loro complesso). (Cass., sez. V, 27 gennaio 1999, Mennella, in Ced Cass., rv. 212697). In tema di applicazione della scriminante del diritto di cronaca giudiziaria, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; è pertanto sufficiente che l'articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell'autorità giudiziaria, non potendosi chiedere al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria e dovendo d'altra parte il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi d'indagine e istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo. (Cass., sez. I, 10 novembre 2000, Scalfari, in Guida al dir., 2001, fasc. 12, 90). La pubblicità del dibattimento nel processo penale non è sufficiente a giustificare la pubblicazione sui giornali delle affermazioni fatte da un difensore nella sua arringa se sono lesive dell'altrui reputazione (Cassazione Sezione Prima Penale n. 4462 del 5 febbraio 2002, Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri). Nel maggio del 1994 il quotidiano Il Messaggero ha pubblicato un servizio di cronaca giudiziaria nel quale si riferivano le affermazioni fatte da un avvocato nella sua arringa difensiva in un processo per omicidio davanti alla Corte d'Assise di Chieti. Tali affermazioni concernevano anche Bruno D., definito dal difensore come soggetto già noto alla polizia e coinvolto nella vicenda che aveva portato all'omicidio. In seguito a querela sporta da Bruno D., il Tribunale Penale di Roma ha dichiarato l'autrice dell'articolo e il direttore del giornale responsabili del reato di diffamazione, condannandoli alla pena della multa e al risarcimento del danno in favore della parte civile. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Roma che ha assolto gli imputati in quanto ha ritenuto che essi abbiano correttamente esercitato il diritto di cronaca, riferendo le affermazioni fatte da un avvocato nel corso di un pubblico dibattimento. La parte civile ha proposto ricorso per cassazione sostenendo la non configurabilità dell'esimente riconosciuta dalla Corte d'Appello ai due giornalisti. La Suprema Corte (Sezione Prima Penale n. 4462 del 5 febbraio 2002, Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri) ha accolto il ricorso. Nel processo penale - ha osservato la Corte - l'esposizione, da parte del difensore, di fatti obiettivamente lesivi dell'altrui reputazione è scriminata dall'esercizio del diritto di difesa, mentre la pubblicazione a mezzo stampa degli stessi fatti può perdere il carattere della illiceità soltanto se è giustificata dall'interesse generale alla conoscenza della notizia e se questa sia stata riportata in termini corretti, precisi e non ambigui. In mancanza di tali specifiche condizioni - ha affermato la Corte - la pubblicità del dibattimento non può valere, di per sé, a legittimare la pubblicazione della notizia, in quanto la possibilità di presenziare allo svolgimento del giudizio da parte di un numero più o meno ampio di persone non può essere equiparata alla divulgazione della notizia, col mezzo della stampa, ad un numero indeterminato di lettori, che vengono così portati a conoscenza di fatti obiettivamente diffamatori. La Cassazione ha rinviato la causa ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma perché accerti la corrispondenza tra il contenuto dell'articolo e l'arringa del difensore e, in caso affermativo, controlli la configurabilità della giustificazione dell'esercizio del diritto di cronaca verificando l'esistenza delle condizioni della correttezza della forma espositiva e dell'interesse generale alla conoscenza dei fatti pubblicati. "Don Abbondio" in tribunale. La valenza diffamatoria di una espressione ha carattere relativo, essendo l'onore e la reputazione stessi valori relativi, influenzabili dall'appartenenza del soggetto passivo ad un determinato gruppo sociale, culturale o professionale. Un attentato alla sfera della reputazione soggettiva, effettuato con uno scritto giornalistico, per essere scriminato dalla ricorrenza del diritto di cronaca o critica deve presentare i caratteri dell'interesse sociale alla conoscenza della notizia, della verità dei fatti e della continenza formale in sede espositiva, intesa alla stregua di correttezza del linguaggio. Travalica i limiti della continenza formale, con la conseguente inapplicabilità della scriminante in oggetto, l'attribuzione, in un articolo giornalistico, della patente di pavidità alla persona di un magistrato impegnato in processi di lotta alla mafia, tramite l'accostamento alla figura manzoniana di Don Abbondio, avendo un significato offensivo, lesivo della considerazione che un giudice deve avere nell'ambiente professionale e nel corpo sociale, che va oltre il diritto di critica, particolarmente esercitabile nell'ambito giudiziario con la manifestazione di fisiologico dissenso rispetto a determinazioni discrezionali dei magistrati, senza degenerare nel mero insulto di cui possa cogliersi solo l'aspetto dispregiativo. E' peraltro configurabile l'applicabilità delle attenuanti dei motivi di particolare valore sociale o morale nel caso in cui l'espressione anzidetta sia stata dettata da ribellione morale di fronte alle disfunzioni giudiziarie ed alla volontà di fornire un contributo alla lotta alla criminalità organizzata attraverso la sensibilizzazione dell'opinione pubblica e degli stessi organi giudiziari competenti. (Trib. Milano, 17 dicembre 1995, Cavallaro, in Riv. Pen., 1996, 350). I1 diritto alla "identità personale", cioè il diritto di ciascuno di "essere se stesso" e di essere quindi tutelato dall'attribuzione di connotazioni estranee alla propria personalità, suscettibili di determinare la trasfigurazione o il travisamento di quest'ultima, non può implicare la pretesa di una costante corrispondenza tra la narrazione di fatti riferiti ad una determinata persona e 1'idea che la medesima ha del proprio io, giacché, altrimenti, verrebbe automaticamente preclusa ogni possibilità di esercizio del legittimo diritto di critica. (Cass. pen., sez. V, 16 aprile 1993; Riviste. Mass. pen. cass., 1993, fasc. 9, 101). Lo scritto anonimo. In tema di diffamazione a mezzo stampa non è invocabile il diritto di cronaca quando la notizia è stata data attraverso uno scritto anonimo, come tale insuscettibile di controlli circa l'attendibilità della fonte e la veridicità della notizia stessa, né tale notizia può ritenersi controllata per il solo fatto che sia stata eventualmente aperta un'inchiesta giudiziaria sui fatti pubblicati. (Cass. pen., sez. V, 5 marzo 1992, Mastroianni, in Giur. It., 1992, II, 618). Il corretto esercizio del diritto di cronaca comporta il rispetto del dovere di completezza dell'informazione. Nel riferire i risultati di un'indagine vanno menzionati anche gli elementi favorevoli all'indagato (Cassazione, sezione terza civile, n. 6877 del 22 maggio 2000, Pres. Duva, Rel. Favara). La pubblicazione della notizia di un esposto all'autorità giudiziaria può costituire diffamazione se il giornalista non dimostra di aver eseguito adeguati controlli sulla verità dei fatti denunciati. (Cassazione, sezione terza civile, n. 2367 del 3 marzo 2000, Pres. Duva, Rel. Sabatini). Un'informativa della Guardia di Finanza all'autorità giudiziaria non costituisce fonte qualificata, tale da esimere il giornalista dal controllo sulla veridicità dei fatti riferiti, mentre un comunicato stampa costituisce fonte attendibile (Tribunale di Roma, sezione prima civile, n. 501 del 13 gennaio 2000). Il privato cittadino è legittimato a chiedere il risarcimento del danno eventualmente derivatogli dal reato di rivelazione del segreto d'ufficio, anche se soggetto offeso dal reato è la pubblica amministrazione. (Cassazione, sezione terza civile, n. 4040 del 23 aprile 1999, Pres. Iannotta, Rel. Segreto). Il cronista deve controllare la veridicità delle informazioni ricevute in via confidenziale dalla polizia giudiziaria prima di utilizzarle per un servizio giornalistico (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 41135 del 19 novembre 2001, Pres. Foscarini, Rel. Nappi). Roberto R., redattore dell'Agenzia Giornalistica Italia, ha partecipato ad una conferenza stampa tenuta dai carabinieri in occasione dell'applicazione a Giuseppe V., sovrintendente dei beni culturali del Lazio, della custodia cautelare in carcere per imputazioni connesse all'esercizio delle sue funzioni . Terminata la conferenza stampa, un carabiniere gli ha detto riservatamente che nell'abitazione dell'indagato erano stati ritrovati reperti archeologici sospetti. Il giornalista ha inserito questa informazione in un servizio diffuso dalla sua agenzia. La notizia è risultata falsa. Il sovrintendente ha querelato il giornalista per diffamazione. L'imputato si è difeso invocando l'esimente putativa del diritto di cronaca: egli ha cioè sostenuto di avere ritenuto attendibile la notizia per averla ricevuta da un carabiniere. Il Tribunale di Roma ha condannato il giornalista e la sua decisione è stata confermata dalla Corte di Appello. Il giornalista ha proposto ricorso per cassazione sostenendo di avere diritto all'esimente putativa del diritto di cronaca. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La confidenza di un ufficiale di polizia giudiziaria - ha affermato la Corte - non può considerarsi di per sé attendibile e va pertanto controllata dal giornalista; le informazioni date dalla pubblica amministrazione possono essere ritenute di per sé attendibili solo quando siano date in forma ufficiale. Non è diffamatorio un articolo che riporta correttamente il contenuto di un esposto ai carabinieri. Il giornalista non è tenuto a controllarne la fondatezza (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 998 del 26 settembre 2001, Pres. Marrone, Rel. Marini). Nel giugno del 1994 il periodico "L'Opinione" di Arezzo, ha pubblicato un articolo, nel quale si riferiva il contenuto di un esposto presentato dal presidente dell'associazione commercianti ai Carabinieri, per segnalare l'acquisto, da parte della Società Unicoop, di un terreno agricolo per l'elevato prezzo di lire due miliardi e la successiva destinazione, da parte del Comune, di tale terreno ad area fabbricabile. Nell'articolo intitolato "Due miliardi per un terreno agricolo divenuto dopo un'area fabbricabile" si faceva presente, tra l'altro, che nell'esposto si indicava che un consigliere comunale di Arezzo faceva parte del consiglio di amministrazione della Unicoop. Dopo la pubblicazione dell'articolo, l'esposto ha dato luogo ad un processo penale, che si è concluso con l'assoluzione del presidente della Cooperativa e del consigliere comunale. In seguito a querela proposta dal presidente della Unicoop, il direttore del periodico L'Opinione, Carlo C., è stato sottoposto a processo penale per diffamazione. Egli si è difeso sostenendo di avere correttamente esercitato il diritto di cronaca. Il Tribunale di Arezzo lo ha assolto, ma, in grado di appello, la Corte di Firenze lo ha ritenuto responsabile del reato di diffamazione. Egli ha proposto ricorso per cassazione, censurando la Corte d'Appello per avere escluso l'applicabilità dell'esimente costituita dall'esercizio del diritto di cronaca. La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 998 del 26 settembre 2001, Pres. Marrone, Rel. Marini) ha accolto il ricorso in quanto ha ritenuto che nell'articolo incriminato sia stato correttamente riferito il contenuto dell'esposto e che l'argomento fosse di pubblico interesse. La Cassazione ha escluso che, prima di dare notizia dell'esposto, il direttore del periodico dovesse controllarne la fondatezza. Il controllo della fondatezza di un esposto è necessario - ha affermato la Corte - allorché sia evidente l'assoluta inverosimiglianza del fatto denunciato o la palese strumentalità e gratuità della denuncia, ma non quando, come nel caso in esame, esso riferisca un fatto di indiscutibile rilevanza sociale, oggettivamente sospettabile e meritevole di verifica in sede giudiziaria; al giornalista, in questo caso, non può essere richiesta un'ulteriore condotta di tipo ispettivo, che non gli compete, mentre deve essergli riconosciuta l'esimente del diritto di cronaca, essendo stato correttamente riferito il contenuto dell'esposto. La Cassazione ha annullato senza rinvio la decisione della Corte d'Appello di Firenze. Il cronista ha diritto di riferire il fatto che circoli una determinata notizia, anche se lesiva della reputazione altrui. Egli deve, però, indicarne contestualmente la fonte (Cassazione Sezione Terza Civile n. 12196 del 2 ottobre 2001, Pres. Grossi, Rel. Segreto). Il diritto di cronaca può essere legittimamente esercitato anche informando il pubblico della circostanza che siano state diffuse notizie lesive della reputazione di un soggetto. In questo caso, ai fini dell'applicazione della esimente del diritto di cronaca non è necessaria la prova della verità dei fatti oggetto delle notizie diffuse, ma soltanto la prova della diffusione di tali notizie. La notizia in sé, allorché essa è di pubblico dominio, costituisce un fatto che il cronista può riferire. Il giornalista tuttavia deve, nell'informare il lettore, dare atto che si tratta non di notizia relativa ad un fatto accertato, ma che l'unico fatto storico riscontrato è che una determinata notizia circola liberamente; egli ha inoltre il dovere di riferirne anche le fonti di propalazione, per mettere il pubblico in grado di percepire immediatamente che l'unico fatto riscontrato è la pubblica notizia e non il suo contenuto. Se tanto non avviene contestualmente, non vi è "verità storica" in quanto si è dato per vero al destinatario (ossia al lettore) il contenuto di una notizia, mentre era vera solo la circostanza della sua diffusione. Divulgabile la notizia riferita da un testimone. In tema di arbitraria pubblicazione degli atti di un procedimento è sempre consentita la divulgazione delle notizie attinte direttamente da persona che abbia assistito o sia a conoscenza di un fatto anche quando lo stesso sia oggetto di accertamento da parte della autorità giudiziaria. Una notizia attinta direttamente da un testimone di un avvenimento, in quanto tale non tenuto al segreto, è liberamente divulgabile con il mezzo della stampa. (Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 1994) Non può essere considerato lecito presentare l'opera dei magistrati, anche inquirenti, come risultato di complotti o di strategie politiche. Non può essere considerato lecito esercizio del diritto di critica la gratuita attribuzione di mala fede a chi conduce indagini giudiziarie, come a qualsiasi pubblico funzionario tenuto all'imparzialità. Infatti, non può essere considerato lecito presentare l'opera dei magistrati, anche inquirenti, come risultato di complotti o di strategie politiche, sostenendo che si intende così esercitare il diritto di critica, perché in questi casi non si esprime un dissenso, più o meno fondato e motivato, circa scelte investigative, spesso opinabili, ma si afferma un fatto, che deve essere rigorosamente provato. (Cass. pen. sez. V 09-06-2004, n. 28661; Sinn e altri; FONTI Guida al Diritto, 2004, 33, 83). In tema di diffamazione a mezzo stampa, è configurabile l'esimente del diritto di critica (distinto e diverso da quello di cronaca) quando il discorso giornalistico abbia un contenuto esclusivamente valutativo e si sviluppi nell'alveo di una polemica intensa e dichiarata, frutto di opposte concezioni, su temi di rilevanza sociale, senza trascendere ad attacchi personali finalizzati all'unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, non richiedendosi neppure - a differenza di quanto si verifica con riguardo al diritto di cronaca - che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo ed il profilo essenziale di questi non siano strumentalmente travisati e manipolati. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha ritenuto la sussistenza della scriminante in un caso in cui il giornalista, nel recensire criticamente un libro scritto da un noto magistrato, in dichiarato dissenso di fondo dalla sua impostazione, aveva tra l'altro affermato che il detto magistrato si era "gloriato di non rispettare le leggi" e aveva espresso l'opinione che la presunzione d'innocenza prevista dalla Costituzione fosse "un concetto sbagliato e da abolire"). (Cass. pen. 05-03-2004, n. 19334 (rv. 227754); FONTI CED Cassazione, 2004). Il giornalista deve accertare la verità come lo storico. L'esercizio del diritto di informazione garantito nel nostro ordinamento deve, ove leda l'altrui reputazione, sopportare i limiti seguenti: a) l'interesse che i fatti narrati rivestano per l'opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; b) la correttezza dell'esposizione di tali fatti in modo che siano evitate gratuite aggressioni all'altrui reputazione, secondo il principio della continenza; c) la corrispondenza rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità: quest'ultimo comporta l'obbligo del giornalista (come quello dello storico) dell'accertamento della verità della notizia e il controllo dell'attendibilità della fonte. (Cass. pen., 5 maggio 1997, n. 2113 in Rivista penale n. 10/1997, pag. 973) Le cause di non punibilità. La Cassazione penale (sez. V, 7 aprile 1992), inoltre, ha individuato le cause di non punibilità (scriminante: adempimento di un dovere o esercizio di un diritto): "Ai fini della configurabilità dell'esimente di cui all'articolo 51 Cp per il reato di diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca (e di critica), come ogni diritto, si definisce per mezzo dei suoi stessi limiti, che consentono di precisarne il contenuto e di determinarne l'ambito di esercizio. Tali limiti, secondo il costante insegnamento di questa Corte, sono costituiti: 1) dalla verità del fatto narrato; 2) dalla loro pertinenza, ossia dall'oggettivo interesse che essi fatti rivestono per l'opinione pubblica; 3) dalla correttezza con cui gli stessi vengono riferiti (cosiddetta continenza); essendo estranei all'interesse sociale che giustifica la discriminazione in parola ogni inutile eccesso e ogni aggressione dell'integrità morale della persona. In ordine al primo requisito va osservato che, prescindendo da ogni controversa opinione filosofica sull'argomento, per "verità", ai fini che qui interessano, deve intendersi la sostanziale corrispondenza (adaequatio) tra fatti come sono accaduti (res gestae) e i fatti come sono narrati (historia rerum gestarum). Solo la verità come correlazione rigorosa tra il fatto e la notizia soddisfa alle esigenze della informazione e riporta l'azione nel campo dell'operatività dell'art. 51 Cp, rendendo non punibile (nel concorso dei requisiti della pertinenza e della continenza) l'eventuale lesione della reputazione altrui. Il principio della verità, quale presupposto dell'esistenza stessa del diritto di cronaca, oltreché del suo legittimo esercizio, comporta, come suo inevitabile corollario, l'obbligo del giornalista, non solo di controllare l'attendibilità della fonte, ma altresì di accertare le verità della notizia, talché solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente adempiuto, l'esimente dell'art. 51 Cp potrà essere utilmente invocata". Cass. pen., sez. V, 2 marzo 1990, n. 2785: "Ai fini dell'esercizio del diritto di informazione nella raccolta delle notizie, il giornalista deve usare la maggiore diligenza e cautela possibili onde vagliare la fonte delle notizie e la più accorta prudenza nell'accoglierle, nulla tralasciando al fine di verificare se i fatti riferiti da terzi o contenuti in scritti di altrui provenienza abbiano corrispondenza nella realtà (Nella specie la corte ha ritenuto che l'autore dell'articolo aveva tenuto un comportamento colpevole, per avere pubblicato lettere contenenti accuse e giudizi lesivi dell'altrui reputazione di un On. senza richiamare l'attenzione del lettore sulla inaffidabilità dei documenti, in quanto privi di firma leggibile e quindi sostanzialmente anonimi e facendoli anzi figurare come provenienti da dissidenti di un partito politico)". Cass. pen., sez. V, sentenza 13 ottobre 1995: "Nell'ipotesi di diffamazione a mezzo stampa è configurabile la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca quando il giornalista, che ricostruisce il dato fattuale sulla base delle dichiarazioni dei presenti, delinea una versione dell'accaduto non palesemente contraddittoria con riferimento al quadro complessivo delle testimonianze esaminate. La verosimile ricostruzione di fatti riferiti in modo diverso dai soggetti coinvolti, purché plausibile e descritta nel rispetto dei limiti oggettivi del diritto di cronaca, consente il proscioglimento del giornalista e del direttore della testata, in quanto il dubbio attiene all'esistenza di una causa di giustificazione, vale a dire all'esercizio del diritto di cronaca giornalistica". Cass. pen., sez V, 30 gennaio-15 aprile 1996 n. 3604: "Se l'articolista rappresenta fedelmente (nel pensiero e nelle parole) gli avvenimenti tali quali si sono verificati (nel caso di specie apprezzamenti pesanti rivolti da un uomo politico ad un collega) nessun addebito può essergli mosso in relazione alla pubblicazione della notizia sulla "smodata" reazione avuta dallo stesso uomo politico di fronte alla pronunzia di condanna emessa nei suoi confronti dai giudici romani. Invero, in questo caso, l'innegabile interesse che la notizia (l'accusa mossa dal politico al giudice) per molteplici e intuitivi motivi rivestiva e non poteva non rivestire per l'opinione pubblica, era destinata a prevalere sul requisito della verità Il parziale racconto del giornalista aveva invece stravolto il significato delle esternazioni avute dall'uomo politico nei riguardi del collega, e, con esso, inevitabilmente (sul che non può non convenirsi) anche quello della decisione del Tribunale romano. Di qui il confermato giudizio di colpevolezza nei confronti del giornalista per avere questo violato il limite della corrispondenza tra fatti accaduti e fatti narrati, condizione indispensabile perché il diritto di informazione possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione all'altrui reputazione". Cassazione civile (sez. I, 7 febbraio 1996 n. 982): "Affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore, della reputazione o della riservatezza di terzi possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca devono ricorrere le seguenti condizioni: la verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché in questo caso frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto oggetto della cronaca; infine, la correttezza formale dell'esposizione (cosiddetta continenza), postulandosi la necessaria adozione, da parte del giornalista, di una forma civile della esposizione dei fatti e della loro valutazione". Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 1997 n. 7393: "Quando sia pubblicata una notizia non vera, non è possibile allegare a riscontro dell'esercizio putativo del diritto di cronaca l'operato erroneo di altri organi di informazione, quale che sia la loro diffusione, e nemmeno la provenienza della notizia da fonti privilegiate di informazione, dal momento che ciascun organo d'informazione deve verificare la fondatezza della notizia, e per gli organi dello Stato sono previste dalla legge precise forme di pubblicità del loro operato, fuori delle quali non esiste alcuna ufficialità riconoscibile. (Nella fattispecie, in un articolo in cui si verificavano i dati del censimento svolto dalle forze di polizia delle persone denunciate per associazione mafiosa in una regione d'Italia in un determinato anno era stata fatta menzione, nel quadro di eventi criminosi ricollegabili ad organizzazioni mafiose del territorio, di un soggetto, all'epoca coinvolto in un procedimento per associazione per delinquere, usura ed estorsione, poi conclusosi con sentenza di non luogo a procedere, indicandolo, dopo avere riprodotto la mappa delle principali famiglie di mafia, operanti nella regione, nel novero di capi e famiglie. È stata ravvisata l'offesa alla reputazione del detto soggetto sul rilievo che qualsiasi organizzazione mafiosa comune non poteva essere assimilata a quella mafiosa per via del salto di qualità tra l'una e l'altra ed è stato escluso l'esercizio anche putativo del diritto di cronaca)". Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 1997, n. 7393: "La prova dell'errore scriminante in materia di esercizio putativo del diritto di cronaca deve vertere sul fatto, e cioè sulla verità della notizia e non sull'attendibilità della fonte di informazione, dal momento che il giornalista può essere esentato dall'avere pubblicato una notizia non vera solo con la dimostrazione di avere svolto il controllo, e non già per l'affidamento riposto in buona fede sulla fonte, per quanto possa trattarsi di un organo dello Stato. (Nella fattispecie, si sosteneva che l'articolo in questione si era limitato a riferire i dati di un censimento di polizia)". In tema di diffamazione a mezzo stampa, l'esercizio del diritto di critica incontra i limiti della rilevanza sociale dell'argomento e della correttezza delle espressioni utilizzate e presuppone una notizia che a esso preesiste (momento che attiene ancora al diritto di cronaca), con la conseguenza che sussiste l'obbligo dell'articolista di esercitare la propria critica esclusivamente sui fatti del cui nucleo fondamentale ha verificato la corrispondenza al vero. In altri termini, l'esercizio del diritto di critica postula, per avere efficacia scriminante, oltre al rispetto del limite della continenza, che venga stigmatizzato un fatto obiettivamente vero nei suoi elementi essenziali, o ritenuto tale per errore assolutamente scusabile (Cass. pen. sez. V 23-10-2003, n. 48267; Festa; FONTI Guida al Diritto, 2004, 11, 102). In tema di diffamazione a mezzo stampa, è consentito al giornalista effettuare accostamenti tra notizie vere, a condizione che esse non producano un ulteriore significato che trascenda la notizia stessa, acquisendo un'autonoma valenza lesiva. (Cass. pen. Sez.V 26-03-2003, n. 19804, rv. 224531, Padovani, FONTI CED Cassazione, 2003). In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, il diritto di cronaca può rilevare come causa di giustificazione quando vengono rispettati sia il requisito della verità (cioè, rispondenza al vero della notizia riferita), sia quello della continenza (vale a dire, uso di espressioni appropriate e non intrinsecamente offensive, denigratorie e ingiuriose), sia quello della rilevanza sociale del fatto narrato. (Cass. pen. sez. V 26-11-2003, n. 4712; Pg appello Torino; FONTI Guida al Diritto, 2003, 17, 66). Il diritto di critica per sua natura è parziale, idealmente o ideologicamente orientato e teso ad evidenziare proprio gli aspetti ritenuti negativi o contraddittori del soggetto criticato.Il diritto di critica, al pari del diritto di cronaca, costituisce pacifica estrinsecazione del diritto costituzionalmente garantito alla libera manifestazione del pensiero e si caratterizza per il fatto di concretizzarsi nell'espressione di giudizi e valutazioni, piuttosto che nell'esposizione di fatti obiettivi, fino al punto di sottrarsi alla verifica dell'assoluta obiettività delle opinioni espresse. Il diritto di critica per sua natura è parziale, idealmente o ideologicamente orientato e teso ad evidenziare proprio gli aspetti ritenuti negativi o contraddittori del soggetto criticato. Il diritto di critica non va esente dagli stessi limiti del diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero, i quali, tuttavia, si atteggiano in misura parzialmente diversa. Il limite della verità dei fatti è quello che subisce la maggiore compressione, perchè, come è ovvio, le opinioni si sottraggono per loro natura ad un giudizio si stretta obiettività. Residua, come parametro obiettivamente rilevabile, la condizione che i giudizi espressi siano basati su presupposti di fatto veri, almeno in via putativa ovvero ritenuti veri per colpa scusabile. Resta invariato il requisito dell'interesse pubblico, salvo uno specifico nesso tra interesse e continenza espressiva, tale per cui la correttezza sostanziale dell'esposizione non possa andare oltre le esigenze di conoscenza del pubblico. Limiti più ampi sono posti al requisito della continenza formale, tenendo conto del fatto che l'espressione critica, per sua natura può attingere a forme altrimenti offensive o sgradite al destinatario oppure parole aspre e pungenti, purchè correlate ai fatti di cui si tratta. I limiti all'esercizio legittimo della critica possono, pertanto, essere individuati solo negli attacchi gratuiti, immotivati, che mettono in evidenza profilidella personalità morale slegati dal fatto di cui si tratta e dall'interesse pubblico ad apprendere il fatto stesso ed il commento critico, oltre che naturalmente alle contumelie e volgarità gratuite in genere. (Trib. Milano 26-02-2001; FONTI Foro Ambrosiano, 2001, 168). In tema di diffamazione, perché possa ritenersi operante la scriminante del diritto di critica, pur essendo certamente consentito, nei riguardi di soggetti investititi di pubbliche funzioni, il ricorso a un linguaggio più incisivo, occorre comunque che il fatto narrato sia vero, che sia correttamente riferito e che sia pertinente al potenziale interesse dell'opinione pubblica. È evidente, infatti, che la critica si esercita con riferimento all'altrui operato e, dunque, pur essendo essa nettamente distinta dalla cronaca, è indispensabile che l'azione, l'atteggiamento, l'operato o l'opinione altrui, che si intende criticare, sussistano e siano correttamente esposti da chi intende criticarli. (Cass. pen. sez. V 21-01-2004, n. 8678 FONTI Guida al Diritto, 2004, 23, 85). In tema di diffamazione a mezzo stampa, l'esercizio del diritto di critica incontra i limiti della rilevanza sociale dell'argomento e della correttezza delle espressioni utilizzate e presuppone una notizia che a esso preesiste (momento che attiene ancora al diritto di cronaca), con la conseguenza che sussiste l'obbligo dell'articolista di esercitare la propria critica esclusivamente sui fatti del cui nucleo fondamentale ha verificato la corrispondenza al vero. In altri termini, l'esercizio del diritto di critica postula, per avere efficacia scriminante, oltre al rispetto del limite della continenza, che venga stigmatizzato un fatto obiettivamente vero nei suoi elementi essenziali, o ritenuto tale per errore assolutamente scusabile. (Cass. pen. sez. V 23-10-2003, n. 48267; Festa; FONTI Guida al Diritto, 2004, 11, 102). Nell'esercizio del diritto di critica si deve rispettare la verità dei fatti senza introdurre elementi aggiuntivi e controllando la fonte d'informazione (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 1183 del 14 gennaio 2002, Pres. Marrone, Rel. Sica). Il diritto di critica, aspetto essenziale del più ampio diritto di libertà di manifestazione del pensiero garantito dalla Costituzione, può giustificare la pubblicazione di notizie lesive della reputazione di un cittadino, quando viene esercitato nei limiti della verità del fatto narrato, dell'interesse pubblico alla sua conoscenza (pertinenza) e della correttezza (continenza) con cui il fatto viene riferito. Occorre in particolare che l'esercizio del diritto corrisponda alla verità obiettiva dei fatti riferiti, con particolare riferimento alla fonte e all'attualità del riferimento storico e che tale verità non abbia subito immutazioni, alterazioni o modificazioni dei dati che ne costituiscono la sostanza, in maniera tale da rappresentarli come sostanzialmente diversi. L'autore non deve introdurre elementi aggiuntivi e deve esaminare, verificare e controllare, in termini di adeguata serietà professionale, la consistenza della relativa fonte di informazione. Sentenza del Tribunale di Monza (25 marzo 1994, in Foro it., 1994, II, 717): "Non trova applicazione la scriminante dell'esercizio del diritto di critica nel caso in cui oggetto della pubblicazione siano fatti non veritieri". Sentenza del Tribunale di Roma (10 febbraio 1993, in Foro it., 1994, I, 1237): "L'uso di un linguaggio astrattamente insultante non lede il diritto alla reputazione se funzionalmente connesso con il giudizio critico manifestato, riconducibile al legittimo esercizio del diritto di critica politica". In materia di responsabilità civile per notizie diffuse a mezzo stampa, può ricondursi al legittimo esercizio del diritto di informazione e di critica anche l'attribuzione ad un soggetto di un reato, quando non si traduca in una enunciazione immotivata ma possa ricavarsi, con l'ordinario raziocinio dell'uomo medio e con minore o maggiore fondamento dalla concatenazione di un certo numero di fatti veri, obiettivamente e correttamente riferiti, che rivestano interesse per una collettività più o meno vasta di soggetti. (Cass. civ. sez. III 10-01-2003, n. 196; Peretti c. Guanti; FONTI Mass. Giur. It., 2003; Arch. Civ., 2003, 1258). Il diritto di critica deve essere corretto nell'espressione. In tema di diffamazione a mezzo stampa il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l'altro, nella narrazione di fatti, bensì nella espressione di un giudizio o, più genericamente, di una opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su una interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti; ne consegue che l'esercizio di tale diritto non può trovare altro limite che non sia quello dell'interesse pubblico e sociale della critica stessa, in relazione all'idoneità delle persone e dei comportamenti criticati a richiamare su di sé una comprensibile e oggettivamente apprezzabile attenzione dell'opinione pubblica" (Cass. pen., sez. V, 16 aprile 1993; Riviste: Mass. Cass. Pen., 1993, fasc. 9, 100, solo massima). Il diritto di critica giornalistica, che rientra tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa, deve consistere in un dissenso motivato, espresso in termini corretti e misurati e non deve assumere toni gravemente lesivi dell'altrui dignità morale e professionale. Il limite all'esercizio di tale diritto deve intendersi superato quando l'agente trascenda in attacchi personali diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto criticato, giacchè in tal caso, l'esercizio del diritto, lungi dal rimanere nell'ambito di una critica misurata ed obiettiva, trascende nel campo dell'aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta (Cass. pen., sez. V, 11 marzo 1998; Parti in causa Iannuzzi; Riviste Giust. Pen., 1999, II, 183). La Cassazione penale (sez. V, 24 novembre 1993, in Giust. pen., 1994, II, 496; Mass. pen. cass., 1994, fasc. 4,90) ha scritto: "Il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca in quanto non si concreta nella narrazione di fatti, ma nell'espressione di un giudizio o di un'opinione che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. Ove il giudice pervenga, attraverso l'esame globale del contenuto espositivo, a qualificare quest'ultimo come prevalentemente valutativo, anziché informativo, i limiti dell'esimente sono quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione". Esiste un diritto all'oblio. La ripubblicazione dopo circa 30 anni di un fatto di cronaca nera a fini promozionali costituisce diffamazione a mezzo stampa e obbliga la società editrice al risarcimento del danno morale trattandosi di informazione priva di pubblico interesse e pertanto inidonea a integrare gli estremi del legittimo esercizio del diritto di cronaca. (Tribunale di Roma , sentenza 15 maggio 1995, pubblicata in "Il diritto dell'informatica e dell'informazione", n. 3 maggio-giugno 1996, pag. 422) La riproduzione di vicende attinenti alla vita privata del condannato è suscettibile di produrre un danno ingiusto al diritto all'oblio dei familiari in difetto di un interesse pubblico attuale alla conoscenza di tali vicende. (Trib. Roma, 20 novembre 1996: Parti in causa: Vulcano e altro c. Rai-Tv e altro; Riviste: Dir. Informazione e Informatica, 