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Fuori Binario, giornale di strada dei senza dimora di Firenze Numero 78 – gennaio 2004
di Emmepi
Quando per la prima volta nella mia vita ho varcato le soglie del carcere come parente in visita mi sono da subito resa conto che stavo per venire in contatto con qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. Le mie gambe tremolanti sembravano non reggere la prova. Non posso parlare della condizione detentiva all’interno del carcere poiché non ne conosco i dettagli. Ma posso certamente testimoniare che in quanto parente di una detenuta io ho percepito e vissuto la punizione su di me. Come se una delle regole non scritte del carcere sia quella che i parenti di coloro che hanno commesso un reato in qualche modo devono pagare. Superati i cancelli ci si introduce dentro una stanza - accoglienza per i dovuti atti burocratici e in attesa di essere chiamati per il colloquio. Le mura disadorne della stanza accoglievano quel sabato mattina circa trenta parenti. Troppi per essere rinchiusi in quei pochi metri quadri. Per terra, vicino alla macchina che controlla i contenuti dei pacchi per i detenuti, erano depositate una ventina di buste contenenti cibo e vestiario. Nello spostarsi bisognava fare attenzione a non calpestarli. Cibi, vestiti, parenti, tutti aventi gli stessi diritti. Due panche di legno erano l’unico segno di diritto: quello di potersi sedere a turno. La gente aumentava, così come la confusione, così come gli odori emanati dai nostri corpi e dai pacchi contenenti cibi. Per un istante mi sono ritrovata a chiedere a me stessa quali crimini avessi commesso per meritare una simile accoglienza. No, non occorre commettere un reato per assaporare il sapore del sistema carcerario. Il reato è anagrafico. La colpa dei padri che cade sui figli e quella dei figli sopra i padri per estendersi con effetto alone ai vari gradi di parentela. Come notizia della situazione mi ritrovo a commettere "errori" dovuti alla non conoscenza di specifiche regole, regole tutte interne. Il regalino che desideravo poter donare a mia sorella viene ritenuto "inadeguato" per poter passare. Io non vivo nei pressi del carcere, vivo addirittura all’estero e poter venire a far visita è uno dei grandi avvenimenti dell’anno sia per me che per mia sorella. Il nostro stato d’animo, nel momento in cui ci si vede, è quello di potersi dare tutto il possibile: i racconti, i sorrisi e i pianti, e, perché no, un piccolo presente che faccia percepire a mia sorella la presenza costante di qualcuno vicino a lei. Tutto ciò non ha alcun significato all’interno delle regole del carcere. Capisco che le regole aiutano il sistema a funzionare meglio per la garanzia della sicurezza; ma le individualità, le esigenze personali sono annullate. Sì lo so, questi sono concetti naif alle orecchie di coloro che lavorano nella struttura. Non è forse parte della coscienza collettiva la nozione che il carcerato smette di essere individuo per diventare "numero" nel momento in cui deve scontare la pena? Se questo è vero per i più, non lo è per coloro che all’interno del carcere non hanno un numero ma un affetto, un cuore che soffre, una mente che paga. Quando il piccolo regalo mi viene restituito come oggetto superfluo chiedo se fosse stato possibile avere una lista di cose accettabili. L’agente evita di guardarmi, il suo sguardo freddo, cinico, fisso nel vuoto, si sposta verso un muro distante da lui e con un cenno del capo mi indica una lista lì appesa. Alla mia richiesta di poterne avere una fotocopia ricevo una secca risposta: "No, non è possibile". Il suo sguardo evita di incontrare il mio, il suo viso è severo, ne ho paura, non vado oltre con le richieste. Quest’uomo è l’incarnazione del carcere. Poco prima un piccolo metaldetector aveva segnalato la presenza di un orologio indossato da un ragazzo extracomunitario. L’agente non perde l’occasione per investire di rimproveri il ragazzo colpevole di non sapere che questi oggetti non vanno indossati in presenza dei detenuti. Mi ritrovo a chiedere a me stessa dove e come si possa accedere a queste informazioni. Dopo aver assolto gli atti burocratici vengo anch’io posta in attesa