1997, 335; Dir. Autore, 1997, 373, n. Savini). Il diritto di cronaca può poi risultare limitato dall'esigenza dell'attualità della notizia, quale manifestazione del diritto alla riservatezza, intesa quale giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata, salvo che per eventi sopravvenuti il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all'informazione (Cass. civ., 9 aprile 1998, n. 3679, Fracassi e altro c. Rendo, in Foro It., 1998, I, 1834, n. Laghezza) Le liste dei pedofili in prima pagina sui quotidiani? Un monito viene dall'Ufficio del Garante per la privacy: rischiano di far danno agli stessi minori coinvolti nelle diverse situazioni. Esiste un "diritto all'oblio" di tutte le persone che hanno vissuto un episodio o una situazione di violenza sessuale. Inoltre, sempre secondo l'Ufficio del Garante, la diffusione indiscriminata di dati non trova fondamento nel nostro ordinamento giuridico. Questo il comunicato dell'Ufficio del Garante: "Con riferimento a recenti iniziative di pubblicazione di liste di soggetti responsabili di gravi atti di violenza in danno di minori, il collegio del Garante fa notare che la diffusione indiscriminata di dati in materia, non trova fondamento nel vigente ordinamento giuridico. Tali iniziative, a prescindere dalla loro effettiva efficacia sul piano delle prevenzione, e della circostanza che i dati possano essere desunti anche da fonti accessibili quali pronuncie giudiziarie, sono suscettibili di valutazione critica e di contenzioso, potendo, a seconda dei casi, determinare danni anche agli stessi minori indirettamente identificabili, o comportare responsabilità per inesattezze dei dati, oppure per giudizi indifferenziati su situazioni in realtà difformi o per lesione del diritto all'oblio di tutte le persone interessate rispetto a fatti assai risalenti nel tempo" (pronuncia 23 agosto 2000). Finanza e informazione. Il comportamento addebitato ai diversi incolpati consiste nel mantenimento di un rapporto di conto corrente, direttamente o attraverso l'interposta persona di un convivente, con una commissionaria, la quale ha eseguito per conto dei diversi giornalisti correntisti operazioni speculative su titoli quotati. A giudizio della Corte il comportamento in questione è effettivamente incompatibile con l'esercizio del giornalismo economico, e quindi sanzionabile sul piano disciplinare. È necessario a questo proposito tener conto della speciale relazione intercorrente tra finanza e informazione: è fatto notorio che (...) l'informazione finanziaria è fatta di "self-fulfilling expectations ", vale a dire di affermazioni che si autodimostrano o di valutazioni autonomamente idonee a provocare nel breve termine il proprio avveramento. Ciò non significa che una informazione finanziaria obiettiva sia impossibile, ma impone ai giornalisti che operano in questo settore regole deontologiche rigorose. Il pubblico dei lettori non può riporre la propria fiducia nell'informazione giornalistica, se abbia motivo di crederla influenzata dagli interessi economici personali di coloro che la danno: la scoperta che il giornalista specializzato nell'informazione sui mercati finanziari compie operazioni speculative a breve termine in Borsa, sia pure su titoli diversi da quelli commentati, induce nel lettore il dubbio sul carattere disinteressato dell'informazione e mina la credibilità dell'autore di questa. Coerente con questa impostazione è stata l'incolpazione contestata dal Consiglio regionale su richiesta dal Procuratore generale: essa, infatti, non faceva riferimento solo all'obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, ma aggiungeva che il comportamento del giornalista "oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa" (App. Milano, 18 luglio 1996, n. 2179; parti: Pg c. Cnog; estensore Aldo Ceccherini; riviste: Tabloid, set-ot 1996). Può diffamare soltanto il titolo di un articolo. In tema di diffamazione a mezzo stampa, nel caso in cui l'articolo pubblicato non abbia di per sé un contenuto diffamatorio, ma sia il complesso dell'informazione, per le modalità di presentazione e, soprattutto, per i titoli che l'accompagnano, ad attribuire alla informazione un contenuto offensivo dell'altrui reputazione, del fatto lesivo non può essere chiamato a rispondere l'autore dell'articolo quando questi si sia limitato - come di regola - a fornirne il testo alla redazione del giornale, la quale abbia provveduto alla pubblicazione stabilendone essa, come appunto avviene di norma, e cioè la collocazione in una determinata pagina, il risalto da dare alla notizia, la formulazione di titoli e sottotitoli ed ogni altro particolare. (Nella specie, in cui il querelante si doleva del contenuto diffamatorio del titolo e non anche dell'articolo, la Cassazione ha accolto la tesi del ricorrente, autore dell'articolo, che sosteneva che il fatto lesivo non fosse a lui addebitabile in quanto il titolo non era opera sua essendo la stesura della stesso affidata ad una speciale équipe all'interno del giornale). (Cass. pen., sez. V, 12 febbraio 1992, n. 1478). Quando l'esimente del diritto di cronaca "salva" il cronista intervistatore La Cassazione a sezione unite da un lato esclude l'esistenza di una generalizzata "esimente da intervista" (la riproduzione "alla lettera" di dichiarazioni diffamatorie resa dal soggetto intervistato non integra di per sé la scriminante del diritto di cronaca) e dall'altro ammette la scriminante del diritto di cronaca, quando il "fatto in sé dell'intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti (ad esempio rilevanti cariche pubbliche ricoperte dai soggetti coinvolti nella vicenda o loro indiscussa notorietà in un determinato ambiente), alla materia in discussione ed al più generale contesto dell'intervista, presenti profili di interesse pubblico all'informazione, tali da escludere la possibilità di censura da parte dell'intervistatore e da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo" (Cass., sez. un., 30 maggio 2001, Galiero). Questa linea affiora nelle sentenze più recenti della suprema Corte. Il giornalista che abbia riportato alla lettera dichiarazioni dell'intervistato oggettivamente diffamatorie è scriminato dal diritto di cronaca solamente quando vi sia un interesse pubblico alla conoscenza di tali dichiarazioni. (Cass. pen. sez. I 08-04-2003, n. 27778, Di Vincenzo, FONTI Massima redazionale, 2003). In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, l'esimente del diritto di cronaca, quale scriminante a favore del giornalista che pubblichi un'intervista ritenuta offensiva della reputazione altrui, implica due condizioni interdipendenti: a) la notizia deve consistere nel fatto stesso delle dichiarazioni dell'intervistato, fedelmente riferite, senza che possano essere, sul piano generale, in alcuna misura influenzate dall'intervistatore e, sul piano funzionale, strumentali a un'opinione del giornalista che le divulga; b) l'interesse sociale alla notizia deve concernere la particolare qualificazione dell'intervistato nel riferire fatti a sua conoscenza, o nel manifestare la propria opinione, in misura da giustificare l'esonero del giornalista dal controllo di veridicità o dalla censura delle espressioni incontinenti. (Cass., 27.05.2002, n. 20607, Sannino) In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, l'aver riportato fedelmente nel testo dell'intervista le dichiarazioni del soggetto intervistato, ove esse abbiano contenuto oggettivamente diffamatorio, non integra per ciò stesso, per il giornalista, l'applicazione della scriminante del diritto di cronaca. Infatti, il giornalista che assuma comunque una posizione imparziale, può essere scriminato solo quando il fatto in sé dell'intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell'intervista, presenti profili di interesse pubblico all'informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo (Cass., 23.10.2001, n. 37910, Lombardini) In materia di diffamazione a mezzo della stampa, la pubblicazione anche fedele delle dichiarazioni di terzi, lesive dell'altrui reputazione, costituisce veicolo tipico di diffusione delle stesse. Il giornalista, pertanto, partecipa alla diffamazione con il proprio contributo causale e ne risponde secondo lo schema del concorso di persone nel reato, ove il fatto non sia giustificato dallo "ius narrandi" collegato al limite della verità della notizia, che egli ha il dovere di controllare, per evitare che la stampa diventi "cassa di risonanza" delle contumelie e delle malevoli critiche di terzi (Cass. pen., sez. V, sent. n. 5313 del 26 aprile 1999). La pubblicazione anche fedele delle dichiarazioni di terzi, che siano lesive della reputazione altrui, costituisce veicolo tipico di diffusione della diffamazione. A questa il giornalista partecipa con apporto causale predominante e ne risponde, entro lo schema del concorso di persone nel reato, qualora il fatto non sia giustificato dall'esercizio dello "ius narrandi", collegato al limite della verità della notizia, che egli ha il dovere giuridico di controllare, per evitare che la stampa, deviando dalla sua retta funzione informatrice, si trasformi in "cassa di risonanza" delle offese della reputazione. Né ha rilievo che il giornalista non sia d'accordo con le opinioni manifestate dall'intervistato, essendo all'uopo sufficiente la volontaria diffusione della dichiarazione diffamatoria (Cass. pen., sez. V, sent. n. 480 del 19 gennaio 1984). Il giornalista intervistatore punibile in caso di "affermazioni false" e "valutazioni offensive" dell'intervistato. "Nel delitto di diffamazione a mezzo stampa, realizzato con la pubblicazione di un'intervista, è configurabile l'esimente putativa dell'esercizio del diritto di cronaca nei confronti del giornalista tutte le volte in cui la notizia è costituita non solo, e non tanto, dal contenuto delle dichiarazioni (di pubblico interesse) rese dall'intervistato, quanto dalla qualità di questi, idonea a creare particolare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni, sì che l'eventuale omessa pubblicazione dell'intervista finirebbe per risolversi in una forma di censura. Ma la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca non è invocabile quando le affermazioni dell'intervistato sono palesemente false o, comunque, il giornalista non le abbia in alcun modo controllate. Nè a maggior ragione la scriminante è invocabile quando l'intervistato esprima valutazioni critiche gratuitamente offensive, perché in questo caso l'illiceità delle dichiarazioni riferite è immediatamente rilevabile dal giornalista, senza neppure l'esigenza di indagini intese a verificarne la corrispondenza ai fatti" (Cass. pen., sez. V, 16 dicembre 1998, n. 935; Riviste: Riv. Pen., 1999, 262; Giust. Pen., 1999, II, 455; Dir. Pen. e Processo, 1999, 966, n. Sutera Sardo; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 59, CP art. 593). Su questa linea si muove la sentenza n. 7498/2000 della Cassazione penale: "Va respinta l'erronea affermazione del ricorrente in ordine all'esistenza di un "dovere" del giornalista di riportare fedelmente le dichiarazioni rese da un soggetto pubblico, anche se le stesse integrino gli estremi della contumelia "proprio perché è in queste stesse dichiarazioni ... che risiede l'interesse sociale". Al contrario, l'interesse pubblico alla conoscenza e alla divulgazione della notizia, coinvolge la necessità per la collettività di avere notizie in ordine a temi relativi alla politica, all'economia, alle scienze, ai fenomeni criminali e alla giustizia e, cioè, a tutte quelle situazioni che possono influire sulla corretta formazione della pubblica opinione. A tale concetto di interesse pubblico, sono, invece, estranee quelle "notizie" distolte dal fine nobile della formazione della pubblica opinione e volte, al contrario, a soddisfare - attraverso la violazione della sfera morale dei singoli - la curiosità del pubblico anche con il riferire fatti costituenti chiaro pettegolezzo ed offese e, in ogni caso, inutili, in quanto non pertinenti alla notizia". L'intervista a un parlamentare che richiama un'interrogazione con "notizie non vere". Non costituisce esercizio del diritto di cronaca, e pertanto comporta responsabilità dell'editore e del giornalista per lesione del diritto all'onore e alla reputazione, la pubblicazione (accompagnata da un titolo e da una fotografia aventi autonomo effetto lesivo) di un'intervista a un parlamentare che, riportandosi a una sua interrogazione parlamentare, abbia riferito notizie non vere (Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1995, n. 4871). Le interpellanze e le interrogazioni parlamentari, pur non concretando, in senso stretto, voti né opinioni espressi nell'esercizio delle funzioni parlamentari, costituiscono atti tipici del singolo parlamentare, riconosciuti dal diritto costituzionale ed espressamente previsti nei regolamenti delle camere, sicché, anche in relazione ad essi, i membri del parlamento non possono essere perseguiti per il loro eventuale contenuto diffamatorio. La ricorrenza di tale specifica esimente non tocca l'oggettiva illiceità dell'atto; con la conseguenza che sussiste la responsabilità civile dei terzi estranei che abbiano concorso con il parlamentare nel diffondere, a mezzo della stampa, il contenuto degli indicati atti che sia lesivo dell'altrui reputazione. (Nella specie, società editrice e giornalista di periodico riproducente un'intervista ad un parlamentare di contenuto sostanzialmente coincidente ad un'interrogazione parlamentare dallo stesso presentata) (Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1995, n. 4871) . Non è punibile il giornalista che dia notizia di un'interrogazione parlamentare avente portata diffamatoria purché ne riferisca in modo asettico (Cassazione Sezione Terza Civile n. 15999 del 19 dicembre 2001, Pres. Lupo, Rel. Lucentini). L'interrogazione parlamentare, secondo la definizione contenuta nell'art. 128 co. 2 del regolamento della Camera del 1971 (e nel non dissimile art. 145 del regolamento del Senato), "consiste nella semplice domanda, rivolta per iscritto, se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia giunta al Governo o sia esatta, se il Governo intenda comunicare alla Camera documenti o notizie, o abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato". Trattasi dunque di un atto - "ispettivo", secondo la dottrina costituzionalista - la cui ratio è da rinvenire, come per lo più si ritiene, nel potere del Parlamento di conoscere, attraverso l'iniziativa del singolo parlamentare - e nel correlativo obbligo degli organi di Governo di rispondere (sia pure nella formula del non poter rispondere) - determinati fatti, ai fini (tendenziali) di tutela dell'interesse alla conservazione della normalità democratica nell'organizzazione del potere pubblico e all'efficienza della gestione pubblica. Essendo allora innegabile la rilevanza, nell'ordinamento pubblico, di un potere di tale genere, impedire al giornalista la pubblicazione di un'interrogazione significherebbe imporgli il silenzio su di un fatto che, in quanto espressione di quel potere, non può non essere (ovvero è in re ipsa) d'interesse generale. Per altro verso, i regolamenti parlamentari prevedono che le interrogazioni, una volta superato il vaglio di ammissibilità ad opera del Presidente della Camera o del Senato, e da esso annunciate in aula, siano pubblicate nei Resoconti sommari e nei Resoconti stenografici. E pertanto sarebbe assolutamente paradossale che la pubblicazione di un'interrogazione, perfettamente legittima se compiuta in ambito parlamentare, tale più non sia al di fuori di esso, ossia in ambito giornalistico: quasi che i valori, alla cui tutela è rivolta l'interrogazione, appartengano al solo parlamento, e non a tutti e ad ognuno. Per tali essenziali considerazioni deve quindi ritenersi che costituisce legittima espressione del diritto di cronaca, quale esimente della responsabilità per danni, la pubblicazione di un'interrogazione parlamentare il cui contenuto sia diffamatorio: nel quale caso il requisito della verità del fatto, è da intendere rispettato solo se corrisponda al vero la riproduzione del testo dell'interrogazione medesima, integralmente o per riassunto, priva essendo di rilievo, agli stessi fini, l'eventuale falsità del suo contenuto (che il giornalista non ha il dovere di verificare). Naturalmente, in coerenza con le premesse poste, la legittimità del diritto di cronaca in tale modo esercitato presuppone che il giornalista riproduca l'interrogazione parlamentare "asetticamente", ossia in forma impersonale ed oggettiva, a modo di "semplice testimone". Ché se invece, abbandonando la posizione di imparziale narratore del fatto-interrogazione, dimostri, con commenti o altro, di approvare o di aderire, comunque, al suo contenuto diffamatorio, non potrà che farsi applicazione della regola generale che presiede all'esercizio del diritto di cronaca: nel senso che il giornalista dovrà provare, per andare esente da responsabilità, la verità intrinseca del fatto riferito, l'interesse pubblico alla sua conoscenza, la correttezza formale dell'esposizione. L'interesse generale all'informazione sugli avvenimenti politici comprime la tutela della reputazione e può legittimare la critica di un fatto ancora da verificarsi, ma probabile, nell'interesse della collettività (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 31037 del 9 agosto 2001, Pres. Casini, Rel. Occhionero). L'autore di una diffamazione con il mezzo della stampa non è punibile se ha agito nell'esercizio del diritto di cronaca e di critica, purchè non abbia superato i limiti: a) dell'interesse pubblico all'informazione; b) della continenza, intesa come correttezza formale della notizia o della critica; c) della verità della notizia. Sono regole dettate dalla necessità di un equilibrato bilanciamento tra l'interesse collettivo all'informazione e l'interesse individuale alla tutela della propria reputazione, che spetta ad ogni persona fisica e giuridica. In generale, per quanto concerne il diritto di critica, è ormai consolidato il principio secondo il quale "in tema di diffamazione a mezzo stampa l'esercizio del diritto di critica presuppone una notizia che ad esso preesiste (momento che attiene ancora al diritto di cronaca), con la conseguenza che sussiste l'obbligo dell'articolista di esercitare la propria critica esclusivamente su fatti del cui nucleo fondamentale ha verificato la corrispondenza al vero (Cass. Sez. Quinta Penale n. 6548 del 1998)". Questo orientamento si è consolidato in materia giudiziaria in termini particolarmente rigorosi, nel senso che non solo è vietata l'attribuzione di fatti penalmente rilevanti, senza una rigorosa verifica, ma sono vietate anche valutazioni critiche formulate come ipotesi, prescindendo dall'accertamento giudiziario. Un orientamento così rigoroso non può essere applicato integralmente all'informazione politica, che ha un'utilità sociale più marcata di altri tipi di informazione. Il diritto di cronaca e di critica nell'esercizio dell'attività politica è una manifestazione della libertà di pensiero (art. 21 Cost.), ma è anche un'estrinsecazione della libertà di "concorrere con metodo democratico alla formazione della politica nazionale". Il metodo democratico, esplicitato come regola di gestione della politica nell'art. 49 Cost., non comporta solamente l'attribuzione ad ogni cittadino dei diritti di elettorato attivo e passivo (art. 46 e 51 Cost.), di costituzione e partecipazione ad associazioni politiche (art. 49 Cost.), di interpello delle Camere (art. 50 Cost.), ma comporta anche il rispetto di altre regole necessarie al regime democratico. Tra queste vi è quella di garantire alla collettività, attraverso i mezzi di informazione di massa, la conoscenza dei fatti di rilevanza politica. Essa opera anche come criterio ermeneutico dell'art. 51 c.p., in forza del quale l'interprete deve tener conto della particolare rilevanza dell'interesse pubblico e della conseguente minore tutela dell'onore personale (che, inteso in senso oggettivo, comprende anche la reputazione). Il limite della verità è meno rigoroso per la necessità di una più ampia base di informazione di cui ha bisogno la collettività per potere valutare criticamente l'azione delle forze politiche, la gestione dell'apparato politico amministrativo ed ogni altro fatto o evento rilevante di natura politica. Si deve perciò concludere che in materia politica l'interesse all'informazione (per la maggiore rilevanza del suo oggetto) comprime la tutela della reputazione e legittima anche la critica di un fatto ancora da verificarsi, ma probabile in base alla ragionevole valutazione di altri fatti invece certi, a condizione, peraltro: a) che il fatto in questione sia attinente alla vita politica nazionale o locale e rivesta una sufficiente grado di interesse per la collettività (requisito della pertinenza); b) che la rappresentazione di quel fatto come probabile sia ragionevole e derivi dalla concatenazione logica di fatti già accertati e correttamente riferiti (requisito della continenza). Corsi di giornalismo: il presidente dell'Ordine può mettere in guardia dai bandi ingannevoli. Il Presidente del Consiglio dell'Ordine dei giornalisti compie il suo dovere quando interviene contro i corsi di formazione professionale per giornalisti che presentano un contenuto equivoco e idoneo a trarre in inganno gli aspiranti giornalisti sulla possibilità di diventare professionisti al termine del biennio formativo. La sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 15745, depositata il 3 aprile 2003, ha confermato la condanna per calunnia a un anno e quattro mesi di reclusione nei confronti del presidente di "Terzo Polo" associazione di radio e tv locali lombarde che aveva denunciato per diffamazione il presidente del Consiglio dell'ordine dei giornalisti della Lombardia. La ricostruzione convincentemente ha provato al di là di ogni ragionevole dubbio e con riferimento anche all'intervenuto provvedimento da parte dell'Autorità garante del mercato e della concorrenza sulla pubblicità ingannevole sia la doverosa correttezza dell'intervento del presidente dell'Ordine sia la piena consapevolezza da parte del presidente del "Terzo Polo" dell'innocenza della persona (il presidente dell'Ordine)i denunciata con uso di espressioni denigratorie e diffamatorie, quando invece il contenuto dell'intervento del Presidente del Consiglio dell'Ordine dei giornalisti puntava ad evitare il rischio di inganno di giovani aspiranti giornalisti determinato dalle espressioni del cosiddetto "bando di concorso", ambiguamente giocate sul filo dell'equivoco e dell'evocazione istituzionale e normativa, con riferimento ad articoli di legge e di regolamenti di non immediata percezione e tali da ingenerare, in persone non esperte di legislazione giornalistica, l'erronea convinzione di poter accedere alla carriera giornalistica. (http://www.odg.mi.it/mastrandrea.htm). Chi pubblica foto osé risponde di diffamazione. La pubblicazione di foto di nudo senza il consenso della persona interessata ed in un contesto volgare può costare una condanna per diffamazione. È quanto accaduto al direttore di una rivista condannato per diffamazione dalla Corte di Appello di Roma - condanna confermata dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione (sentenza 25054/2002) - per aver pubblicato alcune foto di una soubrette televisiva, senza il consenso della stessa ed inserendole in un contesto "hard", accompagnate da un breve commento. La Suprema Corte, confermando la condanna, ha rilevato che, se da un lato il nudo "di per sé" non è volgare, dall'altro lato, quando servizi giornalistici, anche privi di carattere di lesività per la reputazione, vengono inseriti in un contesto caratterizzato da degrado e volgarità, divengono offensivi e diffamatori in quanto assumono un significato carico di ambiguità Il "nudo artistico" deve essere tenuto distinto dal "nudo pornografico". 7. Diffamazione e responsabilità civile di editore, direttore e articolista: "Quando il proprietario e/o l'editore, da cui la vittima della diffamazione abbia ottenuto l'intero risarcimento, esercitano l'azione di regresso, fra di loro, verso il direttore e/o verso l'autore dell'articolo incriminato, il giudice deve accertare la gravità delle rispettive colpe, onde determinare la finale incidenza del risarcimento su ciascuno dei coobbligati". Un quotidiano pubblica un articolo di una giornalista dove vengono denunziati determinati abusi edilizi: un'antica cantina viene "convertita" in residence. La cronista enfatizza la qualità del consorte della proprietaria dell'immobile trasformato. "Il consorte enfatizzato" ricopre una carica importante all'interno di una nota organizzazione per la tutela dei beni artistici e ambientali. L'articolo, che si rivelerà diffamatorio e non veritiero, provoca le dimissioni del coniuge della titolare della cantina. In sede penale è ritenuta responsabile del reato di diffamazione a mezzo stampa la sola giornalista che aveva garantito al direttore responsabile la veridicità dei fatti narrati. In sede civile, invece, sono condannati in solido la giornalista, il direttore responsabile e l'editore al pagamento di 50 milioni (1° grado), ridotti a 40 in appello, a titolo di danno non patrimoniale. Il direttore, in sostanza, "si era fidato" della sua collaboratrice e aveva omesso di controllare la veridicità dei fatti. I giudici di merito hanno negato all'editore il diritto di regresso nei confronti della giornalista colpevole di diffamazione a mezzo stampa. La Suprema Corte, dopo aver individuato i parametri di valutazione del danno non patrimoniale da diffamazione a mezzo stampa nella gravità del fatto, sotto il profilo oggettivo (gravità dell'accusa mossa); sotto quello soggettivo (personalità della persona offesa ed incidenza dell'accusa), nonché nella natura e diffusione del veicolo di informazione, cassa la decisione di merito per non aver riconosciuto all'editore il diritto di regresso nei confronti della giornalista responsabile della pubblicazione di notizie non veritiere e diffamatorie. Secondo la Corte di Cassazione il c.d. regime di solidarietà prevede che l'editore, una volta risarcito interamente il danno al diffamato, abbia un diritto di regresso nei confronti del giornalista nella misura determinata dalla gravità delle rispettive colpe e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate. I giudici di merito, pertanto, dopo aver condannato solidalmente per un articolo non veritiero il direttore, l'editore e il giornalista, sono tenuti ad accertare l'incidenza finale del risarcimento su ciascuno dei coobbligati in ragione della gravità delle rispettive colpe. Pertanto, i giudici di merito dovranno, ogni volta, secondo l'insegnamento della Corte di Cassazione, pronunciarsi sulla domanda di rivalsa presentata dall'editore. Il principio enunciato dal Supremo Collegio è un chiaro monito ai giornalisti che "non controllano", che "si fidano", che "omettono scientemente". L'editore non è tenuto sempre e comunque a risarcire il diffamato di turno per errori commessi da altri (i giornalisti). Anche il cronista "distratto" dovrà risarcire di tasca sua e nella giusta misura. Questa le due massime tratte dalla sentenza: 1) Quando il proprietario e/o l'editore, da cui la vittima della diffamazione abbia ottenuto l'intero risarcimento, esercitano l'azione di regresso, fra di loro, verso il direttore e/o verso l'autore dell'articolo incriminato, il giudice deve accertare la gravità delle rispettive colpe, onde determinare la finale incidenza del risarcimento su ciascuno dei coobbligati (Cass. civ., sez. III, 19 settembre 1995, n. 9892; Riviste: Danno e Resp., 1996, 94, n. Savorani; "Il Corriere Giuridico", novembre 1995, pagg. 1275, l2761). 2) La responsabilità civile dell'editore e del proprietario della pubblicazione per i danni derivanti da reati commessi con il mezzo della stampa, sancita dall'art. 11 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, è autonoma dalla responsabilità del direttore della pubblicazione, e pertanto può essere affermata anche laddove quest'ultima sia stata esclusa (Cass. civ., sez. III, 19 settembre 1995, n. 989; Riviste: Danno e Resp., 1996, 94, n. Savorani). LA RIPARAZIONE PECUNIARIA PER IL REATO DI DIFFAMAZIONE E' DOVUTA ANCHE DALL'EDITORE in base all'art. 11 della legge 8.2.1948 n. 47. In base all'art. 12 della legge 8.2.1948 n. 47 nel caso di diffamazione a mezzo stampa la persona offesa può ottenere, oltre al risarcimento dei danni, una somma a titolo di riparazione. L'entità della riparazione pecuniaria è determinata in relazione alla gravità dell'offesa e alla diffusione dello stampato. Tale riparazione è dovuta non solo dal responsabile del reato, ma anche dall'editore, in quanto, a termini dell'art. 11 della legge 8.2.1948 n. 47, per i reati a mezzo stampa l'editore è civilmente responsabile in solido con gli autori del reato (Cassazione Sezione Terza Civile n. 21366 del 10 novembre 2004, Pres. Fiduccia, Rel. Travaglino). Il consentire ad una pubblicazione da parte del direttore di un giornale può tradursi anche nel non impedirla, ovvero nel tollerare passivamente la pubblicazione stessa. Ne deriva che il direttore dovrà essere ritenuto responsabile, ex art. 57 c.p., del reato di diffamazione compiuta a mezzo stampa nel caso di mancato impedimento della verificazione di un fatto illecito (Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 1997, n. 10496; Riviste Studium juris, 1998, 1001; Rif. ai codici CP art. 57). Il reato previsto dall'art. 57 c.p. va ricondotto alla categoria delle fattispecie colpose di evento, disegnando una ipotesi delittuosa di agevolazione colposa, con esclusione di ogni possibilità di dare corpo a figure di responsabilità obiettiva. Ne consegue che il direttore o redattore responsabile, la cui attività si sostanzia in una supervisione per impedire che vengano commessi reati, esaminando, controllando e verificando i fatti oggetto della narrazione, non può essere ritenuto responsabile per non avere egli saputo che la foto della persona intervistata era stata scattata indebitamente dai suoi collaboratori. (Trib. Trento, 16/01/2001; FONTE Riv. Pen., 2001, 849). La responsabilità del direttore responsabile per gli illeciti commessi col mezzo della pubblicazione da lui diretta è implicita nell'omissione del controllo e solo la prova, di cui lo stesso direttore ha l'onere, di eventuali fatti liberatori può valere ad escludere la colpevolezza, ma non può intendersi come tale la pretesa impossibilità materiale di esercitare un efficace controllo: invero, il direttore non è di certo tenuto a ripetere personalmente la fatica del cronista, ma può e deve valersi di tutta la complessa ed adeguata organizzazione umana e materiale dell'azienda giornalistica per dispiegare quel sindacato che la sua veste funzionalmente gli attribuisce e gli impone come vero e proprio potere-dovere. (Trib. Roma, 17 aprile 1987; Riviste: Dir. Informazione e Informatica , 1987, 989) In tutti i casi in cui sia astrattamente ravvisabile una responsabilità penale del direttore per reati commessi a mezzo stampa, il medesimo direttore può essere chiamato a rispondere, nei confronti del soggetto leso, anche sul piano civilistico; anche mancando la natura dolosa del reato di cui all'art. 171 l.d.a., a norma dell'art. 57 Cp il direttore responsabile, fuori dell'ipotesi di concorso nel reato con l'autore della pubblicazione vietata, risponde comunque a titolo di colpa ove abbia omesso di esercitare il necessario controllo su detta pubblicazione. (App. Milano, 21 febbraio 1992; Riviste: Dir. Autore, 1993, 265). Ai fini della determinazione della somma liquidata a titolo di riparazione pecuniaria alla persona offesa dal reato di diffamazione commesso col mezzo della stampa, il parametro della diffusione dello stampato attiene non al numero delle copie vendute nel giorno in cui è stato commesso il fatto, ma alla diffusione in linea generale del periodico sul piano nazionale o anche su quello locale; ciò che rileva infatti, è la possibilità di una notevole propalazione della notizia e non la concreta conoscenza che possa, in una determinata circostanza, averne avuto un numero più o meno grande di persone. (Cass. pen., sez. V, 19 marzo 1993. n. 2657). Nella valutazione sulla responsabilità del direttore di un periodico ai sensi dell'art. 57 c.p., l'esigenza, cui tale disposizione si ispira, di evitare che con il mezzo della stampa vengano commessi reati, deve essere contemperata con il diritto al godimento delle ferie da parte del direttore medesimo, nonchè con i principi posti dagli art. 42 e 43 c.p., secondo i quali nessuno può essere punito se non ha commesso il fatto con coscienza e volontà; pertanto, ad escludere la responsabilità ex art. 57 c.p. del direttore di un periodico nel tempo in cui egli gode delle ferie spettantigli è sufficiente, senza che sia necessario il ricorso alla procedura prevista per i mutamenti radicali nell'organico del giornale degli art. 5 e 6 l. 8 febbraio 1948 n. 47, la preventiva individuazione ed indicazione nello stesso periodico della persona che lo sostituisce, in modo che sia ricostituita, sia pur in via provvisoria, la struttura della compagine del giornale e sia così assicurato il controllo sulla pubblicazione, con la possibilità di individuare la persona che risponda dell'eventuale omissione. (In applicazione di tale principio la Corte, in una fattispecie concernente il delitto di diffamazione con il mezzo della stampa, ha annullato la sentenza di merito che, nonostante l'espressa richiesta dell'imputato, non aveva accertato chi avesse ufficialmente sostituito il direttore responsabile nel periodo in cui questi si trovava in ferie, limitandosi a prendere atto che l'assenza non era dovuta ad un motivo di forza maggiore) (Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 1997, n. 10496, in Cass. Pen., 1998, 2935). Poiché il delitto di diffamazione commesso dal giornalista con il mezzo della stampa rappresenta l'evento del reato colposo attribuibile al direttore responsabile, ai sensi dell'art 57 c.p., la condotta omissiva di quest'ultimo consiste specificamente nel non aver attivato i dovuti controlli per evitare che col mezzo della stampa e sul periodico da lui diretto si ledesse dolosamente la reputazione di terze persone; ne consegue che, se il delitto di cui all'art. 595, comma terzo, c.p. non risulta essere stato consumato per carenza dell'elemento psicologico, la fattispecie colposa omissiva prevista a carico del direttore non può trovare applicazione. (Cass. pen. sez. V 26-02-2003, n. 19827 - rv. 224404- Graldi -FONTI Riv. Pen., 2004, 145; Riv. Pen., 2003, 845) Cassazione: direttore condannato per la pubblicazione di una lettera. Anche il contenuto di una lettera pubblicata dal giornale può portare ad una condanna per il reato di diffamazione a mezzo stampa. E' accaduto a Mario Ciancio Sanfilippo, direttore del quotidiano La Sicilia. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, nella sentenza del 2 dicembre 2003, n. 46226, ha stabilito che il giornalista ha sempre e comunque il dovere di verificare la veridicità delle affermazioni contenute nella lettera, l'esistenza del mittente e l'effettiva paternità del testo. E ciò anche nel caso in cui le affermazioni della lettera costituiscano oggetto di denuncia alle autorità competenti. Nella missiva, pubblicata dal giornale il 27 agosto 1996, si affermava che in Sicilia, a Giardini Naxos, esisteva un comitato di affari di personaggi pubblici (si facevano alcuni nomi) che si erano macchiati del reato di interesse privato in atti di ufficio e che avevano pilotato l'appalto per la costruzione di un parcheggio. 8. La riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa. L'interdizione dalla professione (con il rischio per il giornalista di perdere lavoro e stipendio da uno a sei mesi nonché di perdere anche il lavoro in maniera definitiva come decisione dell'azienda editoriale verso un dipendente "inaffidabile"). La Camera dei deputati ha approvato nella seduta del 26 ottobre 2004 il disegno di legge relativo a "norme in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante". Ora la parola passa al Senato. Le nuove norme prevedono l'eliminazione della pena detentiva per tutti i delitti contro l'onore; la "cancellazione" della riparazione pecuniaria (una sorta di <risarcimento aggiuntivo> previsto solo per le diffamazioni a mezzo stampa); la riduzione ad un anno del termine di prescrizione dell'azione civile per danno alla reputazione; la possibile condanna del querelante al pagamento di una somma di denaro in caso di "lite temeraria"; il tetto "massimo" del danno non patrimoniale fissato a 30.000 euro. In particolare, per quanto riguarda l'aspetto penale del reato scompare la sanzione del carcere sostituta, - nel caso di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato-, con la pena della multa da euro 5.000 a euro 10.000. L'offesa semplice a mezzo stampa, invece, è punita con la pena della multa da euro 3.000 a euro 8.000. In entrambi i casi di condanna e nell'ipotesi di recidiva "consegue la pena accessoria dell'interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi". Oggi la pena accessoria dell'interdizione è una facoltà riservata al giudice penale, ma va detto che si contano al riguardo sentenze sporadiche. La previsione dell'interdizione dalla professione (con il rischio per il giornalista di perdere lavoro e stipendio da uno a sei mesi nonché di perdere anche il lavoro in maniera definitiva come decisione dell'azienda editoriale verso un dipendente "inaffidabile") porta ad affermare che questa riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa non convince. Non sono condivisibili le parole di un deputato pronunciate nel corso del dibattito del 26 ottobre: "La pena accessoria della sospensione dall'albo dei giornalisti da uno a sei mesi in caso di recidiva è una scommessa, una sfida positiva lanciata al mondo del giornalismo, considerata anche l'importanza che esso riveste, in una società democratica e aperta come la nostra. Il mondo del giornalismo deve saper raccogliere questa sfida positiva e rivendicare il diritto di informare, nello stesso tempo punendo al proprio interno chi non informa ma diffama, chi distrugge la vita di una persona e della sua famiglia". L'interdizione è una sfida? La realtà è molto, molto diversa. Non è accettabile che il destino dei giornalisti, impegnati nella cronaca, sia consegnato in caso di recidiva nelle mani dei giudici. I cronisti lavorano "sul tamburo" e hanno, - soprattutto quando i fatti accadono in un'ora vicina alla chiusura del giornale -, un nemico implacabile: il tempo. Nella fretta può capitare di scrivere un aggettivo di troppo, di riferire una circostanza "a metà", di collocare una persona in uno scenario negativo. Tali sfumature possono provocare una querela della parte, che si ritiene offesa. Pensiamo poi alle iniziative penali (intimidatorie?) di sindaci, ministri, assessori adottate a tutela della dignità dell'ente pubblico o della pubblica amministrazione. E' vero: il reporter non rischierà più la galera (da 1 a 6 anni, quando attribuisce un fatto "determinato" oppure da sei mesi a tre anni, quando riferisce in maniera generica). Se la potrà cavare nel massimo, come riferito, con una multa. L'interdizione temporanea dalla professione, però, verrà applicata in modo automatico (e ci sarà anche una coda disciplinare obbligatoria con il Consiglio dell'Ordine chiamato a sanzionare il comportamento del "reo"). Nessun altro professionista (medico, avvocato, commercialista, etc) corre tale alea. Il rischio dell'interdizione pesa anche sul direttore responsabile, qualora lo stesso sia chiamato a rispondere del reato di diffamazione "in concorso" con il suo cronista. I direttori, però, sono trattati in malo modo: finora rispondevano di omessa vigilanza (reato colposo), mentre in futuro risponderanno in chiave dolosa, ma la pena sarà ridotta di un terzo rispetto a quella prevista per l'autore dell'articolo. La Camera ha respinto la proposta di far celebrare il processo davanti a un tribunale in composizione collegiale. L'abolizione del carcere e dell'udienza preliminare significa così che il giornalista finirà davanti a un giudice onorario, che non ha l'esperienza e la maturità di un magistrato di carriera. L'eventuale sentenza di condanna potrà essere corretta solo in appello, quando l'imputato comparirà di fronte a tre giudici togati. Tutto questo è collegato alla circostanza che il Pm chiederà la citazione diretta a giudizio del giornalista. Oggi il filtro del Gip elimina almeno il 50 per cento dei procedimenti penali. Bisogna tener conto che nei processi per diffamazione vengono ricostruite anche vicende storiche di grande rilievo con personaggi - non solo giornalisti - spesso protagonisti della vita pubblica nazionale. Il dibattimento di fronte a un giudice monocratico di carriera offre garanzie e certezze che il giudice onorario non potrà mai assicurare. L'eventuale multa di 5 mila euro e di 10mila euro non esaurisce il processo penale. E' una condanna, che sarà seguita da una causa civile per stabilire l'entità del danno (non solo morale). Il giornalista entra in una catena di montaggio giudiziaria dalla quale rischia di uscire stritolato. Oggi le querele sono facili e abbondano. Raccogliere due, tre o quattro querele è probabilità facile. Quale cronista rischierà il posto dopo aver subito una prima condanna penale? Ecco perché questa riforma va fermata anche per evitare autocensure o cronache ricostruite al telefono o pantofolaie. La battaglia è un'altra: bisogna chiedere al Senato la cancellazione del reato di diffamazione a mezzo stampa. Le eventuali controversie per offese all'onore dovrebbero essere regolate soltanto in sede civile. La nuova legge, però, offre vie impossibili per sfuggire alla condanna penale e all'interdizione. "L'autore dell'offesa non è punibile se provvede, ai sensi dell'articolo 8, alla pubblicazione di dichiarazioni o rettifiche". E se il direttore e l'editore rifiutano la pubblicazione della smentita? Al cronista non resta che citare in giudizio il suo direttore e la sua azienda per chiedere al giudice in via d'urgenza un provvedimento con il quale ordini (al direttore e all'azienda) di pubblicare la smentita. E poi che accadrà nella vita professionale del cronista "ribelle"? In sede civile, invece, "nella determinazione del danno derivante dalla pubblicazione ritenuta lesiva della reputazione o contraria a verità, il giudice tiene conto dell'effetto riparatorio della pubblicazione della rettifica, se richiesta dalla persona offesa". La smentita attenua l'entità del risarcimento. C'è un contrasto, però, fra sfera penale e civile, che crea disuguaglianze di trattamento. In sede penale la smentita neutralizza il reato, mentre in sede civile la smentita attenua solo l'entità del risarcimento. Il problema potrebbe finire all'attenzione della Corte costituzionale, che prevedibilmente sarà chiamata a dirimere altre due questioni: l'amnistia impropria concessa al senatore Lino Jannuzzi (mentre altri detenuti per condanne definitive di diversa indole restano in prigione) e il tetto del risarcimento fissato in 30mila euro, quando "il giudice procede alla liquidazione del danno in via equitativa". Tale misura è volta ad eliminare le richieste milionarie, ma si può porre un limite al risarcimento in via equitativa? Ci si potrà rivolgere al giudice civile per il resto del risarcimento del danno patrimoniale o biologico? Fa riflettere un articolo (vedi appendice 1) di Adolfo Beria di Argentine, già Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Milano, pubblicato sul "Corriere della Sera" del 12 aprile 1986 dal titolo: "Rapporti tra giustizia e stampa/Se al giornalista si toglie la penna". La sintesi dell'articolo può essere questa: "L'interdizione professionale è contro la Costituzione". Scrive Beria: "Giustamente, pertanto, alcuni giuristi italiani hanno fatto rilevare che queste interdizioni contrastano con l'art. 27 della Costituzione che vuole la pena finalizzata alla "rieducazione" del condannato e con l'art. 133 del codice penale che impone al giudice di "individualizzare", a tale fine, la sanzione. La natura essenzialmente e funzionalmente punitiva, a carattere afflittivo, retributivo e intimidatorio dell'interdizione professionale contrasterebbe, quindi con i moderni sistemi penali che tendono a supplire alla funzione della pena classica attraverso misure di moderna difesa sociale che corrispondano a sanzioni più complesse e polivalenti. (Mi sembrano questi i motivi ispiratori della scelta adottata dal progetto di codice penale francese che sopprime la pena dell'interdizione professionale). Forse la soluzione al problema sta in un migliore autocontrollo professionale, basato su precisi statuti che deleghino ad organismi interni il compito di pronunciare eventuali interdizioni, profondamente diverse per natura ed effetti. L'analisi giuridica può sì effettuare una delimitazione in materia, ma è un settore troppo vasto e complesso per essere disciplinato totalmente ed efficacemente dalle norme del diritto penale". L'interdizione oggi è prevista nel Codice penale, ma, come affermato sopra, è una facoltà del giudice. La Cassazione ha trattato la materia con grande equilibrio come si evince da questa massima: "Nell'art. 31 Cp, secondo il quale ogni condanna per delitti commessi con abuso di una professione importa 1'interdizione temporanea della professione stessa, l'espressione "abuso della professione" va intesa nel senso di uso abnorme del diritto all'esercizio di una professione per cui è richiesta una speciale abilitazione, effettuato con l'intenzione di conseguire uno scopo diverso da quello considerato dal legislatore, seguita da un comportamento contra legem particolarmente grave sul piano soggettivo e su quello oggettivo, mentre la "violazione dei doveri inerenti ad una professione" presuppone gravi e ripetute lesioni dei principi di etica professionale; tali estremi difettano nel caso di diffamazione a mezzo stampa commessa da un giornalista in un articolo di critica ad una trasmissione televisiva e, di conseguenza, non si applica la pena accessoria in questione" (Cass. pen., 3 giugno 1983; Riviste: Giust. pen., 1984, II, 52; Giur. It., 1984, II, 52). "Per l'applicabilità della pena accessoria della interdizione della professione di giornalista non è sufficiente un isolato comportamento diffamatorio nel quale pure può ipotizzarsi la violazione dei principi di etica professionale sanciti nell'ordinamento della professione di giornalista (obbligo del rispetto della verità unitamente a quello dei doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede), ma occorrono gravi e ripetute lesioni dei menzionati principi, determinati da un comportamento corrivo e, quindi, produttivo di danno sociale" (Cass. pen., 3 giugno 1983; Riviste: Cass. Pen., 1984, 2190). Appare più severa una sentenza del tribunale di Perugia: "In caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa consegue l'interdizione dalla professione per il giornalista che abbia commesso tale reato, in quanto, ove non volesse considerarsi abuso della professione il reato previsto dall'art. 595 Cp, risulterebbe comunque violato il dovere di "osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui" (art. 2 della legge n. 69 del 1963) e di conseguenza integrato il presupposto stabilito dall'art. 31 Cp." (Trib. Perugia, 19 giugno 1985; Riviste: Dir. Informazione e Informatica , 1986, 117, n. Pisa). Esiste anche la sospensione cautelare dalla professione. Una cronista de "La Stampa" è stata sospesa il 22 ottobre 1998 dalla professione per due mesi con un'ordinanza del Gip della Pretura di Torino. La giornalista avrebbe reperito una fotografia spacciandosi, secondo l'accusa, per poliziotta. Il provvedimento, previsto dall'articolo 290 del Codice di procedura penale, è una "misura cautelare interdittiva". La vicenda presenta aspetti penali e deontologici di rilievo. L'articolo 290 del Codice di procedura penale prevede che il giudice possa "interdire temporaneamente all'imputato, in tutto o in parte, le attività ad esso inerenti". L'articolo 31 del Codice penale, invece, stabilisce che "ogni condanna per delitti commessi con l'abuso di una professione o con la violazione dei doveri ad essa inerenti, importa l'interdizione temporanea dalla professione". "L'interdizione da una professione - dice l'articolo 30 Cp - non può avere una durata inferiore a un mese né superiore a cinque anni". Il giornalista che si spaccia per poliziotto infrange le regole etiche fissate dall'articolo 2 della legge 69/1963 sull'ordinamento della professione; in particolare il dovere della lealtà e della buona fede. Viola, inoltre, anche il Codice di deontologia sulla privacy. Pubblicato nella "Gazzetta Ufficiale" del 3 agosto e in vigore dal successivo 18 agosto, il Codice oggi, dopo l'entarta in vigore del Dlgs n. 196/2003, è una norma primaria al cui rispetto sono tenuti tutti coloro che svolgono la professione giornalistica e anche i cittadini che scrivono sui giornali pur non figurando nell'albo tenuto dall'Ordine. L'articolo 2 del Codice di deontologia sulla privacy obbliga il giornalista "che raccoglie notizie" a rendere nota la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa" Il giornalista, inoltre, deve evitare "artifici e pressioni indebite". C'è da osservare, infine, che la normativa sulla privacy impone la raccolta dei dati "con correttezza e in modo lecito", mentre la stessa legge esplicitamente qualifica come "dato personale" qualsiasi informazione che consenta di identificare un soggetto, quindi anche le fotografie. Il Consiglio dell'Ordine dei giornalisti del Piemonte è tenuto ad aprire il procedimento disciplinare e a notificare questa misura all'interessata. Poi, però, deve fermarsi, perché l'accertamento penale è prioritario rispetto a quello disciplinare. Questo vincolo è imposto dall'articolo 58 della legge 69/1963. Emerge, quindi, che il Gip non abbia usurpato i poteri dell'Ordine. Il giudice ha svolto un'azione parallela e autonoma rispetta a quella dell'Ordine stesso; in sostanza un'attività di "supplenza" in quanto l'Ordine del Piemonte non può adottare alcun provvedimento una volta avviata l'istruttoria penale. A questo punto si può discutere solo sull'opportunità del provvedimento cautelare, che è insolito in una fase processuale ancora molto lontana dalla sentenza di primo grado. 9. Diffamazione online: Cassazione ribalta le regole. Competente il tribunale in cui risiede il presunto danneggiato. Una sentenza che farà discutere. E' quella con cui la Cassazione ha dettato le regole sui danni, morali e patrimoniali, della diffamazione on-line e stabilisce che su questi, nati da un'offesa lanciata in rete, deve decidere il giudice del luogo in cui la vittima è domiciliata. A detta della Suprema Corte - che ha sentenziato a seguito di una causa scaturita da un ricorso della Banca del Salento nei confronti del tribunale di Lecce - proprio dove c'è la sede principale degli affari e degli interessi del soggetto danneggiato si verifica il danno e il discredito che nasce dall'offesa alla reputazione. Così l'ordinanza della terza sezione civile della Suprema Corte ribalta, per la comunicazione in rete, le regole della diffamazione a mezzo stampa che, generalmente, stabiliscono che il giudice naturale per decidere sulla materia è quello del luogo in cui il giornale viene stampato o quello nel quale chi ha diffamato ha la residenza o il domicilio. Regole che però non valgono per la diffamazione on-line e la richiesta dei conseguenti danni. LA SENTENZA. Spiega la Cassazione(Cassazione sez. III, civile, ordinanza n° 6591 del 08/05/2002) che quando un soggetto immette un messaggio in rete, utiilizzando uno spazio web, e quindi creando un sito, o utilizzando un cosiddetto newsgroup, che è in buona sostanza un forum a cui possono accedere tutti gli iscritti, la comunicazione che ne deriva va considerata come effettuata verso tutti i possibili visitatori del sito o i partecipanti al gruppo di discussione. L'immissione in rete del messaggio non è però ancora, di per sé, offesa alla reputazione. Questa si avrà solo quando i visitatori entreranno nel sito oppure quando i partecipanti al forum leggeranno il messaggio. Il luogo in cui si verifica l'offesa potrebbe essere, prosegue la Cassazione, individuato come quello in cui il primo visitatore del sito ha letto la notizia ritenuta offensiva. Ma ciò "in astratto diventa di difficilissima se non di impossibile individuazione" contrariamente a quanto avviene in tema di offesa arrecata attraverso la stampa. Quando si tratta di Internet, dice ancora la Suprema Corte, il provider mette a disposizione dell'utilizzatore uno spazio web che viene "Allocato presso un suo server" ma l'inserimento dei dati in questo spazio non dipende "da alcuna ulteriore attività del provider né di altro soggetto che si trovi presso il provider stesso o presso il server", dipende esclusivamente dall'attività dell'utilizzatore dello spazio web. Inoltre, per evento dannoso, se si considera la responsabilità in materia di richiesta di risarcimento danni, morali e patrimoniali, non si può considerare il solo fatto illecito in sè. Questo, in assenza di danno, "non da luogo ad alcuna responsabilità". Così poiché il danno risarcibile non si identifica con l'evento illecito generatore del danno, che ne è solo una componente, il luogo in cui è sorta la responsabilità è quello in cui il danno, patrimoniale o morale, che deriva dal fatto illecito che si è verificato. La massima. Diffamazione via internet: competente giudice del domicilio del danneggiato. In tema di risarcimento del danno extracontrattuale, patrimoniale e morale, per lesione del diritto alla reputazione di una persona giuridica, compiuta mediante l'inserimento nella rete telematica (internet), attraverso un newsgroup, di frasi offensive, il forum commissi delicti, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente a decidere la causa a norma dell'art. 20 c.p.c., va individuato nel luogo di verificazione dei lamentati danni in conseguenza dell'evento diffamatorio, e quindi coincide con il luogo in cui il soggetto offeso ha il proprio domicilio, atteso che, essendo il domicilio la sede principale degli affari e degli interessi, esso rappresenta il luogo in cui si realizzano le ricadute negative dell'offesa alla reputazione (Cass. civ., Sez.III, 08/05/2002, n. 6591). Al di là delle ipotesi in cui il danno attenga anche ad un diritto inviolabile della persona umana, costituzionalmente garantito, nelle quali solamente può configurarsi un danno-evento, la fattispecie causativa di responsabilità aquiliana presuppone il danno risarcibile, e poiché il danno risarcibile non si identifica con l'evento illecito generatore del danno (che è solo una componente - insieme alla condotta ed al nesso di causalità - del fatto illecito), il "luogo in cui è sorta l'obbligazione" è il luogo in cui si è verificato detto danno, patrimoniale o morale, conseguente al fatto illecito. Ciò comporta che, in caso di una lesione della reputazione perpetrata a mezzo Internet lamentata da una persona giuridica, l'obbligazione di risarcire il danno patrimoniale ed il danno morale (tipicamente danni - conseguenze) può ritenersi sorta esclusivamente allorchè i predetti danni si siano verificati, sia pure quale conseguenza dell'evento diffamatorio, e quindi - salva diversa situazione fattuale prospettata dal danneggiato - nel luogo del domicilio o della sede del soggetto offeso, posto che il danno risarcibile diviene concreto con riferimento agli effetti del discredito che derivano al danneggiato nel suo ambiente prima e più che altrove. (Cass. civ. Sez.III (Ord.) 08-05-2002, n. 6591 - Banca 121 Credito pop. salentino, Banca del Salento e Banca 121 e Banca 121 Credito pop. Salentino c. Restaino; FONTI Resp. Civ. e Prev., 2002, 1327 nota di DE CRISTOFARO;BUGIOLACCHI). La diffamazione via internet scatta quando il messaggio è percepito da più persone. Allorché la condotta diffamatoria venga posta in essere con l'utilizzazione di un sito internet, è necessaria la prova della realizzazione dell'evento rappresentato dalla effettiva diffusione del messaggio con percezione da parte di più persone, e quindi la circostanza che effettivamente dei visitatori cybernautici siano entrati nel sito; pertanto, secondo i principi generali del diritto penale, deve ritenersi integrata l'ipotesi del tentativo quando, con l'apertura del sito e l'inserimento delle notizie e messaggi diffamanti, si realizza una condotta idonea tecnicamente e volta in modo non equivoco a diffondere nel web tali contenuti (Trib. Teramo, 30/01/2002). Il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l'inserimento nella rete telematica (internet) di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all'estero e purchè l'offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovino in Italia; invero, in quanto reato di evento, la diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa. (Cass. pen. Sez .V 17-11-2000, n. 4741 P.m.; FONTI Cass. Pen., 2001, 1832 nota di PERUSIA; Danno e Resp., 2001, 602 nota di SARAVALLE). L'introduzione di informazioni su Internet ha natura di pubblicazione ai sensi dell'art. 12 legge n. 633 del 1941, con tutte le implicazioni giuridiche che ne conseguono sia sul piano civilistico che penalistico (Trib. Cuneo, 23 giugno 1997; Parti in causa Soc. Milano Finanza ed. c. Soc. Stb e altro; Riviste Giur. piemontese, 1997, 493, n. Galli; Rif. legislativi L 22 aprile 1941 n. 633, art. 12). I news groups, che consentono lo scambio in rete di informazioni ed opinioni su temi specifici tra i soggetti interessati, possono essere creati da ogni utente internet e fanno capo di solito ad una pluralità di elaboratori, che conservano tutti una copia del messaggio inviato ed utilizzano particolari procedimenti per sincronizzare i dati immessi, in modo che da qualsiasi news - server, che ospita quell'area di discussione destinataria dell'intervento, possano essere consultati i messaggi di più recente inserimento. (Trib. Roma 04-07-1998 Banca Salento c. Restaino e altri; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 1998, 807 nota di COSTANZO). Nel caso di new - group, ed in particolare di un news - groups non moderato, il news - server si limita a mettere a disposizione degli utenti lo spazio virtuale dell'area di discussione e non ha alcun potere di controllo e vigilanza sugli interventi che vi vengono inseriti e deve pertanto escludersi la legittimazione passiva del suo gestore in procedimenti cautelari avverso affermazioni asseritamente lesive. (Trib. Roma 04-07-1998 Banca Salento c. Restaino e altri; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 1998, 807 nota di COSTANZO). In caso di diffamazione consumata mediante i contenuti di un sito Internet, sussiste la responsabilità concorrente del "provider", ancorchè quest'ultimo si sia limitato semplicemente ad ospitare sui propri "server" il contenuto delle pagine "web" predisposti dal cliente, ai sensi dell'art. 18 l. n. 675 del 1996, che estende la regola di cui all'art. 2050 c.c. a colui che tratta dati personali. (Trib. Napoli 08-07-2002 V.L. c. T.V. e altri; FONTI Giur. napoletana, 2002, 427). Affinchè il "provider", che si limiti ad ospitare sui propri "server" i contenuti di un sito Internet predisposto dal cliente, possa rispondere per le attività illecite poste in essere da quest'ultimo, non è possibile ravvisare un'ipotesi di colpa presunta, ma è necessario che sussista la colpa in concreto, ravvisabile, ad esempio, laddove venuto a conoscenza del contenuto diffamatorio di alcune pagine "web", non si attivi immediatamente per farne cessare la diffusione in rete. (Trib. Napoli 08-07-2002 Soc. 9 Netweb c. V.L. e altri; FONTI Giur. napoletana, 2002, 427). L'abuso del diritto di cronaca può concretarsi anche tramite diffusione di messaggi via Internet, poiché il mezzo di diffusione non modifica l'essenza del fatto, valutabile alla stregua dei normali criteri che governano il libero e lecito esercizio del diritto di cronaca (Trib. Teramo, 11 dicembre 1997; Parti in causa Monte Paschi Siena c. Pinto; Riviste Dir. Informazione e Informatica, 1998, 370, n. Costanzo). Stampa ed editoria - Periodico on line - Prodotto editoriale - Sequestro - Disciplina della legge sulla stampa - Applicabilità - Sussiste. (Legge 62/2001, articolo 1; legge 47/1948, articoli 1, 2, 3 e 5; Rdlgs 561/1946, articoli 1 e 2). "Alla luce della complessiva normativa in tema di pubblicazioni diffuse sulla rete Internet, risulta ormai acquisito all'ordinamento giuridico il principio della totale assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica, secondo quanto stabilito esplicitamente dall'articolo 1 della legge 62/2001. Tale definizione incide e amplia quella contenuta nel Rdlg 561/1946 secondo cui non si può procedere al sequestro delle edizioni dei giornali, di pubblicazioni o stampati - contemplati nell'editto della stampa 26 marzo 1848 n. 695 - se non in virtù di una sentenza irrevocabile" . (Tribunale di Milano, II sezione civile, sentenza 10-16 maggio 2002 n. 6127 in Guida al Diritto n. 47 del 7 dicembre 2002). Stante la assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica non è possibile procedere al sequestro di edizioni di giornali o stampati diffusi su Internet se non in virtù di sentenza irrevocabile. (Trib. Milano 15-04-2002 Calabrò e altri; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 2002, 568). Anche la pubblicazione su supporto informatico diffuso mediante strumento elettronico, quale la rete Internet, è soggetta alla normativa contenuta nell'art. 1 d.l. 561/1946 che non consente di procedere al sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni, se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell'autorità giudiziaria. (Fattispecie nella quale il tribunale del riesame ha confermato il provvedimento di dissequestro di una "pagina Web" - che conteneva un articolo per il quale era stata emessa sentenza di condanna non passata in giudicato in ordine al reato di diffamazione). (Trib. Milano Sez.I (Ord.) 28-05-2002; FONTI Foro Ambrosiano, 2002, 322). E' ammissibile la registrazione presso la cancelleria del tribunale di un giornale pubblicato esclusivamente su Internet, poiché tale forma di pubblicazione rientra nel concetto di prodotto editoriale come definito dall'art. 1 comma 1 l. n. 62 del 2001 (Trib. Salerno, 16/03/2001) Può essere sottoposto a sequestro preventivo ex art. 321 c.p. il sito Internet (inteso come insieme di hardware e software mediante il quale si genera il prodotto telematico sotto forma di trasmissione di flussi di dati) attraverso il quale viene commesso un reato; esso, in quanto prodotto editoriale ai sensi della l. n. 61 del 2001, si deve ritenere sottoposto, anche ai fini penali, alla disciplina riservata alla stampa. Di conseguenza, non trova applicazione l'art. 1 r.d.l. n. 561 del 1946, che limita a tre le copie il sequestro degli stampati disposto dal giudice penale, poichè si tratta di norma non richiamata dall'art. 1 l. n. 62 del 2001, e ontologicamente non applicabile ad Internet (Trib. Latina, 07/06/2001). Nel caso di diffamazione a mezzo Internet è territorialmente competente il giudice civile dove si trova il "server" sul quale sono caricate le pagine contenenti le dichiarazioni diffamanti, salvo che manchino prove certe riguardo all'ubicazione del "server", nel qual caso la competenza va radicata presso il foro del luogo di residenza del danneggiante (Trib. Lecce, 24/02/2001). L'attività di "provider" va ricondotta all'appalto di servizi informativi via "internet" ed è disciplinata, nei rapporti tra le parti, in base alla loro autonomia contrattuale integrata secondo la disciplina generale civilistica; è pertanto consentito che - ai sensi delle specifiche pattuizioni tra "provider" e suo utente - questi pretenda che non gli sia trasmessa posta in esubero o proveniente da determinati indirizzi non graditi, così come è consentito che il "provider" - in ossequio ai generali principi ex art. 1175 e 1375 c.c. - eviti di esporre l'utente al c.d. "spamming", ossia all'invio a pioggia di una tale massa di messaggi non richiesti da ingolfare il terminale dell'utente stesso (Trib. Prato, 16/10/2001). Poiché il "link" ipertestuale è strumento di estensione della gamma di prodotti offerti dal sito di partenza, che finisce con il comprendere mediatamente anche prodotti pubblicizzati in siti diversi, si può, in sostanza, affermare che possono ritenersi offerti in vendita su un sito internet tutti quei prodotti che sono pubblicizzati su altri siti comunque raggiungibili da quello di partenza mediante "links" ipertestuali. Con la conseguenza che non può valere ad escludere un'ipotesi di lesione del diritto al marchio o una condotta di concorrenza sleale il fatto che il sito di partenza contraffattore non offra direttamente il servizio affine, ma consenta l'accesso al sito in cui vengono offerti prodotti o servizi commercialmente identici o affini a quelli offerti dal titolare del marchio (Trib. Monza, 14/05/2001). Il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l'inserimento nella rete telematica (internet) di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all'estero e purché l'offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovino in Italia; invero, in quanto reato di evento, la diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa (Cass. pen., Sez.V, 17/11/2000, n. 4741). Nel caso di diffusione via internet di messaggi ritenuti diffamatori stante la molteplicità dei luoghi ove l'evento lesivo asseritamente sia contemporaneamente prodotto per effetto della diffusività del mezzo utilizzato, la competenza territoriale non può radicarsi in qualsiasi di tali luoghi, ovvero, in quello ove l'attore sostiene essersi verificato il maggiore danno, in quanto trattasi di criteri opinabili che rendono la regola della competenza ambulatoria ed incerta. Pertanto in assenza di prove in ordine al luogo ove si trova il server sul quale sono caricate le pagine contenenti i messaggi lesivi, deve ritenersi la competenza del foro generale delle persone fisiche che è anche il "forum destinatae solutionis". (Trib. Lecce, 16/11/2000). La rete "Internet", quale "sistema internazionale di interrelazione tra piccole e grandi reti telematiche", è equiparabile ad un organo di stampa.(Trib. Napoli, 8 agosto 1997 Parti in causa Soc. Pomicino c. Soc. Geredil e altro; Riviste Dir. e Giur., 1997, 472, n. Catalano). Il titolare di un nome di dominio Internet ha gli obblighi del proprietario di un organo di comunicazione, poiché la rete Internet, quale "sistema internazionale di interrelazione tra piccole e grandi reti telematiche", è equiparabile ad un organo di stampa (Trib. Napoli, 8 agosto 1997; Parti in causa Pomicino c. Soc. Geredil e altro; Riviste Giust. Civ., 1998, I, 259, n. ALBERTINI; Resp. Civ. e Prev., 1998, 173, n. Sanzo). L'onere di provare il contenuto di una pubblicazione "on line" può essere soddisfatto mediante l'esibizione della riproduzione a stampa delle pagine elettroniche di cui si compone un "sito" Internet (Trib. Napoli, 8 agosto 1997; Parti in causa Soc. Pomicino c. Soc. Geredil e altro; Riviste Dir. e Giur., 1997, 472, n. Catalano; Rif. ai codici CC art. 2598, CPC art. 700). Lo stampatore è il provider, che "concede l'accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio server per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni" (Trib. Cuneo, 23 giugno 1997): "Il "service provider" che si limiti a concedere l'accesso alla rete, nonchè lo spazio nel proprio "server" per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni, non è responsabile della violazione del diritto d'autore eventualmente compiuta da quest'ultimo" (Trib. Cuneo, 23/06/1997 Per quanto riguarda il giornalismo elettronico, il protocollo contrattuale (2001-2005) "si applica ai redattori di nuova assunzione utilizzati nelle redazioni di giornali elettronici per la ricerca, elaborazione, commento, invio e verifica delle notizie ed elaborazione di ogni altro elemento di contenuto giornalistico relativo alla ricerca e predisposizione degli elementi multimediali ed interattivi da immettere direttamente nel sistema. Non sono considerate di pertinenza giornalistica prestazioni attinenti alle informazioni di servizio, pubblicitarie e di contenuto commerciale". Il contratto Fnsi/Fieg 2001-2005 in sostanza ha preso atto che la pubblicazione cartacea è assimilabile a quella telematica. L'operazione consistente nel fare riferimento, in una pagina internet, a diverse persone e dell'identificarle vuoi con il loro nome, vuoi con altri mezzi, ad esempio indicando il loro numero di telefono o informazioni relative alla loro situazione lavorativa e ai loro passatempo, costituisce un "trattamento di dati personali interamente o parzialmente automatizzato", ai sensi dell'articolo 3, n. 1, della direttiva 95/46/CEE del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati. Un siffatto trattamento di dati personali non rientra in alcuna delle eccezioni che figurano nell'articolo 3, n. 2, della direttiva 95/46/CEE del 24 ottobre 1995. L'indicazione del fatto che una persona si è ferita a un piede e si trova in congedo parziale per malattia costituisce un dato personale relativo alla salute ai sensi dell'articolo 8, n. 1, della direttiva 95/46/CEE del 24 ottobre 1995. (Corte giustizia comunità Europee 06-11-2003, n. 101 Gota Hovratt c. Lindqvist; FONTI Guida al Diritto, 2003, 45, 106 nota di FROSINI). 10. Privacy. Analisi del Codice deontologico. Il diritto di cronaca vince sui personaggi pubblici. Chi ha deciso di mettersi in politica ha, comunque, una sfera di salvaguardia molto più limitata rispetto all'uomo della strada. Il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica (meglio noto come Codice deontologico sulla privacy), pubblicato il 3 agosto 1998 nella "Gazzetta Ufficiale", è diventato "efficace" quindici giorni dopo. Oggi è l'Allegato A del Dlgs n. 196/2003 o Testo unico sulla privacy (che ne parla all'articolo 139). Questo Codice, frutto di nove mesi di trattative tiratissime e che hanno sfiorato la rottura quando l'Ufficio del Garante ha respinto il primo testo, costituisce un evento molto importante nella storia del giornalismo italiano per molteplici aspetti. Previsto originariamente dall'articolo 25 della legge n. 675/1996 sulla privacy, il Codice "assume il rango di una speciale norma secondaria frutto della convergenza della volontà del Consiglio nazionale e delle misure di indirizzo indicate dal Garante" ("Nella fase di formazione del Codice, ovvero successivamente, il Garante in cooperazione con il Consiglio - dice l'articolo 25 (oggi articolo 139 del Dlgs n. 196/2003) - prescrive eventuali misure e accorgimenti a garanzia degli interessati, che il Consiglio è tenuto a recepire"). "Il Codice - ha già scritto il professor Stefano Rodotà, presidente dell'Ufficio del Garante - è una norma dell'ordinamento giuridico generale, e ad essa devono adeguarsi tutti coloro che esercitino funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa; pertanto, il suo rispetto verrà garantito dai diversi organi pubblici ed ovviamente anche dall'Ordine per quanto riguarda le sanzioni disciplinari applicabili ai soli iscritti". In nessuna parte del mondo un "Codice di condotta" per giornalisti ha il vincolo della legge; generalmente la stesura è lasciata all'autogoverno della parte interessata. Ancora una volta ha vinto la tradizione romanistica, così legata alla codificazione. Oggi, però, come Allegato A, il Codice è qualcosa di più di una norma secondaria: ha sostanzialmente il rango di una norma primaria! L'articolo 13 del Codice precisa che le norme si applicano ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti "e a chiunque altro, anche occasionalmente, eserciti attività pubblicistica". Tutti coloro che si avvalgono del diritto di manifestazione del pensiero (articolo 21 della Costituzione e articolo 10 della legge n. 848/1955 sulla "Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali"), quindi anche i non-giornalisti, sono tenuti a rispettare le "regole" del Codice. Non a caso, quindi, il Codice deontologico è "relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica" (e non della "professione giornalistica" come ha chiesto in un primo tempo il Consiglio nazionale dell'Ordine). Le sanzioni disciplinari (avvertimento, censura, sospensione e radiazione dall'Albo), previste dalla legge sulla professione giornalistica n. 69/1963, "si applicano solo ai soggetti iscritti all'albo dei giornalisti, negli elenchi o nel Registro (dei praticanti)". Le violazioni in sostanza sono sanzionate, per quanto riguarda i giornalisti, soltanto in via disciplinare. L'articolo 12 del Codice tratta la "Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali" (Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'articolo 24 della legge n. 675/1996. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'articolo 5). I giornalisti conseguentemente possono raccontare quello che risulta scritto nel Casellario giudiziale a carico di ogni persona: sentenze di condanna, ordini di carcerazione, misure di sicurezza, provvedimenti definitivi che riguardano l'applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale, dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere. Il diritto di cronaca vince in maniera ampia. Secondo l'articolo 137 del Dlgs n. 196/2003, ai trattamenti (effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità) non si applicano le disposizioni del Testo unico del 2003 relative: a) all'autorizzazione del Garante prevista dall'articolo 26; b) alle garanzie previste dall'articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all'estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. In sostanza l'articolo 137, non prevedendo il disco verde del Garante o di soggetti privati, rispetta l'articolo 21 (II comma) della Costituzione che vuole la stampa non soggetta ad autorizzazioni. I giornalisti dovranno, comunque, trattare i dati (=notizie) con correttezza e nella loro essenzialità, secondo i vincoli posti dal Codice di deontologia della privacy del 1998, dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963 (sull'ordinamento della professione giornalistica) e dalla Carta dei doveri del 1993. Il trattamento dei dati - dice ancora l'articolo 137 - è effettuato anche senza il consenso dell'interessato previsto dagli articoli 23 (Consenso) e 26 (Garanzie per i dati sensibili). In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all'articolo 136 (trattamenti effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità) "restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all'articolo 2 e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico". Il Testo unico sulla privacy, comunque, non annulla la legge n. 633/1941 sul diritto d'autore. L'articolo 97 di questa legge afferma: "Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico". Sul risvolto di tale norma si suole articolare l'ampiezza del diritto di cronaca: si può pubblicare tutto ciò che è collegato a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Nel concetto di pubblicazione lecita è compresa anche la fotografia di persone che godano di notorietà o che ricoprano uffici pubblici. Il giudice può autorizzare la pubblicazione della foto di un minore sequestrato o scomparso: in questi casi prevale "la necessità di giustizia o di polizia". 10.1. Escluse per i giornalisti le sanzioni penali. Il Codice di deontologia abbraccia il trattamento dei dati effettuato nell'esercizio dell'attività giornalistica e prevede misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportati alla natura dei dati in particolare per quanto riguarda quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Le disposizioni sono vincolanti anche per i trattamenti temporanei finalizzati esclusivamente alla pubblicazione o diffusione "occasionale" di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero. Le violazioni delle norme sulla privacy fissate nel Codice potranno comportare, come detto, un'eventuale sanzione disciplinare e anche un risarcimento del danno, ma non potranno avere, come tali, riflessi penali, se non nel caso in cui sfocino in una lesione penalmente rilevante (sotto il profilo della diffamazione a mezzo stampa) della dignità e dell'identità personale dei cittadini protagonisti di fatti di cronaca. L'articolo 167 ("Trattamento illecito di dati") del Testo unico chiaramente riguarda i non-giornalisti, mentre (in base all'articolo 137) i giornalisti possono trattare i dati personali secondo le regole fissate dal Codice deontologico e delle violazioni rispondono soltanto al loro Consiglio dell'Ordine. Se chi (non giornalista) tratta illecitamente i dati personali procura nocumento a terzi rischia da 6 a 18 mesi di carcere e se, invece, diffonde i dati personali illecitamente trattati, rischia da 6 a 24 mesi di reclusione. Chi, invece, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri danno, procede al trattamento illecito di dati personali viene punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni. La richiesta di risarcimento del danno per violazione della privacy deve essere presentata dall'interessato direttamente all'autorità giudiziaria e non può essere avanzata tramite il Garante. Lo ha precisato l'Autorità dichiarando inammissibile la pretesa di un ricorrente che chiedeva la trasmissione di copia degli atti all'autorità giudiziaria all'esito dell'accertamento contestando una violazione della privacy in Internet. L'interessato che aveva commissionato ad una società alcuni servizi per promuovere la propria immagine presso operatori del mondo dello spettacolo si è rivolto al Garante, contestando la violazione degli accordi contrattuali, chiedendo il blocco del trattamento e la cancellazione dei dati personali che lo riguardavano dal sito Internet e dagli archivi della società. Il ricorrente lamentava un'indebita diffusione dei suoi dati consultabili liberamente da chiunque sul sito della società, in violazione degli accordi che prevedevano l'inserimento di alcuni dati personali in una banca dati della società, consultabile su Internet, tramite una password, solo da operatori del settore. I dati, inoltre, avevano continuato ad essere presenti sul sito e l'interessato aveva continuato a ricevere materiale promozionale nonostante avesse espresso il proprio dissenso al responsabile della società. Solo dopo l'intervento del Garante la società inviava una nota esplicativa e nel comunicare il nominativo del responsabile del trattamento affermava di aver cancellato il dati del ricorrente dai propri archivi e dalla scheda consultabile sul sito. La società riteneva legittimo il proprio operato sostenendo di aver raccolto il consenso informato del ricorrente al momento della sottoscrizione del contratto e di aver pubblicato su Internet solo il nome di battesimo, l'anno di nascita e la provincia di residenza, oltre alcuni dati somatici forniti dallo stesso. Dati più specifici (cognome, data di nascita) sarebbero stati pubblicati in concomitanza di un successivo servizio fotografico. Il contestato invio di materiale pubblicitario rientrerebbe, invece, tra i servizi commissionati. Il ricorrente insoddisfatto ribadiva le proprie richieste. L'Autorità preso atto delle dichiarazioni della società di aver cancellato i dati dell'interessato, che comporta anche la immediata interruzione delle comunicazioni commerciali, ha dichiarato sul piano procedurale il non luogo a provvedere sul ricorso. Per quanto riguarda, invece, la parte relativa alla richiesta di "trasmissione degli atti" all'autorità giudiziaria ordinaria per il risarcimento del danno l'autorità ha dichiarato l'inammissibilità, trattandosi di un diritto che l'interessato deve far valere in prima persona di fronte al giudice civile. La legge sulla privacy, infatti, non ha introdotto innovazioni nella procedura civile. Analogo discorso va fatto per i ricorrenti che chiedono il risarcimento direttamente al Garante. 10.2. Il ruolo dei Consigli dell'Ordine dei Giornalisti e i riflessi del Codice. La legge sulla privacy prima e il Testo unico oggi, con il Codice del 1998, accentuano così il ruolo di "giudice amministrativo disciplinare" dei Consigli regionali e del Consiglio nazionale dell'Ordine. Questi enti sono stati trasformati dalla Corte costituzionale (con la sentenza n. 505/1995) in veri e propri "tribunali" amministrativi disciplinari (con tutti i risvolti legati al rispetto delle procedure fissate dalla legge professionale n. 69/1963, dalla legge n. 241/1990 sulla trasparenza amministrativa e dal Codice di procedura civile). I Consigli sono già "giudici disciplinari" in base all'articolo 115 (comma 2) del Cpp nei casi in cui i giornalisti violano il divieto posto dall'articolo 114 (comma 6) del Cpp, pubblicando le generalità e le immagini dei minorenni "testimoni, persone offese o danneggiati del reato". La legge istitutiva dell'Ordine dei Giornalisti con le sue regole etiche e la normativa sulla privacy con il connesso Codice di deontologia - con le garanzie accordate al segreto professionale - formano un sistema inscindibile, che, nel garantire la libertà di critica e di informazione, concretizza, tutelandone l'attuazione, il principio sancito dall'articolo 21 della Costituzione. Si ritiene che qualora, come nel caso di specie, una legge ordinaria disponga misure concrete di tutela ed attuazione delle libertà di rilievo costituzionale (come la libertà di informazione), sia, per ciò stesso, da ritenersi ''costituzionalmente vincolata" (sentenza 16/1978 della Corte costituzionale) e, quindi, non esposta al rischio di referendum. L'articolo 1 del Codice - un vero e proprio "manifesto" programmatico - contiene un esplicito richiamo all'articolo 21. Non è casuale che l'articolo 1 del Codice richiami l'articolo 21 della Costituzione. Quel richiamo significa che la professione giornalistica è direttamente collegata all'esercizio di un diritto centrale della carta costituzionale e che di riflesso c'è un interesse della collettività (già sottolineato dalle sentenze n. 11/1968 e n. 71/1991 della Corte costituzionale) al "corretto" svolgimento dell'importante attività della comunicazione multimediale attraverso la vigilanza di un "ente pubblico" (l'Ordine, concepito come giudice disciplinare) chiamato a valutare il comportamento dei singoli giornalisti in rapporto a un Codice di condotta voluto dal Parlamento nazionale e dal Parlamento europeo. Oggi pertanto, in contrasto con la sentenza n. 38/1997 della Corte costituzionale che ha riconosciuto legittimo il referendum, l'esistenza di un Codice deontologico (vincolante per legge nei confronti dei giornalisti) appare "sufficiente a far ritenere che l'ordinamento della professione di giornalista sia essenziale per la tutela di un diritto costituzionale", perché il Codice stesso, infatti, favorisce "direttamente" l'esercizio "corretto" del "diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione" (articolo 21 della Costituzione). Il Codice non è un "frammento" della normativa sull'attività giornalistica, ma è il "cuore" del sistema giuridico che protegge l'immagine e l'identità della persona. Così, con la pubblicazione del Codice, l'Ordine dei Giornalisti guadagna punti rilevanti sul terreno della legittimità della sua esistenza. La Corte costituzionale ha già sottolineato "la rilevanza pubblica o di pubblico interesse della funzione svolta da chi professionalmente sia chiamato a esercitare un'attività d'informazione giornalistica" (sentenze n. 11 e n. 98 del 1968; n. 2 del 1977). Appare consequenziale l'affermazione (contenuta nell'articolo 6 del Codice) che "commenti e opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione nonché alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti". Il confronto tra il Consiglio nazionale e l'Ufficio del Garante aveva un percorso obbligato segnato dal rispetto delle norme che già ponevano precisi limiti a tutela della riservatezza. Ad esempio, le disposizioni contro le interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis Cp) o a tutela delle vittime degli atti di violenza sessuale (art 734 bis Cp), dei minori coinvolti nei procedimenti penali (articoli 114, comma 6, del Cpp e 13 del Dpr 448/1988) e dei malati di Aids (art. 5 della legge 135/1990); oppure il divieto di interferenze arbitrarie e illegali nella vita dei fanciulli (articolo 16 della legge n. 176/1991 che ingloba la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia). Il Codice tenta un difficile compromesso tra diritto di cronaca e diritto della persona alla tutela della sua identità e della sua riservatezza nello spirito dell'articolo 2 del Testo unico (già articolo 1 della legge n. 675/1996). 10.3. I "principi generali" del Codice di deontologia sulla privacy (articolo 1) - Le norme (del Codice) sono volte a contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all'informazione e con la libertà di stampa. In forza dell'articolo 21 della Costituzione, la professione giornalistica si svolge senza autorizzazioni o censure. In quanto condizione essenziale per l'esercizio del diritto-dovere di cronaca, la raccolta, la registrazione, la conservazione e la diffusione di notizie su eventi e vicende relative a persone, organismi collettivi, istituzioni, costumi, ricerche scientifiche e movimenti di pensiero, attuate nell'ambito dell'attività giornalistica e per gli scopi propri di tale attività, si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche dati o altri soggetti. Su questi principi trovano fondamento le necessarie deroghe previste dai paragrafi 17 e 37 e dall'art. 9 della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'Unione europea del 24 ottobre l995 e dalla legge n. 675/1996 (oggi Dlgs n. 196/2003). L'articolo 1 del Codice è un manifesto (senza ombre) sulla professione giornalistica, che "si svolge senza autorizzazioni o censure". 10.4. Il giornalista non nasconde la propria identità (articolo 2) - Il giornalista che raccoglie notizie per una delle operazioni di cui all'art. 1, comma 2, lettera b) della legge n. 675/1996 (=trattamento e raccolta delle notizie) rende note la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa; evita artifici e pressioni indebite. Fatta palese tale attività, il giornalista non è tenuto a fornire gli altri elementi dell'informativa di cui all'art. 10, comma 1, della legge n. 675/1996. Se i dati personali sono raccolti presso banche dati di uso redazionale, le imprese editoriali sono tenute a rendere noti al pubblico, mediante annunci, almeno due volte l'anno, l'esistenza dell'archivio e il luogo dove è possibile esercitare i diritti previsti dalla legge n. 675/1996. Le imprese editoriali indicano altresì fra i dati della gerenza il responsabile del trattamento al quale le persone interessate possono rivolgersi per esercitare i diritti previsti dalla legge n. 675/1996. Gli archivi personali dei giornalisti, comunque funzionali all'esercizio della professione e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, sono tutelati, per quanto concerne le fonti delle notizie, ai sensi dell'articolo 2 della legge n.69/1963 e dell'articolo 13, comma 5 della legge n. 675/1996. Il giornalista può conservare i dati raccolti per tutto il tempo necessario al perseguimento delle finalità proprie della sua professione. Il giornalista deve improntare i suoi comportamenti ai principi della lealtà e della buona fede. Deve essere e deve apparire corretto. I cittadini hanno il diritto di conoscere e di "correggere" tutto ciò li riguarda e che viene conservato sulla propria persona negli archivi redazionali. L'archivio personale del giornalista è inviolabile. Il Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha sanzionato (con deliberazione 17 luglio 2000) il comportamento del direttore responsabile di un settimanale milanese che ha trasformato alcuni collaboratori della testata in fedeli, che hanno confessato, nascondendo la loro identità, comportamenti in contrasto con la morale religiosa per carpire ai sacerdoti le loro opinioni nel contesto di una inchiesta tendente a stabilire come i singoli sacerdoti mettessero in pratica certi "orientamenti" espressi dei vertici della Chiesa cattolica nei confronti di alcuni peccati di natura soprattutto sessuale. 10.5. Tutela del domicilio (articolo 3) - La tutela del domicilio e degli altri luoghi di privata dimora si estende ai luoghi di cura, detenzione o riabilitazione, nel rispetto delle norme di legge e dell'uso corretto di tecniche invasive. Anche la pubblicazione del numero può dare luogo a una causa èper risarcimento del danno: "Stante la espressa previsione dell'art. 29 u.c., l. n. 675 del 1996 va risarcito il danno non patrimoniale conseguente alla illecita diffusione su un quotidiano dell'indirizzo di casa dell'interessato (nel caso di specie sono stati liquidati 10 milioni)".(Trib. Milano, 13/04/2000; parti in causa Iannini C. Soc. R.c.s. ed. e altri; FONTE Dir. Informazione e Informatica, 2000, 371 - Dir. Informazione e Informatica, 2000, 469, nota di Sica; riferimenti normativi L 31/12/1996 n.675, Art.29). Nessuno può essere, ad esempio, fotografato (ricorrendo anche ai teleobiettivi) mentre è in casa propria, in ospedale o in carcere. L'editore di una rivista milanese è stato condannato a pagare 75 milioni a una giornalista televisiva colta "senza veli" dall'obiettivo mentre prendeva il sole sul terrazzo di casa. L'Ufficio del Garante ha già condannato "l'uso di tecnologie invasive della riservatezza o che facilitano comportamenti sleali (ad esempio: uso di teleobiettivi o di microfoni unidirezionali, captazione di conversazioni private)". Non si addice a un fotoreporter, iscritto nell'elenco pubblicisti dell'Albo, braccare una persona sotto casa, dare la caccia a una persona, molestando e disturbando. La caccia si dà, entro determinati limiti temporali e di specie, soltanto agli animali. La persona al centro di una storia di cronaca non è un "prodotto" da vendere al migliore offerente, ma è una persona da rispettare nella sua dignità e nella sua identità. Nel diritto di cronaca non rientra il "sistema" operativo aggressivo adottato da taluni fotogiornalisti per procurarsi uno scatto. L'appartenenza all'Ordine dovrebbe determinare negli iscritti, sia che raccontino i fatti con le parole sia che raccontino gli stessi fatti con le immagini, il rispetto massimo delle norme deontologiche poste a tutela della dignità delle persone, valore costituzionale che anima la legge professionale e la normativa sulla privacy. Sono questi gli argomenti alla base della delibera con la quale il Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha sanzionato con la sospensione di due mesi dall'attività professionale un giornalista pubblicista-fotoreporter. Il Consiglio, invece, ha ritenuto legittima la pubblicazione dei nomi e delle immagini dei due protagonisti della vicenda di cui uno era ex direttore della Tv del Vaticano e, quindi, personaggio conosciuto. Il Consiglio ha condiviso questa massima giurisprudenziale: "La notorietà del personaggio ritratto si estende anche ai congiunti, a condizione che costoro ne condividano in buona parte le vicende umane, inevitabilmente influenzate dalla sua condizione di uomo pubblico, e si presentino di sovente in pubblico accanto a lui" (Trib. Napoli, 30/09/1898; Fonte Nuova Giur. Civ., 1990,I,404; Dir. Autore, 1990,382; Dir. Informazione e Informatica, 1990, 520. In taluni casi il diritto di cronaca (tutelato dall'articolo 97 l. n. 633/1941 sul diritto d'autore) prevale sul diritto alla riservatezza. 10.6. Rettifica (articolo 4) - "Il giornalista corregge senza ritardo errori e inesattezze, anche in conformità al dovere di rettifica nei casi e nei modi stabiliti dalla legge". Con riferimento all'articolo 8 della legge n. 47/1948 sulla stampa, il direttore responsabile é tenuto a far inserire gratuitamente nel giornale o periodico da lui diretto le dichiarazioni e le rettifiche dei soggetti cui siano stati attribuiti atti, pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o, comunque, contrari alla verità. La rettifica deve essere pubblicata non oltre due giorni da quello in cui é avvenuta la richiesta e va collocata nella medesima pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce. Essa, inoltre, deve avere le medesime caratteristiche tipografiche dell'articolo contestato. Qualora tale termine non sia rispettato il soggetto interessato può, con provvedimento d'urgenza, chiedere al giudice civile che sia ordinata la pubblicazione. La rettifiche o le dichiarazioni devono far riferimento allo scritto che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute nelle trenta righe tipografiche. La rettifica era già, per il giornalista, un dovere (articolo 2, comma 2, della legge n. 69/19639 e un obbligo giuridico (articolo 8 della legge n. 47/1948). "Il diritto alla rettifica delle notizie pubblicate costituisce fondamentale diritto della persona a tutelare la propria immagine e dignità. Pertanto la rettifica va pubblicata conformemente a quanto richiesto, senza che né il direttore del giornale né il giudice abbiano facoltà di modificarne il testo, o anche di sindacarne il contenuto sotto il profilo della veridicità" (Trib. S. Maria Capua V., 22 gennaio 1999; Parti in causa Corriere Caserta c. Credito it.; Riviste Foro Napol., 1999, 37). L'articolo 2 della legge n. 69/1963 impone di "rettificare le notizie che risultino inesatte e di riparare gli eventuali errori". L'articolo 4 del Codice arricchisce il quadro di doveri del giornalista, che è chiamato a rettificare errori ed inesattezze "senza ritardo". 10.7. Diritto all'informazione e dati personali (articolo 5) - Nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, il giornalista garantisce il diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti. In relazione a dati riguardanti circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico, è fatto salvo il diritto di addurre successivamente motivi legittimi meritevoli di tutela. Il giornalista, quindi, è tenuto a informare sui "fatti di interesse pubblico", limitando le cronache agli stretti protagonisti dei fatti medesimi. 10.8. Essenzialità dell'informazione (articolo 6) - La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l'informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell'originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti. La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica. Commenti e opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione nonché alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti. La sfera privata non è protetta, quindi, quando la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale sia indispensabile in presenza di un avvenimento originale o particolare, nonché della qualificazione dei protagonisti. Rcs Editori è stato, invece, condannato a risarcire i danni (Tribunale di Milano 13 aprile 2000, Foro italiano 2000, I, 3004) perché un suo quotidiano aveva pubblicato, nel contesto di una indagine giudiziaria, l'indirizzo privato di una persona, dato, questo, ritenuto non "essenziale" in quanto privo di finalità informativa. Anche "la diffusione di immagini di una cerimonia privata, ma caratterizzata da rilevanza e interesse pubblico per le specifiche circostanze in cui si sia svolta, non si qualifica come lesione del diritto alla immagine e del diritto alla "privacy" quando, oltre ad ipotizzarsi un consenso tacito alla diffusione, sia ravvisabile un interesse pubblico alla conoscenza delle immagini e la diffusione delle stesse sia caratterizzata dalla condizione della essenzialità dell'informazione" (Trib. Roma 24-01-2002; Califano c. Soc. Rusconi ed.; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 2002, 505 nota di VOTANO). La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche dovrà essere rispettata, invece, se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica. Il pettegolezzo, insomma, è proibito. Questa "regola", è prevedibile, darà luogo a decine di interpretazioni contrastanti. Appare, però, opportuno spiegarsi con un esempio. Continuano ad apparire sulle testate giornalistiche, ed in taluni casi su quelle televisive, nel corpo di articoli che descrivono eventi e fatti di cronaca, notizie che nulla hanno a che vedere con la descrizione dell'evento stesso e nulla aggiungono alla comprensione dell'ambiente in cui l'evento è maturato. Spesso tali notizie toccano aspetti della vita del soggetto protagonista dell'evento ai quali la legge sulla privacy assicura una particolare tutela. L'episodio più emblematico riguarda una notizia sul ritrovamento del corpo di un imprenditore di Torino. La notizia era stata arricchita da informazioni relative, oltre che all'iscrizione dell'imprenditore a un circolo sportivo, anche all'iscrizione dello stesso a un partito politico, dato quest'ultimo definito "sensibile" dalla legge 675. Tali ultimi particolari erano del tutto irrilevanti ai fini della notizia. Il concetto dell'essenzialità della notizia implica, quindi, la non pubblicazione di informazioni "estranee" o "marginali" rispetto all'evento al centro dell'articolo di cronaca. Sul tema dell'essenzialità dell'informazione l'Ufficio del Garante è intervenuto in maniera esplicita: "Il trattamento dei dati "sensibili" (salute, sessualità, origine etnica, convinzioni religiose, appartenenze politiche ecc.) richiede, tanto più nel caso che essi siano relativi a persone non direttamente coinvolte negli avvenimenti riferiti, l'adozione di alcune cautele. In particolare, riguardo alla pertinenza e non eccedenza dei dati e all'essenzialità dell'informazione rispetto a fatti di interesse pubblico. Queste cautele sono oggi definite in dettaglio nel codice di deontologia per l'attività giornalistica il quale specifica che il trattamento dei dati deve avvenire "evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti" (art. 5) e che la pubblicazione di informazioni su persone malate, nell'ambito di precisi limiti, è consentita solo "se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica" (art. 10). I principi specificati nel codice erano, però, già previsti dalla legge sulla privacy" (pronuncia del Garante 30 settembre 1999). Di un certo interesse questa massima legata a una sentenza emessa dal Tribunale civile di Mantova: "La diffusione di dati personali nell'esercizio di attività giornalistica costituisce trattamento ai sensi della l. 675/96 ed è subordinata al consenso da parte dell'interessato. Il consenso non è però necessario quando il trattamento è effettuato nell'esercizio della suddetta professione e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, nel rispetto del codice di deontologia di cui all'art. 25, norma che ribadisce la non necessità del consenso purché il trattamento dei dati sia contenuto nei limiti del diritto di cronaca ed in particolare dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Nel caso di specie, si è ritenuto che la divulgazione a mezzo stampa delle generalità del soggetto rapinato, della sua età e della città di residenza, avuto riguardo al tipo di attività esercitata (agente di commercio di preziosi), pure effettuata nell'ambito dell'esercizio del diritto di cronaca, abbia ecceduto i limiti di quest'ultimo nel senso che la diffusione dei dati in questione (obiettivamente idonea a mettere in pericolo l'incolumità dell'attore) non era giustificata da alcuna finalità informativa essenziale" (Tribunale di Mantova, Sez. II - Giudice unico Dott. Mauro Bernardi - Sentenza del 13 maggio 2004 ). 10.9. Tutela del minore (articolo 7) - Al fine di tutelarne la personalità, il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro identificazione. La tutela della personalità del minore si estende, tenuto conto della qualità della notizia e delle sue componenti, ai fatti che non siano specificamente reati. Il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca; qualora, tuttavia, per motivi di rilevante interesse pubblico e fermo restando i limiti di legge, il giornalista decida di diffondere notizie o immagini riguardanti minori, dovrà farsi carico della responsabilità di valutare se la pubblicazione sia davvero nell'interesse oggettivo del minore, secondo i principi e i limiti stabiliti dalla "Carta di Treviso". In linea con il Cpp e con le norme sul processo minorile, il Codice vieta la pubblicazione dei nomi (e delle immagini) dei minori coinvolti in fatti di cronaca e di particolari in grado di condurre alla loro identificazione: "Nella contravvenzione prevista dall'art. 684 c.p. - che punisce chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto, e a guisa di informazione, atti o documenti di un processo penale, di cui sia vietata la pubblicazione - l'elemento oggettivo, costituito dalla divulgazione di accadimenti oggetto di indagine penale fino a quando la legge ne tuteli la segretezza, riceve concreta ed attuale specificazione, oltre che dalla norma dell'art. 114 Cpp, anche dall'art. 13 del Dpr 22 settembre 1988, n. 448, nell'individuazione dell'atto coperto dal segreto e nella indicazione di modalità trasgressive del divieto di pubblicazione del contenuto dell'atto medesimo. In particolare, la disposizione da ultimo ricordata ricomprende nell'area del divieto tutta la vasta serie di atti, implicanti "coinvolgimento" del minore nel procedimento nella qualità di parte o di testimone, ed il cui contenuto non può essere tratto indirettamente mediante identificazione che se ne possa fare, ancorchè in ambito territoriale ristretto, attraverso la sola immagine. Non rileva, in contrario, né che l'immagine stessa derivi da una ripresa fotografica eseguita sulla strada, perché non è la tutela dell'immagine come tale che occorre considerare, ma la idoneità della stessa a collegare al soggetto raffigurato l'avvenuto suo "coinvolgimento" in indagini preliminari, né che il nome del minore fosse già noto come indagato, in quanto la notorietà del fatto non esclude il reato poiché la pubblicazione conferisce alla notizia maggiore diffusione e propagazione" (Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 1994; Riviste: Cass. Pen., 1995, 2566 , Riv. Pen., 1995, 341; Mass. Pen. Cass., 1994, fasc. 10, 128, Giust. Pen., 1995, II, 398). La tutela della personalità del minore si estende, tenuto conto della qualità della notizia e delle sue componenti, ai fatti che non siano specificamente reati. Il diritto del minore alla riservatezza (articolo 16 della Convenzione internazionale del fanciullo recepita nel nostro ordinamento con la legge n. 176/1991) deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca. Su questa linea è anche la giurisprudenza (caso Cruz): "Richiesto di un provvedimento urgente ex art. 700 Cpc a tutela della privacy e dell'immagine di un minore, il giudice, in sede di accertamento del fumus boni iuris e del periculum in mora, deve considerare pozione la protezione della personalità minorile, rispetto all'esercizio del diritto all'informazione, allorché quest'ultimo abbia a svolgersi con la pubblicazione diffusa e la divulgazione incontrollata dell'immagine del minore, balzato, non per sua volontà, alla notorietà della cronaca nazionale a seguito di vicende giudiziarie di carattere familiare (adottivo) a lui facenti capo (il minore, appena treenne e proveniente dal c.d.Terzo mondo asiatico, era stato tallonato, anche a scuola, con assiduità da fotografi e reporters collegati a mass-media di larghissima diffusione)" (Pret. Torino-Chieri, 19 dicembre 1989, Dir. Famiglia, 1990, 572). Qualora, tuttavia, per motivi di rilevante interesse pubblico e fermo restando i limiti di legge, il giornalista decida di diffondere notizie o immagini riguardanti minori, dovrà farsi carico della responsabilità di valutare se la pubblicazione sia davvero nell'interesse oggettivo del minore, secondo i principi e i limiti stabiliti dalla "Carta di Treviso". Secondo la Carta, la pubblicazione nell'interesse del minore presuppone, comunque, l'assenso dei genitori, ed è limitata "ai casi di rapimento o di bambini scomparsi". Non è conforme alle norme sulla privacy la ingiustificata pubblicazione da parte di un quotidiano di notizie riguardanti una minore della quale erano state riportati, in un articolo riguardante la sua presunta fuga da casa, oltre al nome, al cognome, all'indicazione della scuola frequentata, anche notizie riguardanti il suo stato di adozione e la sua origine etnica. Peraltro la pubblicazione di un tale dato poteva rivelarsi fortemente lesiva della personalità della minore, nel caso in cui, in ipotesi, la condizione di adottata non le fosse ancora nota o non fosse conosciuta nell'ambito dei luoghi e delle persone da lei frequentate. L'Autorità Garante, intervenendo sul delicato bilanciamento tra libertà di informazione e tutela del minore, ha ribadito la necessità che i giornalisti operino una attenta valutazione sull'oggettivo interesse dei minori quando pubblicano notizie che li riguardano. E questo anche allo scopo di evitare spettacolarizzazioni e strumentalizzazioni che possano compromettere il loro processo di maturazione e il loro libero ed armonico sviluppo del minore. Esaminando il caso sottopostole, l'Autorità ha sottolineato che il Codice di deontologia dei giornalisti, nello stabilire speciali cautele a tutela della riservatezza del minore, configura la possibilità che il giornalista divulghi dati personali affidando però a quest'ultimo la responsabilità di valutare che tale pubblicazione non sia lesiva della personalità del minore e risponda ad un suo interesse oggettivo. Alla luce di tale disposizione esiste, dunque, un margine di autonomia in capo al giornalista nell'apprezzare le modalità attraverso cui perseguire tale interesse, applicando i principi alle circostanze del caso. Le informazioni riportate nell'articolo, ha osservato inoltre l'Autorità, non rappresentavano un elemento immediatamente utile al fine di facilitare il ritrovamento della minore e la loro diffusione non risultava essenziale all'interesse pubblico della vicenda In questo modo, ha concluso il Garante, sono state violati la legge sulla privacy e il Codice deontologico, nonché il complesso delle norme in materia di adozione nella parte in cui tutelano il diritto del minore a vedere riconosciuta la propria identità e la nuova dimensione affettiva (legge 184/1993 e legge 149/2001), le quali affidano altresì ai genitori adottivi la scelta sui modi e i termini per informare il minore della sua condizione. Si sono verificati alcuni casi di violenza sessuale su minori, in relazione ai quali, in molti servizi giornalistici di stampa e televisione, le giovani sono state identificate personalmente o mediante inequivocabili riferimenti che ne rendevano agevole l'identificazione. Un tale comportamento, come il Garante ha avuto più volte occasione di sottolineare, non si pone in contrasto soltanto con i limiti stabiliti dal Codice di deontologia, ma può rappresentare innanzitutto una violazione di norme penali precedenti, poste a tutela dei minori e delle vittime della violenza sessuale. Si tratta, specificamente, dell'art.13 del codice di procedura penale per i minorenni (D.P.R. 448 del 1988) e dell'art.734 bis del codice penale introdotto dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66 sulla violenza sessuale, norme rafforzate dalla recente legge 3 agosto 1998 n. 269 sulla pedofilia. L'articolo 50 del Dlgs 196/2003 (Testo unico sui dati personali), richiamato l'articolo 13 del Dpr n. 448/1988, contiene "il divieto di pubblicazione e divulgazione con qualsiasi mezzo di notizie o immagini idonee a consentire l'identificazione di un minore si osserva anche in caso di coinvolgimento a qualunque titolo del minore in procedimenti giudiziari in materie diverse da quella penale". Il diritto di cronaca, quindi, non abbraccia la pubblicazione di notizie e immagini idonee a consentire l'identificazione di un minore. 10.10. Tutela della dignità della persona (articolo 8) - Salva l'essenzialità dell'informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell'immagine. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi. Il Codice, quindi, vieta di fornire notizie o di pubblicare immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesivi della dignità della persona; di soffermarsi su dettagli di violenza. Le eccezioni sono giustificate con la rilevanza sociale della notizia o dell'immagine. Ha scritto al riguardo il Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia (deliberazione 17 luglio 2000 che sanziona il direttore e un redattore di un settimanale milanese, i quali avevano pubblicato le generalità di un aviere violentato in caserma): "La legge professionale e la legge n. 675/1996 sulla tutela dei dati personali, - figlie entrambe dell'articolo 2 della Costituzione -, hanno al centro della loro azione la salvaguardia della dignità della persona. L'articolo 21 non sempre prevale sull'articolo 2 della Costituzione. Nel bilanciamento dei valori tutelati, succede che la difesa della dignità di una persona - coinvolta in fatti di cronaca lesivi della dignità della persona stessa - possa prevalere. In questo caso il cronista fa un passo indietro, racconta gli avvenimenti nella loro essenzialità e tace il nome della persona o delle persone ferite nella loro identità e nella loro dignità, perché la pubblicazione dei nomi e cognomi aggiungerebbe dolore al dolore sofferto, umiliazione all'umiliazione patita". L'articolo 15 della legge sulla stampa n. 47/1948 vieta di descrivere e illustrare gli avvenimenti (anche soltanto immaginari) con particolari "impressionanti o raccapriccianti". La Corte Costituzionale, con sentenza n. 293/ 2000, ha dichiarato non fondata la questione sollevata dalla Cassazione, in quanto ha ritenuto che le pubblicazioni vietate dall'articolo 15 della legge sulla stampa siano quelle lesive della dignità umana e perciò avvertibili dall'intera collettività. "La persona umana - ha precisato la Corte Costituzionale - è tutelata dall'articolo 2 della Costituzione, in base al quale deve essere interpretato l'articolo. 15 della legge sulla stampa; la descrizione dell'elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza. Quello della dignità della persona umana - ha affermato la Corte - è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull'interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale". Il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato. Le eccezioni sono collegate a rilevanti motivi di interesse pubblico o a comprovati fini di giustizia e di polizia (si pensi alla ricerca di evasi o di autori di crimini a sfondo sessuale, che possono ancora colpire). Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi. La legge n. 492/92 vieta, (esclusi i casi di pericolosità del soggetto o di pericolo di fuga o di circostanze che rendano difficile la traduzione), l'uso delle manette ai polsi. L'Ufficio del Garante ha anche condannato "alcuni organi di polizia che continuano a diffondere le foto segnaletiche degli arrestati. La raccolta di tali particolari informazioni personali - afferma il Garante - è finalizzata unicamente ad esigenze di sicurezza pubblica e di giustizia. La loro comunicazione ai mezzi di informazione fuori di tali finalità, non è più permessa dopo l'entrata in vigore della legge 675/96, che esplicitamente qualifica come "dato personale" qualsiasi informazione che consenta di identificare un soggetto, quindi anche le fotografie". Il diritto all'immagine "pur non essendo specificamente indicato dalla Costituzione deve ricondursi a quei diritti fondamentali dell'uomo, in quanto esso protegge un aspetto di quella intimità (privacy) che è ormai reputata un valore primario della persona" (Pret. Napoli, 19.5.1989). La legge 16 dicembre 1999 n. 479 sul giudice unico ha cambiato la rubrica dell'articolo 114 Cpp allargando il "divieto di pubblicazioni" dagli atti alle immagini e in particolare, con il comma 6-bis, "vieta la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta". Questa norma chiude il cerchio e completa la legge n. 492/1992 che vieta, salvo nei casi di pericolosità del soggetto o di pericolo di fuga o di circostanze che rendano difficile la traduzione, l'uso delle manette ai polsi. Il comma 6-bis nella versione originaria impediva addirittura la pubblicazione della fotografia di persone arrestate con o senza manette. Il comma 6-bis è sostanzialmente inutile perché l'articolo 8 del "Codice sulla privacy", come già riferito, proibisce a giornali (e giornalisti) la pubblicazione di foto di persone in manette. Evidentemente il Parlamento non si fida del "Codice" (e del giudice disciplinare-Ordine dei Giornalisti) e preferisce calcare la mano sul piano penalistico, ricorrendo, con l'aiuto dell'articolo 115 Cpp, ai rigori dell'articolo 684 Cp (arresto fino a 30 giorni oppure ammenda da 100 a 500mila lire). La violazione del divieto di pubblicazione di una foto di persona in manette diventa, quindi, vieppiù risarcibile sul piano civilistico una volta sanzionato il giornalista sul piano penale. L'Ufficio del Garante ha censurato anche la trasmissione di foto segnaletiche ai mezzi di informazione, senza il consenso degli interessati. La trasmissione è ammissibile solo per comprovabili necessità di indagine di polizia o di giustizia. Ciò era già scritto nell'articolo 97 della vecchia legge n. 633/1941 sul diritto di autore (norma spesso non rispettata), ma adesso è subentrata la legge n. 675 del 1996 (oggi Dlgs n. 196/2003). Secondo questa legge, le riproduzioni fotografiche delle persone devono avvenire "nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all'identità personale". Sembra evidente che "non costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca la riproduzione, contro la volontà dell'interessato, di fotografie fatte forzosamente da organi di polizia per fini di documentazione e di indagine e diffuse senza che sussistano specifiche esigenze di interesse pubblico". Nell'ambito del dibattito sui limiti etici e giuridici del diritto di cronaca, l'Ufficio del Garante invita i giornalisti a "farsi carico della necessità di non arrecare danni, spesso irreparabili, a persone semplicemente indagate od imputate, riproducendo, senza il loro consenso, fotografie destinate a fini del tutto particolari". La legge sulla privacy, comunque, non annulla la legge n. 633/1941 sul diritto d'autore. L'articolo 97 di questa legge afferma: "Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico". Sul risvolto di tale norma si suole articolare l'ampiezza del diritto di cronaca: si può pubblicare tutto ciò che è collegato a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Nel concetto di pubblicazione lecita è compresa anche la fotografia di persone che godano di notorietà o che ricoprano uffici pubblici.. Il giudice può autorizzare la pubblicazione della foto di un minore sequestrato o scomparso: in questi casi prevale "la necessità di giustizia o di polizia". 10.11. Tutela del diritto alla non discriminazione (articolo 9) - Nell'esercitare il diritto-dovere di cronaca, il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali. L'uguaglianza giuridica sancita dall'articolo 3 della Costituzione opera anche sul terreno dell'esercizio del diritto di cronaca. 10.12. Tutela della dignità delle persone malate (articolo 10) - Il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza e al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali, e si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico. La pubblicazione è ammessa nell'ambito del perseguimento dell'essenzialità dell'informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica. Le foto di Pio XII morente o della principessa Diana agonizzante sono impubblicabili perché feriscono la "dignità della persona" e perché anche "non essenziali" ai fini della descrizione degli avvenimenti. Quelle foto sono anche impubblicabili in quanto presentano "particolari impressionanti e raccapriccianti" (divieto posto dall'articolo 15 della legge sulla stampa n. 47/1948 ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293/2000 in quanto tutela la "dignità" della persona). L'Autorità Garante è intervenuta su un grave caso di violazione della riservatezza dei dati sanitari da parte di un quotidiano locale, che in un articolo ha dato notizia, con grande rilievo, dello stato di salute e della specifica malattia di cui soffrirebbe una personalità di quella regione. In particolare, nel titolo e nel corpo dell'articolo, sono state date esplicite e specifiche informazioni sul genere e sulle caratteristiche della grave malattia da cui l'interessato sarebbe affetto. Il Garante ha ricordato che il codice deontologico dei giornalisti prevede che la sfera privata delle stesse persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve venire rispettata se le notizie o i dati non sono essenziali (art. 6). L'articolo avrebbe ben potuto, infatti, fare riferimento allo stato di salute dell'interessato senza entrare in precisi dettagli sulla patologia. Per quanto riguarda la tutela della dignità delle persone malate, lo stesso codice deontologico stabilisce anche che il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, è tenuto al rispetto della sua dignità, del suo diritto di riservatezza e del suo decoro personale, specie nel caso di malattie gravi, e deve astenersi dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico (art. 10). L'Autorità ha, pertanto, disposto il blocco di questi dati, vietando al quotidiano di diffonderli ulteriormente, anche in modo indiretto. 10.13. Tutela della sfera sessuale personale (articolo 11) - Il giornalista si astiene dalla descrizione di abitudini sessuali riferite ad una determinata persona, identificata o identificabile. La pubblicazione è ammessa nell'ambito del perseguimento dell'essenzialità dell'informazione e nel rispetto della dignità della persona se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica. In sostanza è "nudo" chi occupa posti di responsabilità politica, oppure nell'amministrazione statale, oppure nella società civile. Sono riservate le parti delle conversazioni intercettate riguardanti la sfera della vita intima: questo principio è stato ribadito dal Garante a seguito di un reclamo presentato dalla figlia di un personaggio pubblico. La donna chiedeva il "blocco" delle trascrizioni delle intercettazioni di alcune conversazioni di contenuto personale diffuse e pubblicate in occasione dell'inchiesta giudiziaria che ha coinvolto il padre. Il Garante nella sua decisione "ritenendo fondato il ricorso, ha rilevato che il giornalista ha il dovere di acquisire lecitamente i documenti relativi alle trascrizioni di intercettazioni effettuate nel corso di una inchiesta giudiziaria e di utilizzarli nel rispetto delle finalità perseguite. Inoltre, la diffusione di intercettazioni telefoniche deve tener conto dei limiti del diritto di cronaca posti a tutela della riservatezza anche quando il fatto rivesta un interesse pubblico, la notizia o il dato personale pubblicato senza il consenso dell'interessato deve rispettare il principio della essenzialità dell'informazione". Pertanto, conclude la decisione del Garante, A. N. "ha diritto a che rimangano riservate quelle parti delle conversazioni intercettate che attengono a comportamenti strettamente personali non connessi alla vicenda giudiziaria o che possono riguardare la sfera della sua vita intima". Un segnale forte arriva dagli Stati Uni6ti in tema di difesa della sfera sessuale personale: "Lede la privacy di un soggetto la divulgazione della notizia del suo mutamento di sesso in assenza di prova che tale notizia risultasse da documenti pubblici, e in considerazione delle cautele adottate per celare il fatto e della insussistenza di un valore informativo della notizia" (Corte d'Appello degli Stati Uniti d'America 18-01-1983; Diaz c. Oakland Tribune; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 1986, 902 nota di PATTI). 10.14. Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali (articolo 12) - Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'articolo 24 della legge n. 675/1996. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'articolo 5. I giornalisti possono raccontare quello che risulta scritto nel Casellario giudiziale a carico di ogni persona: sentenze di condanna, ordini di carcerazione, misure di sicurezza, provvedimenti definitivi che riguardano l'applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale, dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere. Il diritto di cronaca vince in maniera ampia. 10.15. Tutela affievolita per i personaggi pubblici, ma anche "la persona non nota ha diritto al risarcimento del danno per violazione del diritto alla riservatezza, ma deve provare il pregiudizio subito" - Per quanto riguarda il campo sessuale o quello delle malattie, il Codice tutela in maniera rigida le persone comuni, ma non i personaggi pubblici, ubbidendo a questa massima giurisprudenziale: "Chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica" (Tribunale di Roma, 13 febbraio 1992, in Dir. Famiglia, 1994, I, 170, n. Dogliotti, Weiss). È indubbio che, per quanto concerne la tutela dell'identità, la riduzione totale è inammissibile anche per i personaggi pubblici. Chi ha deciso di mettersi in politica ha, comunque, una sfera di salvaguardia molto più limitata rispetto all'uomo della strada. Le nuove regole sembrano ispirate dal concetto americano di "etica pubblica", riservando "un'attenuata riservatezza per i personaggi politici e i pubblici funzionari sui quali il cittadino ha sempre diritto di essere informato". In dottrina si ritiene, infatti, che l'esercizio del "diritto di cronaca può essere tanto più penetrante quanto più elevata sia la posizione pubblica della persona nelle istituzioni, nel mondo politico, in quello economico o scientifico, nella collettività, per il riflesso che le sue condotte anche private possono assumere sulla sua dimensione pubblica" (M. Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, Cedam, Padova 1995, 108). Se, da una parte, "l'uomo pubblico" non può sottrarsi ad una verifica (anche lesiva della reputazione) cronachistica e/o critica del suo operato, dall'altra, l'esigenza di un maggiore conoscenza della persona nota "non può identificarsi nella morbosa curiosità che parte del pubblico ha per le vicende piccanti o scandalose, svoltesi nella intimità della casa della persona assurta a notorietà" (Cass. 27.5.1975, n. 2129, in Foro it., 1976, I, 2895). Su questa linea è una sentenza dei supremi giudici: "In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca può essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all'altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) che l'informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività. Il diritto di cronaca non esime di per sè dal rispetto dell'altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni nella sfera privata dei cittadini solo quando possano contribuire alla formazione della pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività. (Ha precisato la Corte che, se anche le vicende private di persone impegnate nella vita politica o sociale possono risultare di interesse pubblico quando possano da esse desumersi elementi di valutazione sulla personalità o sulla moralità di chi debba godere della fiducia dei cittadini, non è certo la semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla vita privata altrui, perché è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività)" (Cass. pen., sez. V, 10 dicembre 1997, n. 1473; Riviste: Cass. Pen., 1999, 3135, n. Angelini; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 595). Deve far riflettere anche una sentenza molto datata dei supremi giudici: "E' illecita la pubblicazione per fine di lucro di un servizio fotografico su aspetti intimi di persona nota, anche se la pubblicazione non rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione o al decoro della persona stessa, in quanto tale pubblicazione non è giustificata da un effettivo interesse sociale all'informazione, corrispondente ad una sempre maggiore conoscenza della persona nota e che non può identificarsi nella morosa curiosità che parte del pubblico ha per le vicende piccanti o scandalose svoltesi nella intimità della casa della persona assurta a notorietà. Nei confronti di persone note il diritto di cronaca deve ritenersi circoscritto dai limiti che l'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale ha elaborato: 1) verità del fatto esposto; 2) rispondenza ad un interesse sociale all'informazione; 3) rispetto della riservatezza ed onorabilità (Cass. 27 maggio, 1975, n. 2129). Per quanto concerne la pubblicazione di notizie attinenti la condotta di un magistrato, é stato osservato che "anche la conoscenza di comportamenti tenuti in privato (...) può rivestire il carattere della utilità sociale qualora i comportamenti stessi siano idonei a valere come indice di valutazione rispetto all'esercizio della funzione esplicata dal soggetto medesimo" (Cass., 23.4.1986, Emiliani, in Giust. pen., 1987, II, 699). Il diritto di cronaca vince sui personaggi pubblici. Questo principio, ribadito nel 2002 dal Consiglio dell'Ordine della Lombardia, è collegato a una vicenda che ha come protagonista un'ex consigliere comunale della Lega Nord, che ha denunciato cinque cronisti e il direttore responsabile del Corriere della Sera. Secondo il Consiglio, chi ha deciso di mettersi in politica ha, comunque, una sfera di salvaguardia molto più limitata rispetto all'uomo della strada. La Cassazione ha dettato le regole, ribadite costantemente negli anni, alle quali devono attenersi i cronisti: "In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca può essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all'altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) che l'informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività. Il diritto di cronaca non esime di per sé dal rispetto dell'altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni nella sfera privata dei cittadini solo quando possano contribuire alla formazione della pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività)" (Cass. pen., sez. V, 10 dicembre 1997, n. 1473; Riviste: Cass. Pen., 1999, 3135, n. Angelini; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 595). L'interesse generale all'informazione sugli avvenimenti politici comprime la tutela della reputazione e può legittimare la critica di un fatto ancora da verificarsi, ma probabile, nell'interesse della collettività. Questo principio è stato affermato dalla Cassazione (Sezione quinta penale n. 31037 del 9 agosto 2001). In sostanza l'autore di una diffamazione con il mezzo della stampa non è punibile se ha agito nell'esercizio del diritto di cronaca e di critica, purché non abbia superato i limiti: a) dell'interesse pubblico all'informazione; b) della continenza, intesa come correttezza formale della notizia o della critica; c) della verità della notizia. In generale, per quanto concerne il diritto di critica, è ormai consolidato il principio secondo il quale "in tema di diffamazione a mezzo stampa l'esercizio del diritto di critica presuppone una notizia che ad esso preesiste (momento che attiene ancora al diritto di cronaca), con la conseguenza che sussiste l'obbligo dell'articolista di esercitare la propria critica esclusivamente su fatti del cui nucleo fondamentale ha verificato la corrispondenza al vero" (Cass. Sez. Quinta Penale n. 6548 del 1998)". Il diritto di cronaca e di critica nell'esercizio dell'attività politica, si legge nella sentenza citata, è una manifestazione della libertà di pensiero (art. 21 Cost.), ma è anche un'estrinsecazione della libertà di "concorrere con metodo democratico alla formazione della politica nazionale". Il metodo democratico, esplicitato come regola di gestione della politica nell'articolo 49 della Costituzione, non comporta solamente l'attribuzione ad ogni cittadino dei diritti di elettorato attivo e passivo (art. 46 e 51 Cost.), di costituzione e partecipazione ad associazioni politiche (art. 49 Cost.), di interpello delle Camere (art. 50 Cost.), ma "comporta anche il rispetto di altre regole necessarie al regime democratico". "Tra queste - si legge nella sentenza - vi è quella di garantire alla collettività, attraverso i mezzi di informazione di massa, la conoscenza dei fatti di rilevanza politica. Essa opera anche come criterio ermeneutico dell'articolo 51 Cp, in forza del quale l'interprete deve tener conto della particolare rilevanza dell'interesse pubblico e della conseguente minore tutela dell'onore personale (che, inteso in senso oggettivo, comprende anche la reputazione). Il limite della verità è meno rigoroso per la necessità di una più ampia base di informazione di cui ha bisogno la collettività per potere valutare criticamente l'azione delle forze politiche, la gestione dell'apparato politico amministrativo ed ogni altro fatto o evento rilevante di natura politica. Si deve perciò concludere che in materia politica l'interesse all'informazione (per la maggiore rilevanza del suo oggetto) comprime la tutela della reputazione e legittima anche la critica di un fatto ancora da verificarsi, ma probabile in base alla ragionevole valutazione di altri fatti invece certi, a condizione, peraltro: a) che il fatto in questione sia attinente alla vita politica nazionale o locale e rivesta una sufficiente grado di interesse per la collettività (requisito della pertinenza); b) che la rappresentazione di quel fatto come probabile sia ragionevole e derivi dalla concatenazione logica di fatti già accertati e correttamente riferiti (requisito della continenza)". Va richiamata, però, una importante sentenza della Cassazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 4366 del 25 marzo 2003) secondo la quale anche "la persona non nota ha diritto al risarcimento del danno per violazione del diritto alla riservatezza, ma deve provare il pregiudizio subito". Il diritto alla riservatezza consiste nella tutela di situazioni e di vicende personali e familiari dalla curiosità e dalla conoscenza pubblica. Si tratta di situazioni che solo quegli che le ha vissute può decidere di pubblicizzare e che ha diritto di difendere da ogni ingerenza, sia pure condotta con mezzi leciti e non implicante danno all'onore o alla reputazione o al decoro, che non trovi giustificazione nell'interesse pubblico alla divulgazione. La fonte primaria di tale diritto, ancorché esso sia previsto in altre e più specifiche norme, è l'articolo 2 della Costituzione, e la sua violazione dà luogo a fatto illecito i cui effetti pregiudizievoli sono risarcibili. La tutela del diritto alla riservatezza può essere richiesta, davanti al giudice sia dalla persona nota che dalla persona non nota. Tuttavia per la persona nota è più facile che operi la previsione dell'articolo 97 della legge sul diritto d'autore ovvero che la pubblicazione della fotografia possa avvenire anche senza il consenso dell'interessato ovvero legittimamente, giacché si accompagna ad una esigenza pubblica di informazione, costituzionalmente tutelata. In caso di violazione del diritto alla riservatezza il pregiudizio, morale o patrimoniale, che ne consegue deve essere provato secondo le regole ordinarie. La parte che chiede il risarcimento del danno prodotto da tale illecito deve provare il pregiudizio alla sua sfera patrimoniale e personale, quale ne sia l'entità e quale che sia la difficoltà di provare tale entità. 11. Segreto professionale. Con le sentenze Goodwin e Roemen la Corte di Strasburgo impone l'alt alle perquisizioni nelle redazioni a tutela delle fonti dei giornalisti. Pm e giudici italiani devono indagare solo sui loro collaboratori (che "spifferano" le notizie) e non su chi riceve l'informazione. 11. 1. Il giornalista come mediatore intellettuale tra il fatto e i lettore. Il segreto professionale gli consente di ricevere notizie, mentre le fonti sono "garantite" - Non esiste il concetto giuridico di giornalismo. Il concetto, abitualmente estrapolato dall'articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 (quello dedicato alla deontologia della categoria), si riassume nella frase "giornalismo=informazione critica". Il primo comma dell'articolo 2, infatti, dice: "È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica.....". Questo vuoto è stato, però, riempito dalla giurisprudenza: "Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione. Il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso...... differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della dovuta attenzione e considerazione" (Cass. Civ., sez. lav., 20 febbraio 1995, n. 1827). Dall'insieme delle norme si ricava che il giornalista raccoglie, commenta e elabora notizie legate all'attualità e che è tenuto ad assicurare (ai cittadini) un'informazione "qualificata e caratterizzata (secondo la sentenza n. 112/1993 della Corte costituzionale, ndr) da obiettività, imparzialità, completezza e correttezza; dal rispetto della dignità umana, dell'ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori nonché dal pluralismo delle fonti cui (i giornalisti, ndr) attingono conoscenze e notizie in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni, avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti". Il pluralismo delle fonti a sua volta ha un'interfaccia che si chiama segreto professionale. Nel nostro ordinamento la tutela del segreto professionale viene tradizionalmente fatto risalire all'articolo 622 del Codice penale del 1930 (in vigore), che punisce la rivelazione del segreto professionale. Il divieto di divulgare la fonte della notizia è, invece, un principio giuridico, che ha festeggiato i 40 anni nel 2003. Giornalisti ed editori, in base all'articolo 2 (comma 3) della legge professionale n. 69/1963, "sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse". Tale norma consente al giornalista di ricevere notizie, mentre le fonti sono "garantite". Anche l'articolo 138 Del Testo unico sulla privacy (Dlgs n. 196/2003) tutela il segreto dei giornalisti sulla fonte delle notizie, quando afferma che "restano ferme le norme sul segreto professionale degli esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia". La violazione della regola deontologica del segreto sulla fonte fiduciaria comporta responsabilità disciplinare (articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963). Il rispetto della segretezza della fonte fiduciaria della notizia, però, non appare assoluto. L'articolo 200 del Codice di procedura penale del 1988 stabilisce, per quanto concerne il rapporto tra obbligo a deporre avanti al giudice e segreto professionale, che il giornalista può opporre il segreto professionale sui nomi delle persone dalle quali egli ha avuto notizie di carattere fiduciario nell'esercizio della professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata soltanto attraverso l'identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. Il segreto professionale può, quindi, essere rimosso con "comando" del giudice a condizione che: a) la notizia che proviene dalla fonte fiduciaria sia indispensabile ai fini della prova del reato per cui si procede; b) l'accertamento della veridicità della notizia possa avvenire soltanto tramite l'identificazione della fonte fiduciaria (Tribunale di Alba, sentenza 25 gennaio 2001, n. 601/2000 Reg. gen.). In particolare il terzo comma dell'articolo 200 del Cpp enuncia: "Le disposizioni... si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell'Albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell'esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare le fonti delle sue informazioni". I pubblicisti e i praticanti, esclusi dai vincoli dell'articolo 200 del Codice di procedura penale, non possono, quindi, davanti al giudice, come i giornalisti professionisti, avvalersi delle norme citate per "coprire" la fonte fiduciaria delle loro notizie. Ma è pur vero che gli stessi sono tenuti a rispettare l'articolo 2 (comma 3) della legge n. 69/1963 sull'ordinamento della professione di giornalista: conseguentemente possono invocare il segreto sulle fonti. 11. 2. Segreto sulle fonti: "La norma assicura una piena tutela, consentendo una deroga soltanto in via di eccezione" (Tribunale penale di Treviso). Anche la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo protegge le fonti dei giornalisti - Un giudice (mai un Pm) può ordinare, come riferito, a un giornalista professionista, in base all'articolo 200 del Cpp, di "indicare la fonte delle sue informazioni se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte della notizia". Bisogna sottolineare che in sede giurisprudenziale è affiorato un orientamento più favorevole alle ragioni dei giornalisti: "La norma di cui al comma 3 dell'art. 200 Cpp deve intendersi riferita all'accertamento della fondatezza della notizia pubblicata, in quanto funzionale all'esame della sua veridicità che può trovare l'unico strumento nella identificazione della fonte fiduciaria. Solo in tale circostanza quindi il giudice, al fine di verificare la rispondenza della notizia indispensabile per la prova di un reato per cui si procede, potrebbe ordinare al giornalista di indicare la sua fonte, purché sia l'unico strumento investigativo a disposizione" (Pret. Roma, 21/02/1994). I giornalisti continuano, però, nonostante le timide aperture interpretative, ad opporre il segreto professionale, che è salvaguardato anche dall'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo. L'articolo 10 (Libertà di espressione), - ripetendo le parole della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo del 1948 e del Patto sui diritti politici di New York del 1966 -, recita: " Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere". La libertà di ricevere le informazioni comporta, come ha scritto la Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo, la protezione assoluta delle fonti dei giornalisti. Una difesa forte del segreto dei giornalisti emerge dalla sentenza 14 gennaio 2000 del Tribunale penale di Treviso (n. 252/1999 Reg. gen.): "Nulla è risultato circa l'identità dell'informatore perché tutti i giornalisti indicati come testi si sono avvalsi del segreto professionale. Il Pm ha chiesto che gli stessi venissero obbligati, così come previsto dall'articolo 200 (terzo comma) Cpp, a deporre sul punto, ma il collegio ha respinto l'istanza. La norma appena menzionata assicura, invece, una piena tutela al segreto professionale dei giornalisti, consentendo una deroga soltanto in via di eccezione, e quindi di stretta interpretazione. Prevede l'imposizione dell'obbligo a deporre in presenza - congiunta - di due precisi requisiti: quello dell'impossibilità di accertare la veridicità della notizia se non attraverso l'identificazione della fonte della stessa e quello dell'indispensabilità della notizia ai fini della prova del reato per il quale si procede. Se questi sono gli stretti limiti di operatività della deroga, sembra evidente che l'obbligo a deporre sarebbe stato imposto non già ad accertare la veridicità della notizia (che pacificamente in questo caso erano vere e non richiedevano alcuna verifica in tal senso) , bensì ad individuare l'autore del reato di rivelazione di segreti (del quale, oltretutto, il giornalista avrebbe potuto eventualmente essere anche partecipe), violando così la tutela del segreto sulle fonti giornalistiche accordata dal legislatore". 11.3. C'è differenza tra il segreto professionale dei giornalisti e quello degli altri professionisti - Medici, chirurghi, avvocati, sacerdoti, notai, consulenti tecnici, farmacisti e ostetriche, dottori e ragionieri commercialisti, consulenti del lavoro, dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze sono tenuti a non divulgare notizie ricevute sotto l'impegno del segreto professionale. I giornalisti, invece, sono eticamente obbligati a rendere pubbliche (sulla stampa, per agenzia, per tv o per radio, per web) le notizie ricevute, ma, con gli editori, in base all'articolo 2 della legge professionale e all'articolo 13 della legge sulla privacy, sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse. Gli uni non divulgano le notizie, gli altri (i giornalisti) devono pubblicare e tutelare soltanto la fonte delle notizie pubblicate. 11.4. Sentenza Goodwin: la Corte di Strasburgo difende il segreto professionale dei giornalisti (su questa linea anche il Parlamento europeo) - La Convenzione europea dei diritti dell'Uomo (legge 4 agosto 1955 n. 848) con l'articolo 10, come riferito, tutela espressamente le fonti dei giornalisti, stabilendo il diritto a "ricevere" notizie. Lo ha spiegato la Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo con la sentenza che ha al centro il caso del giornalista inglese William Goodwin (Corte europea diritti dell'Uomo 27 marzo 1996, Goodwin c. Regno Unito, v. Tabloid n. 1/2000 n. Peron). William Goodwin, giornalista inglese, aveva ricevuto da una fonte fidata ed attendibile alcune informazioni su una società di programmi elettronici (la Tetra Ltd). In particolare il giornalista rivelò che tale società aveva contratto numerosi debiti e vertiginose perdite. La società Tetra per evitare i danni che sarebbero potuti derivarle dalla divulgazione di tali notizie presentò all'alta Corte di Giustizia inglese un ricorso con il quale non solo chiedeva che fosse vietata la pubblicazione dell'articolo in questione, ma chiedeva altresì che il giornalista fosse condannato a rivelare la fonte delle informazioni ricevute al fine di evitare nuove "fughe di notizie". Le richiesta della Tetra furono accolte sia dall'alta Corte che dalla corte d'Appello, secondo le quali il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche ben può essere limitato "nell'interesse0 della giustizia, della sicurezza nazionale nonché a fini di prevenzione di disordini o di delitti". Il giornalista, tuttavia, non eseguì l'ordine di divulgazione della fonte - posto che in tale modo la stessa si sarebbe "bruciata" - e presentò ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo, denunciando la violazione dell'articolo 10 della Convenzione. La Corte di Strasburgo, con sentenza 27 marzo 1996, muovendo dal principio che ad ogni giornalista deve essere riconosciuto il diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che "di tale diritto fosse logico e conseguente corollario anche il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul presupposto che l'assenza di tale protezione potrebbe dissuadere le fonti non ufficiali dal fornire notizie importanti al giornalista, con la conseguenza che questi correrebbe il rischio di rimanere del tutto ignaro di informazioni che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività". Questa sentenza della Corte di Strasburgo è l'altra faccia di una sentenza (la n. 11/1968) della nostra Corte costituzionale: "Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l'esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare". La decisione del caso "Goodwin" è particolarmente interessante anche perché ha concorso a dissipare i dubbi nascenti da una interpretazione letterale dell'articolo 10 della Convenzione, che si limita a specificare che la libertà di espressione comprende sia il diritto passivo a ricevere delle informazioni sia il diritto attivo di fornirle, senza, però, che sia menzionato il diritto del giornalista di cercare e procurarsi notizie tramite proprie fonti di informazioni. Tale lacuna aveva, difatti, sollevato il quesito - attualmente sciolto dalla Corte - che quest'ultimo diritto non rientrasse nell'ambito del diritto alla libertà e pertanto non fosse ricompreso nell'ambito della sua tutela. Ma del resto la tendenza espressa dalla Corte con tale decisione trova ulteriore conferma e riscontro con le tendenze espresse al riguardo dallo stesso Parlamento Europeo, il quale - in una risoluzione del 18 gennaio 1994 sulla segretezza delle fonti d'informazione dei giornalisti - ha dichiarato che "il diritto alla segretezza delle fonti di informazioni dei giornalisti contribuisce in modo significativo a una migliore e più completa informazione dei cittadini e che tale diritto influisce di fatto anche sulla trasparenza del processo decisionale". In sintesi il segreto professionale è indispensabile sia nello svolgimento della professione giornalistica che nell'esercizio del diritto di ogni cittadino a ricevere informazioni, mentre per contro le uniche eccezioni ammissibili devono essere ragionevoli e in ogni caso limitate, poiché "il mancato rispetto del segreto professionale limita in modo indiretto lo stesso diritto all'informazione" Anche la nostra Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/1981, ha, come riferito, riconosciuto solennemente "l'esistenza di una vera e propria libertà di cronaca dei giornalisti (comprensiva dell'acquisizione delle notizie) e di un comune interesse all'informazione, quale risvolto passivo della libertà di manifestazione del pensiero". 11.5. La Corte di Strasburgo, con la sentenza Roemen, impone l'alt alle perquisizioni negli uffici dei giornalisti e dei loro avvocati a tutela delle fonti dei giornalisti - L'ordinamento europeo impedisce ai giudici nazionali di ordinare perquisizioni negli uffici e nelle abitazioni dei giornalisti nonché nelle "dimore" dei loro avvocati a caccia di prove sulle fonti confidenziali dei cronisti: "La libertà d'espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e le garanzie da concedere alla stampa rivestono un'importanza particolare. La protezione delle fonti giornalistiche è uno dei pilastri della libertà di stampa. L'assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall'aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni d'interesse generale. Di conseguenza, la stampa potrebbe essere meno in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di "cane da guardia" e il suo atteggiamento nel fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultare ridotto". Questi sono i principi sanciti nella sentenza "Roemen" 25 febbraio 2003 (Procedimento n. 51772/99) della quarta sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo. Il segreto professionale dei giornalisti è tutelato solennemente dall'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, mentre l'articolo 8 della stessa Convenzione protegge il domicilio dei legali. I protagonisti di questa vicenda (causa Roemen e Schmit contro Lussemburgo) sono due cittadini lussemburghesi, il giornalista Robert Roemen e l'avvocato Anne-Marie Schmit. La Corte di Strasburgo ha dichiarato che c'è stata la violazione degli articoli 8 e 10 della Convenzione e conseguentemente ha condannato il Granducato del Lussemburgo a pagare al giornalista e all'avvocato 4mila euro a testa per i danni morali nonché le spese (11.629 euro) al cronista. Il 21 luglio 1998, Robert Roemen ha pubblicato un articolo intitolato "Minister W. der Steuerhinterziehung überführt" ("Il ministro W. accusato di frode fiscale") sul quotidiano "Lëtzëbuerger Journal". Vi sosteneva che "il ministro aveva infranto il settimo, l'ottavo e il nono comandamento con frodi riguardanti l'IVA e osservava che ci si sarebbe potuti aspettare che un uomo politico di destra prendesse più sul serio i principi elaborati con tanta cura da Mosè. Precisava che il ministro era stato oggetto di una sanzione fiscale di 100.000 franchi lussemburghesi. Concludeva che un tale atteggiamento era ancor più vergognoso poiché proveniente da una personalità che doveva servire da esempio". La reazione del ministro era scattata sul fronte amministrativo e penale. Così i giudici avevano ordinato di perquisire gli studi e gli uffici del giornalista e dell'avvocato alla ricerca di indizi tali da portare gli inquirenti alla identificazione delle "gole profonde" annidate nell'amministrazione finanziaria del Granducato. Si legge nella sentenza: "Secondo l'opinione della Corte il presente caso si distingue dal caso Goodwin in un punto fondamentale. In quest'ultimo caso l'ingiunzione (di un tribunale inglese, ndr) aveva intimato al giornalista di rivelare l'identità del suo informatore, mentre nel caso in oggetto sono state effettuate perquisizioni presso il domicilio e il luogo di lavoro del giornalista. La Corte giudica che delle perquisizioni aventi per oggetto di scoprire la fonte di un giornalista costituiscono - anche se restano senza risultato - un'azione più grave dell'intimazione di divulgare l'identità della fonte. Infatti, gli inquirenti che, muniti di un mandato di perquisizione, sorprendono un giornalista nel suo luogo di lavoro, detengono poteri d'indagine estremamente ampi poiché, per definizione, possono accedere a tutta la documentazione in possesso del giornalista. La Corte, che non può fare altro se non rammentare che "i limiti definiti per la riservatezza delle fonti giornalistiche esigono da parte [sua] (...) l'esame più scrupoloso possibile" (vedi supra il provvedimento Goodwin citato, § 40), è quindi del parere che le perquisizioni effettuate presso il giornalista erano ancora più lesive nei confronti della protezione delle fonti di quelle adottate nel caso Goodwin.In considerazione di quanto precede la Corte giunge alla conclusione che il Governo non ha dimostrato che l'equilibrio degli interessi in oggetto, vale a dire, da un lato, la protezione delle fonti e, dall'altro, la prevenzione e repressione dei reati, sia stato salvaguardato. A tale scopo rammenta che "le considerazioni di cui devono tenere conto le istituzioni della Convenzione per esercitare il loro controllo nell'ambito del par. 2 dell'art.10 fanno pendere la bilancia degli interessi in oggetto in favore di quello della difesa della libertà di stampa in una società democratica" (vedi supra il provvedimento Goodwin citato, § 45)". L'avvocato, invece, lamenta un'aggressione ingiustificata al suo diritto al rispetto del suo domicilio a causa della perquisizione effettuata presso il suo studio. Sostiene inoltre che il sequestro avvenuto in tale occasione ha violato il diritto al rispetto della "corrispondenza fra l'avvocato e il suo cliente". La Corte riconosce che "il mandato di perquisizione concedeva quindi agli inquirenti dei poteri piuttosto estesi". Inoltre, e soprattutto, la Corte è del parere che lo scopo della perquisizione era infine quello di svelare la fonte del giornalista: "Di conseguenza, la perquisizione della scrivania dell'avvocato ha avuto una ripercussione sui diritti garantiti al giornalista dall'articolo 10 della Convenzione. La Corte giudica peraltro che la perquisizione della scrivania è stata sproporzionata rispetto allo scopo previsto, sostanzialmente tenendo conto della rapidità con cui è stata effettuata". 11.6. La tutela delle fonti delle giornalisti a livello continentale - Con la raccomandazione n° R (2000) 7, adottata l'8 marzo 2000, anche il Consiglio d'Europa ha voluto tutelare solennemente le fonti dei giornalisti, affermando: "Il diritto dei giornalisti di non rivelare le loro fonti fa parte integrante del loro diritto alla libertà di espressione garantito dall'articolo 10 della Convenzione. L'articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo, s'impone a tutti gli Stati contraenti. Vista l'importanza, per i media all'interno di una società democratica, della confidenzialità delle fonti dei giornalisti, è bene tuttavia che la legislazione nazionale assicuri una protezione accessibile, precisa e prevedibile. E' nell'interesse dei giornalisti e delle loro fonti come in quello dei pubblici poteri disporre di norme legislative chiare e precise in materia. Queste norme dovrebbero ispirarsi all'articolo 10, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo, oltre che alla presente Raccomandazione. Una protezione più estesa della confidenzialità delle fonti d'informazione dei giornalisti non è esclusa dalla Raccomandazione. Se un diritto alla non-divulgazione esiste, i giornalisti possono legittimamente rifiutare di divulgare delle informazioni identificanti una fonte senza esporsi alla denuncia della loro responsabilità sul piano civile o penale o a una qualunque pena cagionata da questo rifiuto". Questa raccomandazione concorre, con la risoluzione del Parlamento europeo e con le sentenze della Corte dei Strasburgo, a formare uno "spazio giuridico europeo", che fa del segreto professionale dei giornalisti un caposaldo della libertà di stampa e del diritto dei cittadini all'informazione. 11.7. Le norme della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo sono di immediata operatività nel nostro Paese - La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali rappresenta un meccanismo di protezione internazionale dei diritti dell'uomo particolarmente efficace. Le norme della Convenzione sono di immediata operatività nel nostro Paese: "Le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, salvo quelle il cui contenuto sia da considerarsi così generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate, sono di immediata applicazione nel nostro Paese e vanno concretamente valutate nella loro incidenza sul più ampio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento nell'ordinamento italiano; la 'precettività' in Italia delle norme della Convenzione consegue dal principio di adattamento del diritto italiano al diritto internazionale convenzionale per cui ove l'atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz'altro creare obblighi e diritti, l'adozione interna del modello di origine internazionale è automatica (adattamento automatico), ove invece l'atto internazionale non contenga detto modello le situazioni giuridiche interne da esso imposte abbisognano, per realizzarsi, di una specifica attività normativa dello Stato" (Cass., sez. un. pen., 23 novembre 1988; Parti in causa Polo Castro; Riviste: Cass. Pen., 1989, 1418, n. Bazzucchi; Riv. Giur. Polizia Locale, 1990, 59; Riv. internaz. diritti dell'uomo, 1990, 419). Anche la Corte costituzionale (sentenza n. 10 del 19 gennaio 1993) si è pronunciata autorevolmente in tale senso, specificando che la legislazione con cui la Convenzione è entrata in vigore in Italia consiste in una normativa che, pur avendo forza di legge, deriva "da una fonte riconducibile a una competenza atipica" e pertanto risulta "insuscettibile di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria". Ribadiscono ancora i supremi giudici della prima sezione penale, che si pongono su di una linea di continuità con gli enunciati delle Sezioni unite del 1988: "Le norme della Convenzione europea, in quanto principi generali dell'ordinamento, godono di una particolare forma di resistenza nei confronti della legislazione nazionale posteriore" (Cass. pen., sez. I, 12 maggio 1993; Parti in causa Medrano; Riviste Cass. Pen., 1994, 440, n. Raimondi; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848; Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, art. 86). La suprema magistratura civile è dello stesso avviso: "Le norme della Convenzione europea sui diritti dell'Uomo, nonché quelle del primo protocollo addizionale, introdotte nell'ordinamento italiano con l. 4 agosto 1955 n. 848, non sono dotate di efficacia meramente programmatica. Esse, infatti, impongono agli Stati contraenti, veri e propri obblighi giuridici immediatamente vincolanti, e, una volta introdotte nell'ordinamento statale interno, sono fonte di diritti ed obblighi per tutti i soggetti. E non può dubitarsi del fatto che le norme in questione - introdotte nello ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione, non possono ritenersi abrogate da successive disposizioni di legge interna, poiché esse derivano da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali, sono insuscettibili di abrogazione o modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria" (Cass. civ., sez. I, 8 luglio 1998, n. 6672; Riviste: Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1998, 1380, n. Marzanati; Giust. Civ., 1999, I, 498; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848). Anche la giustizia amministrativa ritiene che "la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, resa esecutiva con la l. 4 agosto 1955 n. 848, sia direttamente applicabile nel processo amministrativo" (Tar Lombardia, sez. III, Milano 12 maggio 1997 n. 586; Parti in causa Soc. Florenzia c. Iacp Milano e altro; Riviste Foro Amm., 1997, 1275,, 2804, n. Perfetti; Colzi; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848, artt. 6 e 13 L 4 agosto 1955 n. 848). La Convenzione deve il suo successo al fatto di fondarsi su un sistema di ricorsi - sia da parte degli Stati contraenti sia da parte degli individui - in grado di assicurare un valido controllo in ordine al rispetto dei principi fissati dalla Convenzione stessa. La Corte europea dei diritti dell'Uomo è in sostanza un tribunale internazionale istituito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali al quale può essere proposto ricorso per la violazione di diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sia dagli Stati contraenti e sia dai cittadini dei singoli Stati. Non solo gli articoli della Convenzione quant'anche le sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell'Uomo, che della prima è diretta emanazione, sono vincolanti per gli Stati contraenti. "Le Alte Parti contraenti - dice l'articolo 46 della Convenzione - si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti". Va detto anche che gli articoli della Convenzione operano e incidono unitamente alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo ne dà attraverso le sentenze. Le sentenze formano quel diritto vivente al quale i giudici dei vari Stati contraenti sono chiamati ad adeguarsi sul modello della giustizia inglese. "La portata e il significato effettivo delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli non possono essere compresi adeguatamente senza far riferimento alla giurisprudenza. La giurisprudenza diviene dunque, come la Corte stessa ha precisato nel caso Irlanda contro Regno Unito (sentenza 18 gennaio 1978, serie A n. 25, § 154) fonte di parametri interpretativi che oltrepassano spesso i limiti del caso concreto e assurgono a criteri di valutazione del rispetto, in seno ai vari sistemi giuridici, degli obblighi derivanti dalla Convenzione....i criteri che hanno guidato la Corte in un dato caso possono trovare e hanno trovato applicazione, mutatis mutandis, anche in casi analoghi riguardanti altri Stati" (Antonio Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell'Uomo: considerazioni introduttive, in Il Corriere giuridico, Ipsoa, n. 5/1999, pagina 650). D'altra parte, dice l'articolo 53 della Convenzione, "nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Paese contraente o in base ad ogni altro accordo al quale tale Parte contraente partecipi". Vale conseguentemente, con valore vincolante, l'interpretazione che della Convenzione dà esclusivamente la Corte europea di Strasburgo. Non a caso il Consiglio d'Europa, nella raccomandazione R(2000)7 sulla tutela delle fonti dei giornalisti, ha scritto testualmente: "L'articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo, s'impone a tutti gli Stati contraenti". Su questa linea si muove il principio affermato il 27 febbraio 2001 dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo: "I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo" (in Fisco, 2001, 4684). 11. 8. I giornalisti italiani devono rifiutarsi di rispondere ai giudici sul segreto professionale, invocando, con le leggi nazionali, la protezione dell'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e le sentenze Goodwin e Roemen della Corte di Strasburgo. Il Codice di procedura penale (articolo 200) deve recepire Strasburgo. Pm e Gip devono indagare soltanto su chi (pubblico ufficiale) "spiffera" la notizia e non su chi (giornalista) la riceve - E' diritto insopprimibile dei giornalisti quello di raccontare quel che accade, fatti e notizie su questioni di interesse generale. Questo principio, che è l'incipit dell'articolo 2 della legge professionale dei giornalisti italiani, è consacrato in una sentenza della Corte di Strasburgo. La libertà di scrivere è sacra e cammina di pari passo con l'osservanza della deontologia. Il rispetto del segreto professionale è una regola fondamentale perché sul rovescio garantisce il diritto dei cittadini all'informazione: "E' diritto dei giornalisti quello di comunicare informazioni su questioni di interesse generale, purché ciò avvenga nel rispetto dell'etica giornalistica, che richiede che le informazioni siano espresse correttamente e sulla base di fatti precisi e fonti affidabili; costituisce, pertanto, un limite irragionevole alla libertà di stampa la condanna per ricettazione di giornalisti che, attenendosi alle norme deontologiche, abbiano pubblicato documenti di interesse generale pervenuti loro in conseguenza del reato di violazione di segreto professionale da altri commesso (nella specie, copia delle denunzie dei redditi di un importante manager francese)" (Corte europea diritti dell'Uomo, 21 gennaio 1999; Parti in causa Comm. europea dir. uomo c. Governo francese e altro; Riviste: Foro It., 2000, IV, 153). La Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e le sentenze di Strasburgo rendono forte il lavoro del cronista. Le vicende Goodwin e Romen sono episodi che assumono valore strategico. Quelle sentenze possono essere "usate", quando i giudici nazionali mettono sotto inchiesta, sbagliando, i giornalisti, che si avvalgono del segreto professionale. I giornalisti devono rifiutarsi di rispondere ai giudici in tema di segreto professionale, invocando, con le norme nazionali (legge n. 69/1963 e dlgs n. 196/2003), la protezione dell'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo nonché le sentenze Goodwin e Roemen della Corte di Strasburgo. Questa linea è l'unica possibile anche per evitare, come scrive il Tribunale penale di Treviso, di finire sulla graticola dell'incriminazione per violazione del segreto d'ufficio in concorso con pubblici ufficiali (per lo più ignoti), cioè con coloro che, - magistrati, cancellieri o ufficiali di polizia giudiziaria -, hanno "spifferato" le notizie ai cronisti. In effetti l'eventuale responsabilità, collegata alla fuga di notizie, grava solo sul pubblico ufficiale che diffonde la notizia coperta da vincoli di segretezza e non sul giornalista che la riceve e che, nell'ambito dell'esercizio del diritto-dovere di cronaca, la divulga. Va affermato il principio secondo il quale il giornalista, che riceva una notizia coperta da segreto, può pubblicarla senza incorrere nel reato previsto dall'articolo 326 del Cp. E' palese la differenza con il reato di corruzione, che colpisce sia il corrotto sia il corruttore. L'articolo 326, invece, punisce solo chi (pubblico ufficiale) viola il segreto e non chi (giornalista) riceve l'informazione e la fa circolare. Ferma restando, ad ogni modo, la prerogativa del giornalista di non rivelare l'identità delle proprie fonti. Il giornalista, che svela le sue fonti, rischia il procedimento disciplinare al quale non può, comunque, sfuggire per l'evidente violazione deontologica. Una lettura ragionevole dell'articolo 326 del Cp evita l'incriminazione (assurda) del giornalista per concorso nel reato (con il pubblico ufficiale..loquace) e le perquisizioni, arma ormai spuntata dopo la sentenza "Roemen" della Corte di Strasburgo.. Il Codice di procedura penale, in base alla relativa legge-delega, "deve adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale". Il Parlamento in sostanza deve calare nel Codice le sentenze Goodwin e Roemen nonché l'articolo 10 della Convenzione, abolendo il potere del Gip di interrogare il giornalista. Finirà la storia dei giornalisti arrestati e condannati perché difendono il segreto professionale anche come cittadini europei? L'articolo 200 del Cpp afferma il diritto del giornalista professionista al segreto sulle sue fonti fiduciarie, ma nel contempo autorizza il giudice a interrogarlo sulle sue fonti fiduciarie. Potere, questo, che fa a pugni con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Il Parlamento deve sancire una volta per tutte la regola in base alla quale il giornalista ha diritto al segreto professionale come gli altri professionisti. Punto e basta. Non una parola in più. Strasburgo ha spiegato perché è necessaria ed urgente questa svolta. 12. Conclusioni. Il monito di Walter Tobagi contro la "superinformazione" e i "Comitati nazionali e regionali Giustizia e Stampa" di Adolfo Beria di Argentine. Il giornalista (come l'avvocato) parte nel procedimento penale. "I doveri dei giornalisti in rapporto al diritto di cronaca (in particolare giudiziaria) e di critica": un tema suggestivo, ma anche operativo, concreto. Incrocio i due temi insiti nella traccia di questo dibattito. I magistrati come i giornalisti sono responsabili dell'informazione che esce dai Palazzi di Giustizia. Anche per i giudici il giornalismo deve essere inteso modernamente come servizio pubblico reso ai cittadini. I giudici, per la loro parte, devono concorrere con i giornalisti ad assicurare ai cittadini una informazione corretta, completa, improntata alla verità, soprattutto sui temi di utilità sociale e di rilievo pubblico. Non è possibile che si vada avanti in questo equivoco: alcuni giudici condannano i giornalisti quando diffondono "notizie incomplete, quindi false, quindi diffamatorie"; altri magistrati negano le notizie e così agendo mettono i giornalisti in una stretta tra il dovere di riferire e l'obbligo di essere corretti. Anche i giornalisti devono essere corretti e apparire corretti così come i magistrati e i giudici devono essere devono apparire indipendenti. E' questa l'etica di due professioni. La libertà dell'informazione é libertà di accesso alle fonti, é libertà di raccontare i fatti senza bisogno di far ricorso alla fantasia e ai ..condizionali. Fra fatti accaduti e fatti narrati deve esserci un nesso credibile. La sfera della responsabilità, quindi, é doppia: appartiene al giornalista che scrive nel rispetto della deontologia professionale (la deontologia impone il rispetto della persona e della verità sostanziale dei fatti in un quadro di lealtà e buona fede al fine di rafforzare la fiducia dei lettori verso la stampa), ma la sfera della responsabilità riguarda anche i giudici, i quali sono chiamati a rispettare il diritto dei cittadini a ricevere <informazioni e notizie tramite la stampa>. Questo diritto è una norma inserita nell'ordinamento ma è anche una norma di rango costituzionale <letta> dalla Consulta sul rovescio dell'articolo 21 della Costituzione (e nell'articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo applicata e tutelata dalla Corte di Strasburgo). Si confrontano due scuole: quella americana che vuole la stampa guardiana dei poteri e quindi anche del potere giudiziario (il primo emendamento dice:"Il Congresso non potrà fare alcuna legge per limitare la libertà di parola e di stampa") e quella rivoluzionaria francese del numero XI della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: "....Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi previsti della legge". Il modello francese avrà fortuna in Europa e anche in Italia: diventa l'articolo 28 dello Statuto del Regno (La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi"), mentre oggi è l'articolo 21 della Costituzione repubblicana. Gli abusi, puniti ieri con l'Editto Albertino sulla stampa, sono puniti oggi con la legge sulla stampa del 1948 (scritta e approvata dai padri costituenti). Speriamo che questa legge non venga peggiorata con la previsione dell'interdizione dalla professione in via automatica alla seconda condanna. E' auspicabile una riforma del Codice di procedura penale tale da collocare ufficialmente il giornalista giudiziario come parte (al pari dell'avvocato) del processo penale nella sua veste di mediatore intellettuale tra i fatti e i lettori. I giornalisti dovrebbero poter fotocopiare gli atti processuali quando gli stessi vengono depositati e assistere alle udienze del Gip e del Gup. Va attuato pienamente il diritto dei cittadini all'informazione, che deve essere, come ha scritto la Corte costituzionale, corretta e completa. I Pm non possono trincerarsi dietro i divieti quando i divieti a pubblicare non esistono più. È loro dovere, credo, dare a tutti i cronisti notizie complete o mettere i cronisti in condizione di rintracciare le parti processuali perché vicende di interesse pubblico siano ricostruite imparzialmente. La sfida è la correttezza delle cronache: un dovere, ripeto, da assolvere sia dai giudici, sia dai giornalisti. La sfida riguarda anche il Parlamento, che dovrebbe essere sollecitato ad apportare modifiche sostanziali ad alcuni articoli del Cpp (128, 366, 416, 419, 430, 433, 548). Le udienze davanti al Gip e al Gup dovranno essere pubbliche: le Camere non possono glissare su tale esigenza di trasparenza. I giornalisti, intermediari intellettuali tra i fatti e il pubblico, devono essere messi giuridicamente in condizione di poter estrarre copia delle richieste del Pm di rinvio a giudizio, dei provvedimenti del Gip, dei decreti che dispongono il giudizio, delle memorie e delle richieste delle parti, degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori, del fascicolo del Pm, del fascicolo per il dibattimento, delle sentenze. I giornalisti, che lavorano per garantire ai cittadini il diritto di essere informati, rappresentano una parte nel processo penale e come tali devono godere dei diritti assicurati dall'ordinamento processuale al difensore. Il giornalista, quindi, come l'avvocato. Vanno rotti i rapporti equivoci tra giornalisti e Pm e anche quelli tra giornalisti e avvocati. In sostanza chiediamo di essere responsabilizzati al massimo livello. Se i giornalisti dovessero vedersi riconosciuti i diritti dei difensori, allora non avrebbero più attenuanti qualora le cronache dovessero risultare incomplete, quindi false e diffamatorie. Non rivendichiamo il diritto di avere tutte le "carte", che fotocopiano gli avvocati, per diffamare i cittadini al riparo di possibili querele e azioni risarcitorie. Chiediamo le "carte" per poter raccontare i fatti e pubblicare le immagini dei protagonisti delle vicende quotidiane nel rispetto delle regole deontologiche e del Codice di deontologia sulla privacy. Vogliamo sfuggire alla morsa della mezza notizia=notizia falsa= notizia diffamatoria. Le "carte" saranno sempre utilizzate in maniera rigorosa e responsabile. Negli Stati Uniti il Congresso, in virtù del primo emendamento, non può fare leggi sul tema della libertà di stampa. Eppure giornali e giornalisti vengono condannati per diffamazione. Si chiaro: i giornalisti non vogliono e non devono fare superinformazione (ma controinformazione) e non devono e non vogliono dare notizie di "padre ignoto". Contro questi rischi si alza ammonitrice la voce di Walter Tobagi, del Tobagi dell'ultimo dibattito al Circolo della Stampa di Milano. Era il 27 maggio 1980. Un discorso ancora oggi attualissimo. Non dobbiamo confondere controinformazione e superinformazione, consapevoli anche che l'apparente controinformazione potrebbe essere "un servizio prestato a una superinformazione di cui sfuggono completamente fini e modalità". Se cade in questo errore, diceva Tobagi, "il giornalista deve chiedersi se fa un servizio giornalistico o se fa un altro servizio, che nel caso specifico è assai meno nobile". Il lettore non può essere destinatario di notizie di "padre ignoto". Al lettore si deve anche dire la fonte che ha diffuso l'informazione "perché se non si fa questo i giornali rischiano di diventare degli strumenti che servono per combattere battaglie per conto terzi". Tobagi suggeriva una via d'uscita alla crisi dei rapporti giudici-giornalisti: dibattimenti rapidi in modo tale che i giudici non siano costretti a nascondere le notizie e i giornalisti non siano costretti a scrivere articoli sulla base di pochi dati. Era il 27 maggio 1980. Nove anni dopo è entrato in vigore il nuovo rito processuale penale. Le cose non sono migliorate. I processi sono sempre lenti. Dai Palazzi di Giustizia continuano a uscire molte notizie di "padre ignoto". Giornalisti e giudici devono parlarsi di più. Nel gennaio del 1980, in occasione di un convegno ("Terrorismo e mass media") organizzato al Circolo della Stampa di Milano dall'Associazione lombarda dei Giornalisti (guidata da Walter Tobagi), Adolfo Beria di Argentine, successivamente Procuratore generale di Milano, rilanciò la costituzione dei "Comitati nazionali e regionali Giustizia e Stampa", un foro dove possono vincere il dialogo e le proposte pratiche, con queste parole: "Un quarto di secolo fa in questo stesso Circolo della Stampa sono stato partecipe dell'iniziativa, - promossa dalla Federazione nazionale della Stampa, dall'Associazione nazionale Magistrati e dalla Federazione italiana Editori Giornali -, della costituzione dei "Comitati nazionali e regionali Giustizia e Stampa". Per esprimere il senso di quell'iniziativa sarà sufficiente richiamare alcuni concetti dei documenti di base riportati anche in alcuni commenti pubblicati in quell'occasione. Concetti forse un po' ingenui ispirati alla fiducia di quegli anni ma in qualche misura validi ancora oggi. Li riassumo brevemente. Il rapporto tra Giustizia e Stampa ha due facce: tutti vediamo la faccia brutta e non mancano le persone che non perdono l'occasione di denunciare i funesti effetti della libertà di stampa applicata alla giustizia. L'imputato assistito dalla presunzione di innocenza (e di non colpevolezza) all'interno dei Palazzi di giustizia, viene messo alla gogna, buttato alle curiosità più vili al di fuori delle aule giudiziarie; i giudici influenzati e turbati; gli istinti criminali rafforzati dallo spettacolo del delitto, portato dalla stampa innanzi agli occhi di tutti. "Il Leviatano ha invero curiositá morbose, istinti sadistici e così, per mezzo della stampa, li soddisfa sul disgraziati che le circostanze, il caso talora, gli mettono innanzi. L'esigenza di un limite è sacrosanta, è la perenne esigenza della difesa dell'individuo e di una sfera del privato, contro il. pubblico, il collettivo, che in questo caso assume una delle sue forme più. pesanti. e oppressive. Popoli di grande tradizione liberale sentono questa esigenza in modo vivissimo: è noto come il popolo inglese tuteli con severità queste esigenze. C'è, però, l'altra faccia che non si deva trascurare. Attraverso la stampa si vedono la violenza, l'inganno, la sopraffazione, ma si assiste anche alla reazione della società attraverso le sue istituzioni per le vie ordinate e civili del processo. Protagonisti dello spettacolo sono pure i giudici, i difensori, che dal crimine e dalla lite si sforzano di risalire, con gli strumenti della ragione, al diritto. Accompagnando il lettore attraverso le difficoltà di un'istruttoria o il dramma di un dibattimento, il giornalista gli fa conoscere l'impegno per l'indagine oggettiva, lo introduce a ripetere in sé il superamento del fatto antisociale per una società fondata sulla leale e imparziale ragione. La stampa costituisce, poi, il mezzo più efficace del pubblico controllo sulle istituzioni: spesso in democrazia non è possibile ai cittadini conoscere e controllare direttamente come le istituzioni funzionino: l'opera dei giornalisti è uno dei mezzi più importanti. Ciò vale anche per l'amministrazione della Giustizia: forse la gogna di qualche infelice è il prezzo pagato per 1a protezione di tutti noi dagli abusi che, da quando esistono gli uomini, I'autorità, non sottoposta al controllo del pubblico, tende a commettere. D'altro canta il movimento verso restrizioni legislative in materia di stampa è pericoloso in un Paese quale il nostro, in cui. sotto la superficie dell'ordinamento liberale/democratico, manca una solida coscienza liberale e democratica, e le tendenze autoritarie sono così forti che ogni passo versa la limitazione della libertà di. stampa., anche dove di tale libertà si faccia cattivo uso, può diventare l'inizio di un brutto cammino. La soluzione del problema - si diceva un quarto di secolo fa -. potrà venire col tempo del miglioramento generale dell'educazione e dal costume cívile del nostro popolo. Fin da ora però è farse possibile un principio di soluzione, un contributo al miglioramento del costume: un controllo istituzionale che intervenga dove la coscienza dei singoli non basta e tuttavia non comporti i rischi delle leggi restrittive. E' la via dell'autodisciplina della stampa per mezzo di organi non creati da leggi dello Stato, ma liberamente formati e accettati dalla stampa stessa: la via dei Comitati Giustizia e Stampa. Le difficoltà di una efficiente attuazione di simile autodisciplina sono certo grandi ma si dovrebbe porre impegno nel superarle- E la magistratura, collaborando in questo senso con la stampa, darebbe un prezioso contributo, perché la stampa è interessata ad assicurare l'indipendenza della magistratura, ma anche la magistratura a difendere la libertà di stampa. In una vera democrazia, si diceva, non c'è libertà di stampa senza indipendenza della magistratura (ossia la stampa non può condizionare o favorire condizionamenti dell'indipendenza della magistratura), ma non c'è indipendenza della magistratura senza libertà di stampa. "Ora come spesso accade in Italia, dopo qualche anno di vita proficua, i Comitati nazionali e regionali Giustizia e Stampa scomparvero con la scomparsa, se non fisica, almeno dell'impegno intelligente, culturale, professionale dei loro promotori. E negli anni successivi più volte magistratura e stampa, abbandonata la comune ispirazione di quei giorni fervidi, si sono trovati di fronte su posizioni di conflitto, più preoccupate di difendere spazi e diritti loro rispettivamente riconosciuti dalla nostra Costituzione". C'è da chiedersi se ora, 50 anni dopo il dibattito al Circolo della Stampa, non sia il caso che magistrati e giornalisti riprendano a confrontarsi per riavviare il motore di quei Comitati nazionali e regionali Giustizia e Stampa. Giuliano Pisapia, nella passata legislatura presidente della Commissione Giustizia della Camera, ha proposte di creare uffici stampa nei Palazzi di giustizia. L'idea non ha fatto proseliti. Resta un nodo da sciogliere: come assicurare ai cittadini una informazione completa, pulita, la più veritiera possibile. Questo tipo di informazione, secondo la Consulta, è un dovere costituzionale, cioè è un diritto dei cittadini. Facciamo in modo che in Italia la stampa diventi guardiana vera dei poteri per essere noi più liberi e meno condizionati dai poteri forti. Questa prospettiva ha anche bisogno di giornalisti, formati in università e tutelati costituzionalmente, messi nelle condizioni di poter "vivere" la professione in libertà e senza censure, nonché di magistrati e giudici che si pongano il problema di come garantire ai cittadini una informazione corretta e completa attraverso la stampa, vincendo remore corporative. L'obiettivo è quello di far crescere la libertà critica e il diritto a ricevere notizie proprio dei cittadini in nome dei quali la Giustizia viene amministrata. ................ Appendice 1/ Adolfo Beria di Argentine: "L'interdizione professionale è contro la Costituzione". Rapporti tra giustizia e stampa Se al giornalista si toglie la penna di Adolfo Beria Di Argentine In un periodo in cui appaiono sempre più psicologicamente incombenti le iniziative giudiziarie nei confronti dei giornalisti, giunge quasi come un frutto di attualità il parere espresso dall'organo rappresentativo di tutte le componenti associative della magistratura in favore di due riforme in discussione al Parlamento: e cioè sia delle proposte di legge degli onorevoli Sterpa e Violante, che, coerenti alla direttiva n. 70 della legge di delega del nuovo codice di procedura penale in materia di segreto professionale del giornalista, ne rappresentano un'ulteriore articolazione; sia del disegno di legge proposto dal ministro Martinazzoli (recentemente presentato dal governo al Senato) che limita l'applicazione al giornalista della pena accessoria dell'interdizione professionale solo per i reati di diffamazione commessi a mezzo dei media e allorché il fatto sia particolarmente grave ed il colpevole sia stato già condannato più volte per infrazione dello stesso genere. La stessa Corte di Cassazione ha recentemente ritenuto che l'applicazione di questa sanzione dovesse conseguire solo ad un "abuso della professione", che deve concretarsi in una condotta particolarmente reprensibile dal punto di vista oggettivo in ragione della sua gravità e reiterazione, e dal punto di vista soggettivo dell'intensità del dolo. Sembrano quindi essere ora tenuti presenti non solo il principio costituzionale della libertà di stampa, di cui all'art. 21 della Costituzione, ma anche le conclusioni di un dibattito in sede dottrinale fra giuristi, criminologi, sociologi, sviluppatosi in sede internazionale sin dagli anni Sessanta, nel quale si è andata affermando la convinzione che le sanzioni di interdizione professionale pongano un vero e proprio problema sociale. In effetti l'uomo del XX secolo, dal punto di vista sociale, non può essere considerato separatamente dalla professione che svolge. E, dal punto di vista individuale, l'attività alla quale egli dedica gran parte del suo tempo fa parte della sua personalità al punto che, privarlo anche solo temporaneamente di essa, può costituire causa di gravi sconvolgimenti psicologici. L'organizzazione professionale, la politica della professione, nel senso più lato e più nobile del termine, che può tradursi in "igiene sociale professionale", pone problemi generalmente affrontati in maniera parziale e frammentaria delle diverse discipline. D'altro canto è evidente la necessità, per il legislatore, di tener conto, nel disciplinare la materia, sia pure di un esame critico complessivo ed imparziale della realtà giuridica e sociologica. E' stato detto che le interdizioni professionali sono sopravvivenza storica della legislazione penale del XIX secolo che configurava la privazione dei diritti civili, civici o di famiglia, come complemento naturale di alcune pene afflittive o infamanti. Caratteristica del diritto moderno, si osserva per contro, è proprio quella di abbandonare queste posizioni repressive. Il carattere di pena accessoria, obbligatoria e automatica, riconosciuto a molte interdizioni, anche se con fine di prevenzione individuale, non fa che aggravare il danno che per il colpevole già consegue alla condanna. Giustamente, pertanto, alcuni giuristi italiani hanno fatto rilevare che queste interdizioni contrastano con l'art. 27 della Costituzione che vuole la pena finalizzata alla "rieducazione" del condannato e con l'art. 133 del codice penale che impone al giudice di "individualizzare", a tale fine, la sanzione. La natura essenzialmente e funzionalmente punitiva, a carattere afflittivo, retributivo e intimidatorio dell'interdizione professionale contrasterebbe, quindi con i moderni sistemi penali che tendono a supplire alla funzione della pena classica attraverso misure di moderna difesa sociale che corrispondano a sanzioni più complesse e polivalenti. (Mi sembrano questi i motivi ispiratori della scelta adottata dal progetto di codice penale francese che sopprime la pena dell'interdizione professionale). Forse la soluzione al problema sta in un migliore autocontrollo professionale, basato su precisi statuti che deleghino ad organismi interni il compito di pronunciare eventuali interdizioni, profondamente diverse per natura ed effetti. L'analisi giuridica può sì effettuare una delimitazione in materia, ma è un settore troppo vasto e complesso per essere disciplinato totalmente ed efficacemente dalle norme del diritto penale. (dal "Corriere della Sera" del 12 aprile 1986) ---------- Appendice 2/La legge sulla stampa con le modifiche introdotte dalla Camera nella seduta del 26 ottobre 2004 Legge 8 febbraio 1948, n. 47 (1).Disposizioni sulla stampa. (1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 20 febbraio 1948, n. 43. (in nero le modifiche) 1. Definizione di stampa o stampato. Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione. Le disposizioni della presente legge si applicano, altresì, ai siti INTERNET aventi natura editoriale. 2. Indicazioni obbligatorie sugli stampati. Ogni stampato deve indicare il luogo e l'anno della pubblicazione, nonché il nome e il domicilio dello stampatore e, se esiste, dell'editore. I giornali, le pubblicazioni delle agenzie d'informazioni e i periodici di qualsiasi altro genere devono recare la indicazione: del luogo e della data della pubblicazione; del nome e del domicilio dello stampatore; del nome del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile. All'identità delle indicazioni, obbligatorie e non obbligatorie, che contrassegnano gli stampati, deve corrispondere identità di contenuto in tutti gli esemplari. 3. Direttore responsabile. Ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile. Il direttore responsabile deve essere cittadino italiano e possedere gli altri requisiti per l'iscrizione nelle liste elettorali politiche. Può essere direttore responsabile anche l'italiano non appartenente alla Repubblica, se possiede gli altri requisiti per la iscrizione nelle liste elettorali politiche. Quando il direttore sia investito di mandato parlamentare, deve essere nominato un vice direttore, che assume la qualità di responsabile. Le disposizioni della presente legge, concernenti il direttore responsabile, si applicano alla persona che assume la responsabilità ai sensi del comma precedente (2) (2/a). (2) Vedi anche gli articoli. 46 e 47 della legge 3 febbraio 1963 n. 69. (2/a) L'art. 9, L. 6 febbraio 1996, n. 52, ha equiparato i cittadini degli stati membri della Comunità europea ai cittadini italiani, agli effetti degli artt. 3 e 4 della presente legge. 4. Proprietario. Per poter pubblicare un giornale o altro periodico, il proprietario, se cittadino italiano residente in Italia, deve possedere gli altri requisiti per l'iscrizione nelle liste elettorali politiche. Se il proprietario è cittadino italiano residente all'estero, deve possedere gli altri requisiti per l'iscrizione nelle liste elettorali politiche. Se si tratta di minore o di persona giuridica, i requisiti indicati nei comma precedenti devono essere posseduti dal legale rappresentante. I requisiti medesimi devono essere posseduti anche dalla persona che esercita l'impresa giornalistica, se essa è diversa dal proprietario (2/a). (2/a) L'art. 9, L. 6 febbraio 1996, n. 52, ha equiparato i cittadini degli stati membri della Comunità europea ai cittadini italiani, agli effetti degli artt. 3 e 4 della presente legge. 5. Registrazione. Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Per la registrazione occorre che siano depositati nella cancelleria: 1) una dichiarazione, con le firme autenticate del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile, dalla quale risultino il nome e il domicilio di essi e della persona che esercita l'impresa giornalistica, se questa è diversa dal proprietario, nonché il titolo e la natura della pubblicazione; 2) i documenti comprovanti il possesso dei requisiti indicati negli artt. 3 e 4; 3) un documento da cui risulti l'iscrizione nell'albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle leggi sull'ordinamento professionale; 4) copia dell'atto di costituzione o dello statuto, se proprietario è una persona giuridica. Il presidente del tribunale o un giudice da lui delegato, verificata la regolarità dei documenti presentati, ordina, entro quindici giorni, l'iscrizione del giornale o periodico in apposito registro tenuto dalla cancelleria. Il registro è pubblico. 6. Dichiarazione dei mutamenti. Ogni mutamento che intervenga in uno degli elementi enunciati nella dichiarazione prescritta dall'articolo 5, deve formare oggetto di nuova dichiarazione da depositarsi, nelle forme ivi previste, entro quindici giorni dall'avvenuto mutamento, insieme con gli eventuali documenti. L'annotazione del mutamento è eseguita nei modi indicati nel terzo comma dell'art. 5. L'obbligo previsto nel presente articolo incombe sul proprietario o sulla persona che esercita l'impresa giornalistica, se diversa dal proprietario. 7. Decadenza della registrazione. L'efficacia della registrazione cessa qualora, entro sei mesi dalla data di essa, il periodico non sia stato pubblicato, ovvero si sia verificata nella pubblicazione una interruzione di oltre un anno. 8. Risposte e rettifiche. Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale. Per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche di cui al comma precedente sono pubblicate, senza commento, non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono. Per i periodici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, non oltre il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce. Per le trasmissioni radiofoniche o televisive, le dichiarazioni o le rettifiche sono effettuate ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 agosto 1990 n. 223. Per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono. Le rettifiche o dichiarazioni devono fare riferimento allo scritto che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate. Per la stampa non periodica l'autore dello scritto, ovvero i soggetti di cui all'articolo 57-bis del codice penale, provvedono, su richiesta della persona offesa, alla pubblicazione, a propria cura e spese su non più di due quotidiani a tiratura nazionale indicati dalla stessa delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale. La pubblicazione in rettifica deve essere effettuata entro sette giorni dalla richiesta con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l'ha determinata. Qualora, trascorso il termine di cui al secondo, terzo, quarto, per quanto riguarda i siti informatici, e sesto comma, la rettifica o dichiarazione non sia stata pubblicata o lo sia stata in violazione di quanto disposto dal secondo, terzo, quarto, per quanto riguarda i siti informatici, quinto e sesto comma, l'autore della richiesta di rettifica, se non intende procedere a norma del decimo comma dell'articolo 21, può chiedere al pretore, ai sensi dell'articolo 700 del codice di procedura civile, che sia ordinata la pubblicazione. Della stessa procedura può avvalersi l'autore dell'offesa, qualora il direttore responsabile del giornale o del periodico, il responsabile della trasmissione radiofonica, televisiva o delle trasmissioni informatiche o telematiche, non pubblicano la smentita o la rettifica richiesta. La mancata o incompleta ottemperanza all'obbligo di cui al presente articolo è punita con la sanzione amministrativa da lire 15.000.000 a lire 25.000.000 (3). La sentenza di condanna deve essere pubblicata per estratto nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia. Essa, ove ne sia il caso, ordina che la pubblicazione omessa sia effettuata (4). (3) La sanzione originaria della multa è stata sostituita con la sanzione amministrativa dall'art. 32, L.24 novembre 1981, n. 689, e così elevata dall'art. 114,primo comma, della citata L. 24 novembre 1981, n. 689, in relazione all'art. 113, secondo comma, della stessa legge. (4) Così sostituito dall'art. 42, L. 5 agosto 1981, n. 416. 9. Pubblicazione obbligatoria di sentenze. Nel pronunciare condanne per reato commesso mediante pubblicazione in un periodico, il giudice ordina in ogni caso la pubblicazione della sentenza, integralmente o per estratto, nel periodico stesso. Il direttore responsabile è tenuto a eseguire gratuitamente la pubblicazione a norma dell'art. 615, primo comma, del Codice di procedura penale. 10. Giornali murali. Il giornale murale, che abbia un titolo e una normale periodicità di pubblicazione, anche se in parte manoscritto, è regolato dalle disposizioni della presente legge. Nel caso di giornale murale a copia unica, è sufficiente, agli effetti della legge 2 febbraio 1939, n. 374 , che sia dato avviso della affissione all'autorità di pubblica sicurezza. L'inosservanza di questa norma è punita ai sensi dell'art. 650 del Codice penale. I giornali murali sono esenti da ogni gravame fiscale (5). (5) Vedi, anche, il D.P.R. 24 giugno 1954, n. 342; art. 19 e All. B, n. 15. 11. Responsabilità civile. Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l'editore. Articolo 11-bis. Risarcimento del danno. 1. Nella determinazione del danno derivante dalla pubblicazione ritenuta lesiva della reputazione o contraria a verità, il giudice tiene conto dell'effetto riparatorio della pubblicazione della rettifica, se richiesta dalla persona offesa. 2. Quando il giudice procede alla liquidazione del danno in via equitativa, l'entità del danno non patrimoniale non può comunque eccedere la somma di euro 30.000. Il giudice non è vincolato al limite predetto nel caso in cui l'imputato sia già stato condannato, in sede civile o penale, con sentenza definitiva, al risarcimento del danno in favore della medesima parte offesa. 12. Riparazione pecuniaria. (abrogato) 13. Pene per la diffamazione. 1. Nel caso di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della multa da euro 5.000 a euro 10.000. 2. Alla condanna per il delitto di cui al comma 1 consegue la pena accessoria della pubblicazione della sentenza nei modi stabiliti dall'articolo 36 del codice penale e, nelle ipotesi di cui all'articolo 99, secondo comma, del codice penale, la pena accessoria dell'interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi. 3. L'autore dell'offesa non è punibile se provvede, ai sensi dell'articolo 8, alla pubblicazione di dichiarazioni o rettifiche. 3-bis. Nel dichiarare la non punibilità, il giudice valuta la rispondenza della rettifica ai requisiti di legge. 4. Il giudice dispone la trasmissione degli atti al competente ordine professionale per le determinazioni relative alle sanzioni disciplinari". 14. Pubblicazioni destinate all'infanzia o all'adolescenza. Le disposizioni dell'art. 528 del Codice penale si applicano anche alle pubblicazioni destinate ai fanciulli ed agli adolescenti, quando, per la sensibilità e impressionabilità ad essi proprie, siano comunque idonee a offendere il loro sentimento morale od a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio. Le pene in tali casi sono aumentate. Le medesime disposizioni si applicano a quei giornali e periodici destinati all'infanzia, nei quali la descrizione o l'illustrazione di vicende poliziesche e di avventure sia fatta, sistematicamente o ripetutamente, in modo da favorire il disfrenarsi di istinti di violenza e di indisciplina sociale (8). (8) Vedi la L. 17 giugno 1975, n. 355. 15. Pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante. Le disposizioni dell'art. 528 del Codice penale si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti (9) (10/cost). (9) Vedi la L. 17 giugno 1975, n. 355V. (10) La Corte costituzionale, con sentenza 11-17 luglio 2000, n. 293 (Gazz. Uff. 26 luglio 2000, n. 31, serie speciale), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, sollevata in riferimento agli artt. 3, 21, sesto comma, e 25 della Costituzione. 16. Stampa clandestina. Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall'art. 5, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire 500.000 (11). La stessa pena si applica a chiunque pubblica uno stampato non periodico, dal quale non risulti il nome dell'editore né quello dello stampatore o nel quale questi siano indicati in modo non conforme al vero. (11) La misura della multa è stata così elevata dall'art. 113, secondo comma, L. 24 novembre 1981, n. 689, riportata alla voce Ordinamento giudiziario. Per effetto dell'art. 24 c.p. l'entità della sanzione non può essere inferiore a lire 10.000. La sanzione è esclusa dalla depenalizzazione in virtù dell'art.32, secondo comma, della citata L. 24 novembre 1981, n. 689. 17. Omissione delle indicazioni obbligatorie sugli stampati. Salvo quanto è disposto dall'articolo precedente, qualunque altra omissione o inesattezza nelle indicazioni prescritte dall'articolo 2 o la violazione dell'ultimo comma dello stesso articolo è punita con la sanzione amministrativa sino a lire 100.000 (12). (12) La sanzione originaria dell'ammenda è stata sostituita, da ultimo, con la sanzione amministrativa dall'art. 32, L. 24 novembre 1981, n. 689. L'importo della sanzione è stato così elevato dall'art. 114, primo comma, della citata L. 24 novembre 1981, n. 689, in relazione all'art. 113, secondo comma, della stessa legge. Per effetto dell'art. 26 c.p. l'entità della sanzione non può essere inferiore a lire 4.000. 18. Violazione degli obblighi stabiliti dall'articolo 6. Chi non effettua la dichiarazione di mutamento nel termine indicato nell'art. 6, o continua la pubblicazione di un giornale o altro periodico dopo che sia stata rifiutata l'annotazione del mutamento, è punito con la sanzione amministrativa fino a lire 250.000 (13). (13) La sanzione originaria dell'ammenda è stata sostituita, da ultimo, con la sanzione amministrativa dall'art. 32, L. 24 novembre 1981, n. 689. L'importo della sanzione è stato così elevato dall'art. 114, primo comma, della citata L. 24 novembre 1981, n. 689, in relazione all'art. 113, secondo comma, della stessa legge. Per effetto dell'art. 26 c.p. l'entità della sanzione non può essere inferiore a lire 4.000. 19. False dichiarazioni nella registrazione di periodici. Chi nelle dichiarazioni prescritte dagli artt. 5 e 6 espone dati non conformi al vero è punito a norma del primo comma dell'art. 483 del Codice penale. 20. Asportazione, distruzione o deterioramento di stampati. Chiunque asporta, distrugge o deteriora stampati per i quali siano state osservate le prescrizioni di legge, allo scopo di impedirne la vendita, distribuzione o diffusione, è punito, se il fatto non costituisce reato più grave, con la reclusione da sei mesi a tre anni. Con la stessa pena è punito chiunque con violenza o minaccia impedisce la stampa, pubblicazione o diffusione dei periodici, per i quali siano state osservate le prescrizioni di legge. La pena è aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite o in luogo pubblico, ovvero presso tipografie, edicole, agenzie o altri locali destinati a pubblica vendita. Per i reati suddetti si procede per direttissima (13). (13) Vedi, anche, l'art. 8, L. 4 aprile 1956, n. 21. 21. Competenza e forme del giudizio. La cognizione dei reati commessi col mezzo della stampa appartiene al tribunale, salvo che non sia competente la Corte di assise. Non è consentita la rimessione del procedimento al pretore. Al giudizio si procede col rito direttissimo. È fatto obbligo al giudice di emettere in ogni caso la sentenza nel termine massimo di un mese dalla data di presentazione della querela o della denuncia. La competenza per i giudizi conseguenti alle violazioni delle norme in tema di rettifica, di cui all'articolo 8 della presente legge, appartiene al pretore (14). Al giudizio si procede con il rito direttissimo (14). È fatto obbligo: a) al pretore di depositare in ogni caso la sentenza entro sessanta giorni dalla presentazione della denuncia; b) al giudice di appello di depositare la sentenza entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la presentazione dei motivi di appello; c) alla Corte di cassazione di depositare la sentenza entro sessanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione dei motivi del ricorso (14). I processi di cui al presente articolo sono trattati anche nel periodo feriale previsto dall'articolo 91 dell'ordinamento giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (14). La colpevole inosservanza dell'obbligo previsto nel settimo comma costituisce infrazione disciplinare (14). In ogni caso, il richiedente la rettifica può rivolgersi al pretore affinché, in via d'urgenza, anche ai sensi degli articoli 232 e 219 del codice di procedura penale, ordini al direttore la immediata pubblicazione o la trasmissione delle risposte, rettifiche o dichiarazioni (14). (14) Comma aggiunto dall'art. 43, L. 5 agosto 1981, n. 416. 22. Periodici già autorizzati. Per i giornali e gli altri periodici autorizzati ai sensi delle leggi precedenti, la registrazione prescritta dall'articolo 5 deve essere effettuata nel termine di quattro mesi dall'entrata in vigore della presente legge. 23. Abrogazioni. Sono abrogati il regio decreto-legge 14 gennaio 1944, n. 13, e ogni altra disposizione contraria o incompatibile con quelle della presente legge. 24. Norme di attuazione. Il Governo emanerà le norme per l'attuazione della presente legge (15). (15) Tali norme non sono state mai emanate. 25. Entrata in vigore della legge. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. CODICE PENALE Articolo 57. Reati commessi con il mezzo della stampa, della diffusione radiotelevisiva o con altri mezzi di diffusione. Salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione, e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vicedirettore responsabile del quotidiano, del periodico o della testata giornalistica, radiofonica o televisiva, risponde dei delitti commessi con il mezzo della stampa, della diffusione radiotelevisiva o con altri mezzi di diffusione se il delitto è conseguenza della violazione dei doveri di vigilanza sul contenuto della pubblicazione. La pena è in ogni caso ridotta di un terzo. Articolo 594 - (Ingiuria). Chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con la multa fino a euro 5.000. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, telefonica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. Le pene sono aumentate qualora l'offesa consista nell'attribuzione di un fatto determinato, ovvero sia commessa in presenza di più persone. Articolo 595. Diffamazione. Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 594, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la multa fino da euro 1.500 a euro 6.000. La pena è aumentata se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato. Se l'offesa è arrecata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, si applica la pena della multa da euro 3.000 a euro 8.000. Si applicano le disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e successive modificazioni, nel caso in cui l'autore dell'offesa pubblichi una completa rettifica del giudizio o del contenuto lesivo dell'altrui reputazione. Alla condanna consegue la pena accessoria dell'interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi, nelle ipotesi di cui all'articolo 99 (recidiva, ndr), secondo comma, del codice penale". Modifica all'articolo 427 del Codice di procedura penale. 1. Dopo il comma 3 dell'articolo 427 del codice di procedura penale è inserito il seguente: " 3-bis. Il giudice può altresì condannare il querelante al pagamento di una somma da 1.000 euro a 10.000 euro a favore della cassa delle ammende ". Norma transitoria. 1. Nel caso in cui la condanna a pena detentiva per i reati di cui alla presente legge debba essere ancora eseguita prima della data di entrata in vigore della legge stessa, ovvero, a tale data, sia in corso di esecuzione, la pena della reclusione è convertita in pena pecuniaria ai sensi dell'articolo 135 del codice penale. ------------- Appendice 3/Documento del "Garante della privacy" su diritto di cronaca e rispetto delle persone. Alcuni chiarimenti in risposta ai quesiti posti dall'Ordine nazionale dei Giornalisti. La nota del Garante della privacy. Roma, 11 giugno 2004. Tutela assoluta dei minori, trasparenza delle fonti pubbliche, corretto uso di fotografie e foto segnaletiche, divieti e rischi della diffusione dei dati sulla salute, rapporti tra cronaca e giustizia, privacy "attenuata" per i personaggi pubblici. Il Garante (Stefano Rodotà, Giuseppe Santaniello, Gaetano Rasi, Mauro Paissan) interviene sul delicato rapporto tra privacy e giornalismo con un documento complessivo, la cui stesura finale è stata curata per il Garante da Mauro Paissan, in cui fornisce chiarimenti e puntualizzazioni su alcune problematiche emerse dagli incontri del gruppo di lavoro, costituito tra l'Autorità e l'Ordine nazionale dei giornalisti, che ha svolto una riflessione sull'applicazione del codice deontologico dei giornalisti a sei anni dalla sua entrata in vigore. L'obiettivo è quello di sempre: trovare un punto di equilibrio tra il diritto di cronaca e il diritto di ogni persona ad essere rispettata, nella sua dignità, nella sua identità, nella sua intimità. I chiarimenti, desumibili in gran parte dalla giurisprudenza del Garante e dalle più recenti novità normative intervenute a livello nazionale ed europeo, riguardano trattamenti di dati personali effettuati mediante i tradizionali mezzi di informazione (televisione, radio e carta stampata). Successive riflessioni potranno prendere in considerazione le problematiche attinenti all'uso di Internet. Il documento, una sorta di guida pratica, cerca di fornire indirizzi e risposte ad alcuni problemi spinosi che le redazioni si trovano spesso ad affrontare e basta scorrere le varie sezioni per avere un quadro della complessità dei temi: autonomia e responsabilità del giornalista; interesse pubblico ed essenzialità dell'informazione; accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni; diffusione di fotografie; nomi delle persone nelle cronache giudiziarie; dati sulla salute e sulla vita sessuale. La molteplicità e la varietà delle vicende di cronaca - si legge nel documento - non consentono di stabilire a priori e in maniera categorica quali dati possono essere raccolti e diffusi nel riferire su singoli fatti: un medesimo dato legittimamente pubblicato in un contesto può non esserlo in un altro. D'altra parte una codificazione minuziosa risulterebbe inopportuna. Ma se il bilanciamento tra diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero resta, dunque, affidato innanzitutto al giornalista e alla sua responsabile valutazione, la sua attività deve comunque svolgersi nel rispetto di principi e diritti posti a tutela della riservatezza e dignità della persona. La nota di Vittorio Roidi segretario del Cnog. Privacy. A distanza di cinque anni dall'entrata in vigore del codice deontologico, il Comitato esecutivo dell'Ordine ha avvertito la necessità di chiarire il significato di alcune norme. Infatti, dai giornali, scritti o trasmessi, emerge con chiarezza che molti colleghi si trovano in difficoltà, alle prese con regole che appaiono contraddittorie e limitatrici del dovere di informare.. Qualche caso: sempre più spesso negli articoli di cronaca vengono omessi i nomi e i cognomi delle persone coinvolte nei fatti; quasi tutte le immagini di bambini vengono schermate, anche se riprese in occasioni dalle quali essi non ricavano alcun danno; gli organi di informazione non comunicano particolari sulla personalità, sulla carriera, sui guadagni degli uomini pubblici, quasi che ciò fosse proibito e disdicevole. Gli spazi del diritto di cronaca sembrano essersi ristretti. C'è un freno all'informazione, in qualche caso doveroso, in altri ingiustificato e preoccupante. Molte amministrazioni (questure, ospedali) rifiutano di fornire dati. Per questo, esse citano la legge 675, pur sapendo che essa non intendeva affatto limitare la comunicazione pubblica, rafforzata in questi anni da altre leggi, come la numero 150 del 2001. Per queste ragioni, l'Ordine nazionale ha chiesto al Garante della privacy di aprire un tavolo di discussione. Al termine del confronto, in particolare svolto su alcune questioni che abbiamo sottoposto al Garante in forma di quesiti, il gruppo di lavoro dell'Ordine (Roidi, De Vito, Politi, Morello, Viali) affida al Consiglio nazionale la prosecuzione dell'analisi, essendo sopraggiunta la fine della legislatura. Qui di seguito viene allegato il testo dei "chiarimenti" che l'ufficio dell'Autorità della privacy ha inviato all'Ordine e che reca la firma di Mauro Paissan (i quattro componenti sono Stefano Rodotà, Giuseppe Santaniello, Gaetano Rasi, Mauro Paissan), al quale l'Esecutivo ha inviato il ringraziamento per il lavoro svolto e per lo sforzo di approfondimento compiuto. Sarà il Consiglio nazionale ora ad indicare - come la legge gli dà facoltà - più precise regole di comportamento, se le reputerà necessarie, oppure a ribadire l'inesistenza di vincoli da alcuni paventati o suggeriti. In attesa che il lavoro prosegua, è possibile indicare in estrema sintesi (proprio sulla base del documento ricevuto dal Garante) alcune linee guida del giornalista o possibili soluzioni, nei casi pratici: 1) sempre viene riaffermata la responsabilità del giornalista, al quale spetta acquisire, selezionare, scegliere i "dati utili ad informare la collettività", in assoluta autonomia; 2) è il giornalista a valutare se la notizia sia di interesse pubblico e se il particolare che si sta per pubblicare (anche quello che rientra nella sfera privata del singolo) sia essenziale all'informazione; 3) il Garante ricorda (più volte lo aveva già fatto in passato) che la pubblica amministrazione ha precisi obblighi di trasparenza, derivanti da leggi del Parlamento. Dunque, "la disciplina sulla tutela dei dati personali non può in quanto tale essere invocata strumentalmente per negare l'accesso ai documenti"; 4) le decisioni e le ordinanze pronunciate dal Garante in questi anni hanno più volte chiarito che il giornalista può acquisire legittimamente, ad esempio: l'ammontare dei redditi dei contribuenti; le situazioni patrimoniali di coloro che ricoprono cariche pubbliche; i dati contenuti negli albi professionali; i risultati scolastici ecc. Se l'acquisizione è lecita, il Garante sottolinea però che la diffusione di queste informazioni deve essere essenziale alla notizia. Questo requisito dell'essenzialità costituisce il perno della legge n.675; 5) quanto alle foto dei bambini, il Garante ricorda che lo spirito delle norme esistenti è quello di non recare danno al minore e, pertanto "può ritenersi lecita, salvo casi assai particolari, la diffusione di immagini che ritraggano il minore in momenti di svago e di gioco"; 6) possono essere pubblicate, anche senza il consenso dell'interessato le foto di "persone in luoghi pubblici", purché non siano lesive del decoro e della dignità e purché il fotografo non abbia fatto ricorso ad artifici e pressioni indebite; 7) il Garante ribadisce il già noto divieto di pubblicare le foto "segnaletiche", fornite dalle forze dell'ordine per scopi di giustizia. Ma si deve notare che ciò non impedisce affatto di pubblicare "altre" immagini dei soggetti indagati od arrestati (purché acquisite lecitamente). Il diritto di cronaca va ribadito anche qui, pur sapendo che la legge prescrive "canoni di liceità e correttezza", sempre in base al criterio della "essenzialità, pertinenza e non eccedenza"; 8) i nomi delle persone indagate o sottoposte a giudizio possono essere resi noti. Qui il Garante sottolinea la necessità di salvaguardare altre persone non direttamente implicate e fa notare che, ad esempio nella fase iniziale dell'indagine giudiziaria, le generalità di chi vi si trova coinvolto e il giudizio sull'entità dell'addebito possono creare problemi "non tanto per la riservatezza della notizia, quanto per l'enfasi del messaggio erroneo dato al lettore riguardo al grado di responsabilità già accertata". In ogni caso sarà necessaria, un'analisi molto approfondita da parte dei giornalisti, la cui autonomia, comunque ribadita, andrà definita e difesa dall'Ordine e, speriamo, eventualmente dai giudici. Da ultimo, c'è da segnalare che il documento del Garante, a proposito delle notizie sullo stato di salute (nonché le abitudini sessuali) di persone note, scrive che, se può avere rilievo sulla vita pubblica, può essere diffusa l'informazione "relativa alla malattia che ha colpito un uomo politico o altra personalità di rilievo pubblico, ove ciò sia necessario al fine di informare il pubblico sulla possibilità che ha lo stesso uomo di continuare a svolgere il proprio incarico". Il documento del Garante. Privacy e giornalismo. Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell'Ordine dei giornalisti. Autonomia e responsabilità del giornalista Le norme in materia di trattamento dei dati personali a fini giornalistici individuano alcuni parametri entro cui assicurare il rispetto di diritti e libertà fondamentali protetti dall'art. 2 della Costituzione, quali la riservatezza, l'identità personale e il "nuovo" ed importante diritto alla protezione dei dati personali, senza pregiudicare la libertà di informazione che è tutelata anch'essa sul piano delle garanzie costituzionali. La scelta di non introdurre regole rigide in materia, bensì di limitarsi ad indicare espressamente solo alcuni presupposti - scelta sostenuta dall'Ordine dei giornalisti e condivisa dal Garante al momento della stesura del Codice deontologico - si è basata su due ordini di considerazioni. Da una parte, la molteplicità e la varietà delle vicende di cronaca e dei soggetti che ne sono coinvolti non consentono di stabilire a priori e in maniera categorica quali dati possono essere raccolti e poi diffusi nel riferire sui singoli fatti: un medesimo dato può essere legittimamente pubblicato in un determinato contesto e non invece in un altro. Dall'altra, una codificazione minuziosa di regole in questo ambito risulterebbe inopportuna in un contesto nel quale sono assai differenziate le situazioni nelle quali occorre valutare nozioni generali dai confini non sempre immutati nel tempo (essenzialità dell'informazione, interesse pubblico, ecc.) e valorizzare al contempo l'autonomia e la responsabilità del giornalista. Alla luce di tali considerazioni, il bilanciamento tra i diritti e le libertà di cui sopra resta in sostanza affidato in prima battuta al giornalista il quale, in base a una propria valutazione (che può essere sindacata) acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad informare la collettività su fatti di rilevanza generale, esprimendosi nella cornice della normativa vigente - in particolare, del Codice deontologico - e assumendosi la responsabilità del proprio operato. Interesse pubblico e essenzialità dell'informazione Il giornalista valuta, dapprima, quando una notizia riveste effettivamente un rilevante interesse pubblico e, successivamente, quali particolari relativi a tale notizia sia essenziale diffondere al fine di svolgere la funzione informativa sua propria. La diffusione di un determinato dato può essere ritenuta necessaria quando la sua conoscenza da parte del pubblico trova giustificazione nell'originalità dei fatti narrati, nel modo in cui gli stessi si sono svolti e nella particolarità dei soggetti che in essi sono coinvolti. Quando non si ravvisa tale necessità oppure quando vi siano specifiche limitazioni di legge alla divulgazione di informazioni spesso connesse a determinati fatti di cronaca, il giornalista può comunque riferire di questi ultimi prediligendo soluzioni che tutelino la riservatezza degli interessati (ricorrendo ad esempio all'uso di iniziali, di nomi di fantasia e così via). Va tuttavia evidenziato come, in taluni casi, la semplice omissione delle generalità delle persone non basta di per sé ad escludere l'identificazione delle medesime: quest'ultima, infatti, può realizzarsi attraverso la combinazione di più informazioni concernenti la persona (l'età, la professione, il luogo di lavoro, l'indirizzo dell'abitazione, ecc.). Accesso alle informazioni: i rapporti con le pubbliche amministrazioni Viene spesso lamentato che le pubbliche amministrazioni giustificano la propria decisione di non fornire informazioni ai giornalisti dietro una supposta applicazione della legge sulla privacy. Al riguardo, è stato più volte evidenziato anche dallo stesso Garante che la legge n. 675/96, prima, e ora il Codice privacy (Codice in materia di protezione dei dati personali, decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196), non hanno inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa e che, quindi, la disciplina sulla tutela dei dati personali non può essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l'accesso ai documenti, fatto comunque salvo il peculiare livello di tutela assicurato per certe informazioni e, in particolare, per i dati sensibili (dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale). Le difficoltà per il giornalista di accedere a determinati documenti in possesso di uffici pubblici deriva non tanto dalla disciplina sulla protezione dei dati personali, quanto dalla normativa sull'accesso ai documenti amministrativi, che laddove il documento non è segreto impone comunque di valutare l'eventuale necessità di tutelare la riservatezza di un terzo, ma prima ancora prescrive (non solo al giornalista) che chi richiede il documento debba dimostrare la necessità di disporne per la tutela di un interesse giuridicamente rilevante e concreto. Vi sono al riguardo alcune aperture della giurisprudenza amministrativa che ritiene legittimato all'accesso anche chi intende esercitare al riguardo il diritto di cronaca (cfr. anche Cons. di Stato n. 570/1996 e Cons. di Stato n. 99/1998), ma il punto non è pacifico. Il giornalista può quindi chiedere di acquisire le informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni utilizzando gli strumenti previsti dall'ordinamento giuridico: presentando istanza in conformità a quanto previsto dalla legge 241 o da leggi speciali o, più semplicemente, consultando albi, elenchi ecc. quando la legge ha previsto un siffatto regime di pubblicità. In tale ottica, e fatte salve le valutazioni che seguiranno in ordine alla loro possibile diffusione, il giornalista potrà ad esempio chiedere di acquisire o venire legittimamente a conoscenza delle informazioni concernenti: • l'ammontare complessivo dei dati reddituali dei contribuenti, presso i comuni; • le situazioni patrimoniali di coloro che ricoprono determinate cariche pubbliche o di rilievo pubblico per le quali è spesso previsto un regime di pubblicità; • analogamente, le classi stipendiali, le indennità e gli altri emolumenti di carattere generale corrisposti da concessionari pubblici; • le pubblicazioni matrimoniali affisse all'albo comunale; • notizie relative ad alcuni nati e ad alcuni deceduti (possono essere rivolte specifiche domande all'ufficiale di stato civile, ma non si ha ad esempio diritto a ricevere un elenco giornaliero); • gli esiti scolastici e concorsuali per i quali l'ordinamento prevede spesso un regime di pubblicità; • i dati contenuti negli albi professionali; • i dati contenuti nelle deliberazioni degli enti locali (per esempio anche mediante l'accesso alle sedute consiliari degli organi collegiali e la relativa ripresa televisiva); • la situazione patrimoniale delle società e, in generale, i dati pubblici presso le camere di commercio. Questo per quanto riguarda l'acquisizione delle informazioni. Rimane poi affidata alla responsabilità del giornalista l'utilizzazione lecita del dato raccolto e quindi la sua diffusione secondo i parametri dell'essenzialità rispetto al fatto d'interesse pubblico narrato, della correttezza, della pertinenza e della non eccedenza, avuto altresì riguardo alla natura del dato medesimo. Il giornalista dovrà valutare, ad esempio, l'eventualità di non diffondere in certi casi taluni dati relativi agli esiti scolastici, sebbene pubblici, in ragione dell'opportunità di tutelare gli interessati (minori e non) dagli effetti negativi che può determinare un'eccessiva risonanza data al loro risultato. La legge sulla privacy e lo stesso Codice entrato in vigore il 1° gennaio scorso non hanno poi "abrogato" i noti limiti generali al diritto di cronaca che la giurisprudenza ordinaria, da diversi anni, considera stabilizzati. Un'utile novità potrà tra l'altro derivare dall'adozione del decreto del Ministro dell'interno relativo alla legittima comunicazione e diffusione di informazioni da parte di forze di polizia, ad esempio in caso di incidenti, eventi tragici, calamità, ecc. (art. 57, comma 1, lett. e), del Codice privacy). Diffusione di fotografie a) Immagini di minori Le disposizioni che tutelano la riservatezza dei minori si fondano sul presupposto che la pubblicità dei loro fatti di vita possa arrecare danno alla loro personalità. Questo rischio può non sussistere quando il servizio giornalistico dà positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare in cui si sta formando. Pertanto può ritenersi lecita, ad esempio, salvo casi assai particolari, la diffusione di immagini che ritraggono un minore in momenti di svago e di gioco. Resta comunque fermo l'obbligo per il giornalista di acquisire l'immagine stessa correttamente, senza inganno e in un quadro di trasparenza, nonché di valutare, volta per volta, eventuali richieste di opposizione da parte del minore o dei suoi familiari. Tali principi trovano naturalmente applicazione anche con riferimento alle immagini che ritraggono personaggi noti insieme ai loro figli, ad esempio nel contesto di un servizio che voglia testimoniare il rapporto positivo tra gli stessi. Anche in tale ambito è comunque affidata al giornalista una prima valutazione in ordine al rischio che tale spettacolarizzazione possa incidere negativamente sul minore e sulla sua famiglia. Si dovrà in ogni caso evitare che la diffusione di tale tipo di dati assuma carattere sistematico: è infatti evidente la differenza che esiste fra la raccolta occasionale dell'immagine delle persone che in un dato momento si trovano in un luogo pubblico ed invece la ripresa sistematica di tale situazione. Analoghe considerazioni in ordine alla liceità della diffusione possono essere formulate con riferimento alle immagini di neonati. Esse infatti si caratterizzano per avere una più ridotta valenza identificativa. b) Fotografie relative a soggetti ripresi in luoghi pubblici Di regola, le immagini che ritraggono persone in luoghi pubblici possono essere pubblicate, anche senza il consenso dell'interessato, purché non siano lesive della dignità e del decoro della persona. Come il Garante ha precisato nelle sue pronunce, il fotografo è comunque tenuto a rendere palese la propria identità e attività di fotografo e ad astenersi dal ricorrere ad artifici e pressioni indebite per perseguire i propri scopi. Anche qui il giornalista deve comunque compiere una valutazione caso per caso, dovendo egli tenere presente il contesto del servizio giornalistico e l'oggetto della notizia. Ad esempio, la pubblicazione dell'immagine di una signora anziana, chiaramente identificabile, ripresa al mercato con la spesa, può ritenersi non pertinente rispetto ad un articolo sulla solitudine degli anziani, oltre che lesiva della dignità dell'interessata. Diverso il giudizio potrebbe essere se la stessa foto fosse posta, per esempio, a corredo di un articolo sulla longevità. Inoltre, nel documentare con fotografie fatti di cronaca che avvengono in luoghi pubblici, il giornalista e/o il fotografo sono chiamati a valutare anche quale tipo di inquadratura scegliere, astenendosi dal focalizzare l'immagine su singole persone o dettagli personali se la diffusione di tali dati risulta non pertinente e eccedente rispetto alle finalità dell'articolo. c) Fotografie degli arrestati e degli indagati Le foto segnaletiche: anche se esposte nel corso di conferenze stampa tenute dalle forze dell'ordine o comunque acquisite lecitamente, tali fotografie non possono essere diffuse se non in vista del perseguimento delle specifiche finalità per le quali sono state originariamente raccolte (accertamento, prevenzione e repressione dei reati). Inoltre, anche nell'ipotesi di evidente e indiscutibile "necessità di giustizia o di polizia" alla diffusione di queste immagini, "il diritto alla riservatezza ed alla tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione". Tali principi - più volte ricordati dal Garante - trovano conferma in diverse circolari emanate dalle forze di polizia, oltre ad essere richiamati, con riferimento alla generalità dei dati personali, nell'art. 25, comma 2 del Codice privacy. Le immagini che documentano operazioni di arresto: tali immagini non possono essere diffuse quando siano lesive della dignità dell'interessato. Questo principio - che è alla base dei limiti già previsti dall'ordinamento relativamente alla diffusione di immagini che ritraggono persone in manette o sottoposte ad altro mezzo di coercizione fisica (si veda anche l'art. 8 del Codice deontologico) - deve guidare il giornalista nella decisione sulla diffusione di altre immagini collegate ad operazioni di arresto.Altre foto a corredo di notizie su arresti, indagini e processi(es. foto tratte da documenti di riconoscimento, da album familiari, o scattate nelle aule giudiziarie): in relazione a tali dati, a parte le prescrizioni che può impartire il giudice durante il dibattimento e le garanzie previste per le riprese televisive durante il processo, valgono i parametri generali che guidano il giornalista nell'esercizio della propria attività. Tra questi parametri ricordiamo quello che impone di acquisire, e successivamente utilizzare, tali immagini in modo lecito e secondo correttezza, nonché di diffondere le stesse secondo la dovuta valutazione in ordine alla loro essenzialità, pertinenza e non eccedenza avuto riguardo alla notizia riferita. In primo luogo, dunque, al fine di conformarsi ai citati canoni di liceità e correttezza, sarà necessario informare le persone presso cui sono raccolte le immagini nonché, ove possibile, gli interessati in merito all'utilizzo delle immagini acquisite (art. 2 Codice deontologico). Nomi delle persone nelle cronache giudiziarie a) Nomi delle persone indagate o sottoposte a giudizio I nomi degli indagati e degli arrestati, al pari di altre informazioni, possono essere soggetti al regime di segretezza-pubblicità eventualmente operante in base alle disposizioni dell'ordinamento processuale penale (segretazione degli atti del procedimento e del relativo contenuto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e comunque fino alla chiusura delle indagini preliminari, nonché nei casi decisi dal giudice; possibile diffusione del contenuto degli atti non più coperti da segreto). Tali dati dunque, di regola, possono essere resi noti, fatti salvi i divieti di diffusione ricavabili dalle suddette disposizioni e ferma restando la necessità che la notizia sia acquisita lecitamente, ad esempio da una parte che ha già legale conoscenza di un atto notificato. La possibilità di diffondere queste informazioni deve tuttavia fare i conti con alcune garanzie fondamentali riconosciute a tali soggetti. Il giornalista deve valutare, ad esempio, se sia opportuno rendere note le complete generalità di chi si trova interessato da un indagine ancora in fase assolutamente iniziale, e modulare il giudizio sull'entità dell'addebito. A volte, invece, questo viene descritto senza evidenziare la fase iniziale dell'investigazione, con problemi non tanto per la riservatezza della notizia, quanto per l'enfasi del "messaggio" erroneo dato al lettore riguardo al grado di responsabilità già accertata. Potrà invece verificarsi anche il caso in cui la diffusione dei nomi delle persone indagate o sottoposte a giudizio, pure astrattamente possibile, dovrà essere evitata al fine di tutelare la riservatezza e il diritto alla protezione dei dati relativi ad altri soggetti coinvolti nell'indagine giudiziaria. Tale principio potrà trovare applicazione anche al di fuori dei casi in cui i dati di detti soggetti trovino tutela in un'esplicita disposizione di legge, come ad esempio avviene per quanto attiene alle vittime dei reati di pedofilia o violenza sessuale. In termini generali, va ribadito che l'esigenza di assicurare la trasparenza dell'attività giudiziaria e il controllo della collettività sul modo in cui viene amministrata la giustizia devono comunque bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all'indagato e all'imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e ad un giusto processo. Il giornalista sarà perciò tenuto a valutare, volta per volta, gli elementi che caratterizzano l'episodio di cronaca e che possono far propendere per una minore o maggiore pubblicità dei dati a seconda della fase delle indagini, della fase e del tipo di procedimento (es. procedimenti che si svolgono con la presenza del pubblico, procedimenti in camera di consiglio), delle caratteristiche del soggetto ritenuto autore del reato. La diffusione dei nomi di persone condannate e, in generale, dei destinatari di provvedimenti giurisdizionali deve inquadrarsi nell'ambito delle disposizioni processuali vigenti, di regola improntate ad un regime di tendenziale pubblicità. Potranno essere pubblicati, ad esempio - come già ricordato dal Garante in alcune sue pronunce - l'identità, l'età, la professione, il capo di imputazione e la condanna irrogata ad una persona maggiorenne ove risulti la verità dei fatti, la forma civile dell'esposizione e la rilevanza pubblica della notizia (rilevanza, che può essere tale anche solo nel contesto locale di riferimento della testata giornalistica). In confronto ai casi riguardanti gli indagati e gli imputati, i dati dei condannati possono essere diffusi più liberamente in ragione della minore incertezza sulla posizione processuale dell'interessato, essendo già intervenuto su di essa un primo giudizio da parte dell'Autorità giudiziaria. Tuttavia, anche l'applicazione di tale principio va valutata caso per caso, dovendo prendere in considerazione, fra l'altro, il tipo di soggetti coinvolti (ad esempio, persone con handicap o disturbi psichici, o ancora, ragazzi molto giovani), il tipo di reato accertato e la particolare tenuità dello stesso, l'eventualità che si tratti di condanne scontate da diversi anni o assistite da particolari benefici (es. quello della non menzione nel casellario), in ragione dell'esigenza di promuovere il reinserimento sociale del condannato. Il giornalista dovrà inoltre verificare volta per volta se la pubblicazione dei dati identificativi del condannato - in linea generale consentita - debba nel concreto essere evitata al fine di impedire l'identificazione della vittima del reato accertato o di altre persone meritevoli di tutela. Grazie al Codice privacy, l'accesso al pubblico delle sentenze depositate nella cancelleria o segreteria dell'ufficio giudiziario è più agevole, in quanto esse potranno essere rese accessibili anche via Internet, tramite il sito istituzionale dell'ufficio giudiziario (art. 51, comma 2, del Codice), rendendo superflua una richiesta presentata di persona da chi dovrebbe altrimenti dimostrare di avere legittimo interesse alla copia. Nell'effettuare le predette valutazioni, il giornalista non potrà non tener conto del bilanciamento di interessi effettuato in un altro fronte e cioè che le sentenze pubblicate per finalità di informatica giuridica (non giornalistiche, quindi) dallo stesso ufficio giudiziario, oppure da riviste giuridiche anche on-line, potranno in alcuni casi più delicati non recare il nome di taluna delle parti o di terzi (minore, delicati rapporti di famiglia, ecc.: art. 52 del Codice). b) Nomi delle vittime, dei testimoni e di altre persone Un particolare rigore nel valutare l'essenzialità dell'informazione rispetto ad un fatto di cronaca andrà osservato dal giornalista con riferimento ai nomi delle vittime di reato, anche al di fuori dei casi in cui sussistono limiti specifici Nel procedere a tale valutazione possono assumere rilievo, unitamente o separatamente, il tipo di conseguenze subite da parte della vittima, il decorso del tempo, la volontà eventualmente espressa dalla stessa nonché i possibili rischi per la vittima medesima. In primo luogo, dunque, ragioni di riservatezza e di tutela dei dati potranno prevalere quando l'episodio di cui l'interessato è stato vittima ha provocato conseguenze di carattere permanente sulla sua salute fisica e/o psicologica. In secondo luogo, la stessa cautela dovrà essere adottata quando il giornalista si trovi a trattare episodi di cronaca verificatisi nel passato: ciò, al fine di evitare che alla sofferenza pregressa patita dall'interessato si aggiunga quella di essere sottoposto (nuovamente) alla pubblica attenzione. Le medesime ragioni di tutela dei dati personali potranno altresì prevalere nei casi in cui la vittima abbia manifestato la volontà che i propri dati non siano resi pubblici (fermo restando il fatto che il giornalista può procedere alla pubblicazione dei diversi dati anche in assenza del consenso da parte degli interessati). Tale principio trova fra l'altro fondamento nella possibilità, per ogni soggetto interessato, di opporsi anche in anticipo per motivi legittimi alla pubblicazione (art. 7, comma 4, lett. a) del Codice privacy). Infine, il giornalista dovrà tener conto della possibilità che la diffusione sull'avvenuto reato ai danni di una determinata persona possa comportare rischi per la stessa, anche in relazione alla possibile ripetizione dello stesso reato nei suoi confronti. Anche con riferimento ai nomi dei testimoni (e di persone che collaborano a vario titolo alle attività di giustizia) - e al di là dei limiti già previsti da disposizioni specifiche - prevalgono tendenzialmente ragioni di riservatezza. Pure in questo caso è difficile fare generalizzazioni, non potendosi escludere la possibilità di diffondere l'identità e altre informazioni concernenti un testimone quando tale conoscenza sia essenziale rispetto alla notizia pubblicata. Riguardo ai nomi di familiari e conoscenti di persone interessate da vicende giudiziarie, il giornalista, fatta salva la sussistenza di specifici divieti, potrà eventualmente rendere noti i dati relativi a persone che risultano direttamente coinvolte in tali vicende, astenendosi invece dal diffondere i nomi e altre informazioni che riguardino persone che non risultano coinvolte nelle indagini e che appaiono invece collegate ai protagonisti dei fatti narrati, ad esempio, solo in ragione di precedenti relazioni sentimentali e convivenze avute con le stesse, ovvero in virtù di mere circostanze di fatto (ad es.dovrà essere omessa l'identità di colui che risulta essere proprietario dell'immobile dove si è consumato un delitto). Principi questi che hanno trovato più volte richiamo da parte del Garante e dell'Autorità giudiziaria con riferimento, ad esempio, alla pubblicazione del contenuto delle trascrizioni di intercettazioni telefoniche e ambientali. Dati sulla salute e sulla vita sessuale Particolari cautele sono prescritte al giornalista con riguardo alla circolazione di informazioni relative allo stato di salute, soprattutto quando la notizia riguarda persone - anche solo indirettamente identificabili - interessate da malattie gravi e irreversibili. La necessità di proteggere tali persone da un'indebita intrusione sui loro fatti di vita e sulle loro scelte da parte dei mezzi di comunicazione giustificano pertanto gli interventi decisi dal Garante, come è avvenuto, ad esempio, per il caso della ragazza affetta dal morbo della c.d. "mucca pazza" o, di recente, per la donna balzata sulle prime pagine dei giornali per il suo rifiuto di sottoporsi ad un intervento chirurgico (ritenuto dai medici necessario per la salvarle la vita). Quando simili informazioni vengono fornite dagli stessi interessati (ad esempio, mediante un'intervista) il giornalista può invece renderle pubbliche assicurando in ogni caso che tale operazione non pregiudichi la dignità degli interessati medesimi. Le informazioni relative alla sfera sessuale delle persone godono di una particolare protezione, analogamente a quelle relative allo stato di salute. Al di fuori di tali ipotesi o di altre analoghe, il giornalista è chiamato ad effettuare un vaglio particolarmente attento sull'essenzialità di tale tipo di informazione nel contesto della notizia riportata, allo scopo di tutelare la dignità degli interessati ed evitare ingiustificate spettacolarizzazioni o strumentalizzazioni di scelte personali. Ciò, anche quando la notizia riguardi personaggi pubblici (appartenenti, ad es., al mondo dello spettacolo o dello sport). Fermo restando quanto sopra, nel riferire fatti di cronaca collegati ad abitudini o orientamenti sessuali di una persona si rivelerà in certi casi opportuno tutelare l'interessato, non solamente mediante l'omissione delle sue generalità, ma anche evitando di divulgare elementi che consentono una sua identificazione anche solo nella cerchia ristretta di familiari e conoscenti. Ciò, in ragione del fatto che le informazioni diffuse possono rivelare aspetti della vita dell'interessato medesimo, eventualmente non noti alla suddetta cerchia di persone. Margini più ampi per la diffusione di dati relativi allo stato di salute o alle abitudini sessuali - anche in assenza del consenso dell'interessato - possono essere previsti con riferimento a persone che godono di particolare notorietà, eventualmente anche in ambito locale, in ragione del ruolo o funzione ricoperti. Ciò, però, solo quando l'informazione possa assumere rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica e non vengano diffusi precisi dettagli. In questi termini potrà, ad esempio, essere rilevante l'informazione relativa alla malattia che ha colpito un uomo politico o altra personalità di rilievo pubblico ove ciò sia necessario al fine di informare il pubblico sulla possibilità che ha lo stesso uomo di continuare a svolgere il proprio incarico. L'attuazione delle misure organizzative previste per gli organismi sanitari dall'art. 83 del Codice privacy potrà infine essere di ausilio per chiarire entro quali limiti possono essere fornite, anche per telefono, informazioni a familiari e a terzi circa il ricovero, il passaggio in pronto soccorso, il decesso, ecc. ---- Appendice 4/ Gli articoli del Dlgs n. 196/2003 relative al giornalismo e il Codice di deontologia della privacy (Gazzetta ufficiale 3 agosto 1998) Dlgs. 30 giugno 2003 n. 196. Codice in materia di protezione dei dati personali. (Pubblicato nella Gazz. Uff. 29 luglio 2003, n. 174, S.O). TITOLO XII . Giornalismo ed espressione letteraria ed artistica. Capo I - Profili generali 136. Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero. 1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trattamento: a) effettuato nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità; b) effettuato dai soggetti iscritti nell'elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69; c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell'espressione artistica. 137. Disposizioni applicabili. 1. Ai trattamenti indicati nell'articolo 136 non si applicano le disposizioni del presente codice relative: a) all'autorizzazione del Garante prevista dall'articolo 26; b) alle garanzie previste dall'articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all'estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. 2. Il trattamento dei dati di cui al comma 1 è effettuato anche senza il consenso dell'interessato previsto dagli articoli 23 e 26. 3. In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all'articolo 136 restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all'articolo 2 e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico. 138. Segreto professionale. 1. In caso di richiesta dell'interessato di conoscere l'origine dei dati personali ai sensi dell'articolo 7, comma 2, lettera a), restano ferme le norme sul segreto professionale degli esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia. Capo II - Codice di deontologia 139. Codice di deontologia relativo ad attività giornalistiche. 1. Il Garante promuove ai sensi dell'articolo 12 l'adozione da parte del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti di un codice di deontologia relativo al trattamento dei dati di cui all'articolo 136, che prevede misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Il codice può anche prevedere forme semplificate per le informative di cui all'articolo 13. 2. Nella fase di formazione del codice, ovvero successivamente, il Garante, in cooperazione con il Consiglio, prescrive eventuali misure e accorgimenti a garanzia degli interessati, che il Consiglio è tenuto a recepire. 3. Il codice o le modificazioni od integrazioni al codice di deontologia che non sono adottati dal Consiglio entro sei mesi dalla proposta del Garante sono adottati in via sostitutiva dal Garante e sono efficaci sino a quando diviene efficace una diversa disciplina secondo la procedura di cooperazione. 4. Il codice e le disposizioni di modificazione ed integrazione divengono efficaci quindici giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ai sensi dell'articolo 12. 5. In caso di violazione delle prescrizioni contenute nel codice di deontologia, il Garante può vietare il trattamento ai sensi dell'articolo 143, comma 1, lettera c). Allegato A. Codici di deontologia A.1 Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica. (Provvedimento del Garante del 28 luglio 1998, in G.U. 3 agosto 1998, n. 179) Il Codice di deontologia della privacy Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica. (Provvedimento del Garante 29 luglio 1998 in G. U. del 3 agosto 1998 n. 179 - art. 139 e Allegato A del Dlgs n. 196/2003). Il Garante per la protezione dei dati personali, Visto l'art. 25 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, come modificato dall'art. 12 del decreto legislativo 13 maggio 1998 n. 171, secondo il quale il trattamento dei dati personali nell'esercizio della professione giornalistica deve essere effettuato sulla base di un apposito codice di deontologia, recante misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportati alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale; Visto il comma 4-bis dello stesso art. 25, secondo il quale tale codice è applicabile anche all'attività dei pubblicisti e dei praticanti giornalisti, nonché a chiunque tratti temporaneamente i dati personali al fine di utilizzarli per la pubblicazione occasionale di articoli, di saggi e di altre manifestazioni di pensiero; Visto il comma 2 del medesimo art. 25, secondo il quale il codice di deontologia è adottato dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti in cooperazione con il Garante, il quale ne promuove l'adozione e ne cura la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale; Vista la nota prot. n. 89/GAR del 26 maggio 1997, con la quale il Garante ha invitato il Consiglio nazionale dell'ordine ad adottare il codice entro il previsto termine di sei mesi dalla data di invio della nota stessa; Vista la nota prot. n. 4640 del 24 novembre 1997, con il quale il Garante ha aderito alla richiesta di breve differimento del predetto termine di sei mesi, presentata il 19 novembre dal presidente del Consiglio nazionale dell'ordine; Visto il provvedimento prot. n. 5252 del 18 dicembre 1997, con il quale il Garante ha segnalato al Consiglio nazionale dell'ordine alcuni criteri da tenere presenti nel bilanciamento delle libertà e dei diritti coinvolti dall'attività giornalistica; Vista la nota prot. n. 314 del 23 gennaio 1998, con la quale il Garante ha formulato altre osservazioni sul primo schema di codice elaborato dal Consiglio nazionale dell'ordine e trasmesso al Garante con nota prot. n. 7182 del 30 dicembre 1997; Vista la nota prot. n. 204 del 15 gennaio 1998, con la quale il Garante, sulla base della prima esperienza di applicazione della legge n. 675/1996 e dello schema di codice elaborato, ha rappresentato al Ministro di grazia e giustizia l'opportunità di una revisione dell'art. 25 della legge, che è stato poi modificato con il citato decreto legislativo n. 171 del 13 maggio 1998; Vista la nota prot. n. 5876 del 30 giugno 1998, con la quale il Garante ha invitato il Consiglio nazionale dell'ordine ad apportare alcune residuali modifiche all'ulteriore schema approvato dallo stesso Consiglio nella seduta del 26 e 27 marzo 1998 e trasmesso al Garante con nota prot. n. 1074 dell'8 aprile; Constatata l'idoneità delle misure e degli accorgimenti a garanzia degli interessati previsti dallo schema definitivo del codice di deontologia trasmesso al Garante dal Consiglio nazionale dell'ordine con nota prot. n. 2210 del 15 luglio 1998; Considerato che, ai sensi dell'art. 25, comma 2, della legge n. 675/1996, il codice deve essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, a cura del Garante, e diviene efficace quindici giorni dopo la sua pubblicazione; dispone la trasmissione del Codice di deontologia, che figura in allegato, all'ufficio pubblicazione leggi e decreti del Ministero di grazia e giustizia per la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Roma, 29 luglio 1998 Il presidente Rodotà ------------------------------------------ ALLEGATO ORDINE DEI GIORNALISTI CONSIGLIO NAZIONALE Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica ai sensi dell'art. 25 della legge 31 dicembre 1996 n. 675. Articolo 1 - Principi generali 1. Le presenti norme sono volte a contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all'informazione e con la libertà di stampa. 2. In forza dell'art. 21 della Costituzione, la professione giornalistica si svolge senza autorizzazioni o censure. In quanto condizione essenziale per l'esercizio del diritto-dovere di cronaca, la raccolta, la registrazione, la conservazione e la diffusione di notizie su eventi e vicende relative a persone, organismi collettivi, istituzioni, costumi, ricerche scientifiche e movimenti di pensiero, attuate nell'ambito dell'attività giornalistica e per gli scopi propri di tale attività, si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche dati o altri soggetti. Su questi principi trovano fondamento le necessarie deroghe previste dai paragrafi 17 e 37 e dall'art. 9 della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'Unione europea del 24 ottobre l995 e dalla legge n. 675/1996. Articolo 2 - Banche-dati di uso redazionale e tutela degli archivi personali dei giornalisti 1. Il giornalista che raccoglie notizie per una delle operazioni di cui all'art. 1, comma 2, lettera b) della legge n. 675/1996 rende note la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa; evita artifici e pressioni indebite. Fatta palese tale attività, il giornalista non è tenuto a fornire gli altri elementi dell'informativa di cui all'art. 10, comma 1, della legge n. 675/1996. 2. Se i dati personali sono raccolti presso banche dati di uso redazionale, le imprese editoriali sono tenute a rendere noti al pubblico, mediante annunci, almeno due volte l'anno, l'esistenza dell'archivio e il luogo dove è possibile esercitare i diritti previsti dalla legge n. 675/1996. Le imprese editoriali indicano altresì fra i dati della gerenza il responsabile del trattamento al quale le persone interessate possono rivolgersi per esercitare i diritti previsti dalla legge n. 675/1996. 3. Gli archivi personali dei giornalisti, comunque funzionali all'esercizio della professione e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, sono tutelati, per quanto concerne le fonti delle notizie, ai sensi dell'art. 2 della legge n.69/1963 e dell'art. 13, comma 5 della legge n. 675/1996. 4. Il giornalista può conservare i dati raccolti per tutto il tempo necessario al perseguimento delle finalità proprie della sua professione. Articolo 3 - Tutela del domicilio 1. La tutela del domicilio e degli altri luoghi di privata dimora si estende ai luoghi di cura, detenzione o riabilitazione, nel rispetto delle norme di legge e dell'uso corretto di tecniche invasive. Articolo 4 - Rettifica Il giornalista corregge senza ritardo errori e inesattezza, anche in conformità al dovere di rettifica nei casi e nei modi stabiliti dalla legge. Articolo 5 - Diritto all'informazione e dati personali 1. Nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, il giornalista garantisce il diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti. 2. In relazione a dati riguardanti circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico, è fatto salvo il diritto di addurre successivamente motivi legittimi meritevoli di tutela. Articolo 6 - Essenzialità dell'informazione 1. La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l'informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell'originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti. 2. La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica. 3. Commenti e opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione nonché alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti. Articolo 7 - Tutela del minore 1. Al fine di tutelarne la personalità, il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro identificazione. 2. La tutela della personalità del minore si estende, tenuto conto della qualità della notizia e delle sue componenti, ai fatti che non siano specificamente reati. 3. Il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca; qualora, tuttavia, per motivi di rilevante interesse pubblico e fermo restando i limiti di legge, il giornalista decida di diffondere notizie o immagini riguardanti minori, dovrà farsi carico della responsabilità di valutare se la pubblicazione sia davvero nell'interesse oggettivo del minore, secondo i principi e i limiti stabiliti dalla "Carta di Treviso". Articolo 8 - Tutela della dignità delle persone 1. Salva l'essenzialità dell'informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell'immagine. 2. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato. 3. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi. Articolo 9 - Tutela del diritto alla non discriminazione 1. Nell'esercitare il diritto-dovere di cronaca, il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali. Articolo 10 - Tutela della dignità delle persone malate 1. Il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza e al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali, e si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico. 2. La pubblicazione è ammessa nell'ambito del perseguimento dell'essenzialità dell'informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica. Articolo 11 - Tutela della sfera sessuale della persona 1. Il giornalista si astiene dalla descrizione di abitudini sessuali riferite ad una determinata persona, identificata o identificabile. 2. La pubblicazione è ammessa nell'ambito del perseguimento dell'essenzialità dell'informazione e nel rispetto della dignità della persona se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica. Articolo 12 - Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali 1. Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'art. 24 della legge n. 675/1996. 2. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'art. 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'art. 5. Articolo 13 - Ambito di applicazione, sanzioni disciplinari 1. Le presenti norme si applicano ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti e a chiunque altro, anche occasionalmente, eserciti attività pubblicistica. 2. Le sanzioni disciplinari, di cui al titolo III della legge n. 69/1963, si applicano solo ai soggetti iscritti all'albo dei giornalisti, negli elenchi o nel registro.
Il presidente Petrina
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