di… non so cosa con precisione. L’attesa è lunga e mi aiuta un orologio appeso al muro a calcolare che è ormai più di un’ora che sono in questa stanza. Mi permetto di chiedere all’agente quanto tempo ancora sia previsto per l’entrata. "Un altro po’", mi sento rispondere in modo secco e crudo, senza emozioni. Passano pochi secondi per realizzare che questo "Un po’" in realtà non mi dà alcuna informazione utile per capire quanto devo ancora aspettare. Ma non oso chiedere altro. Il suo tono di voce secco ha avuto il potere di azzittirmi. Non è mio diritto sapere e ho avuto la sfrontatezza di chiedere troppo. Tutti in questa stanza sembrano accettare con accondiscendenza queste regole, queste risposte, questi trattamenti. L’agente arrogante e il cittadino arrendevole. Per un po’ la mia mente si confonde: forse sono io a sbagliare, forse quei diritti umani di rispetto ai quali i normali cittadini sono abituati devono essere lasciati fuori dai cancelli di questa struttura. I parenti portano dentro se stessi anni di angosce, dolori, tristezza, spesse volte forti sensi di colpa, il loro grado di fragilità emozionale e psichica è grande. Cosa li accoglie prima ancora di vedere il loro carcerato? Uno sprezzante secondino che con aria fredda e cinica emette ordini o rimproveri. Chi mai avrebbe il coraggio o la sfrontatezza di ribellarsi contro una istituzione che tiene i tuoi figli, tuo fratello, tuo padre o tua madre in custodia? Ecco allora si vede scendere la passività, l’accettazione, la cancellazione della nostra individualità. Si è solo un altro cognome (che qui ha valore di numero) in lista per accedere ai colloqui. C’è chi riesce ancora a ridere e scherzare, forse è un modo per alleggerire la tensione; io invece non riesco a bloccare le lacrime che scendono come ruscelli. Dove mi trovo? E, soprattutto, se questo è il trattamento per gli innocenti quale sarà quello riservato ai detenuti, a mia sorella? I miei occhi continuano ad appannarsi al passeggio delle lacrime. "Si faccia forza" mi sento dire da un’agente donna. Una parola di conforto giunta ad aiutarmi a proseguire verso l’incontro con mia sorella. Il mio cognome insieme ad altri viene chiamato per avviarsi verso lunghi e silenziosi corridoi del carcere e passare alla perquisizione fisica di ciascuno di noi parenti. Nessuna spiegazione viene data. La mia sensazione di essere trattata come una presunta colpevole viene ancor più fomentata da questi passaggi e dalla modalità con cui vengono svolti. Poi ancora attesa. Finalmente il colloquio. Vedo mia sorella per la durata di un’ora in una stanzina alla presenza di altre famiglie. C’è un senso di sovraffollamento, mancanza di intimità. Il rimbombo dei suoni e il tono alto della voce di qualcuno fa aumentare il volume della voce degli altri. Anche se io e mia sorella siamo vicine è necessario più volte chiederle di ripetere le frasi. Mantenere una fluente conversazione diventa arduo. La nostra ora di colloquio termina su un "cosa hai detto?". I cancelli del carcere si chiudono alle mie spalle ma si apre dentro di me una nuova consapevolezza: non è tollerabile che al dolore delle semplici persone con cui ho condiviso questo viaggio all’interno del carcere si aggiunga in modo gratuito altro dolore. La punizione è triste e sofferente, le regole all’interno delle quali la punizione si esplica sono rigide e prive di flessibilità. Sicuramente molti operatori del carcere svolgono il loro lavoro con una forte componente umanitaria, capaci di ascoltare e sensibili alle esigenze emozionali dei detenuti. Ma fra i molti capaci non mancano gli agenti che personificano le brutture del sistema. Costoro contribuiscono a rallentare un possibile, e direi necessario, processo di modernizzazione della istituzione carceraria. Una modernizzazione che tenga presenti i basilari diritti umanitari. La mia mente torna nella stanza dove ha avuto inizio questa visita: vanno anche bene le due panche dove sedersi a turno, non è di sfarzo che abbiamo bisogno, ma di rispetto, sì. Un mi dì che ci rivogliono penalizzare?
di Mic
O scoppiatello, che si dice? Tutto bene? Eh, ha parlato quello bono… sì, ‘un mi lamento, so’ andato ora al Ser.T. per il metadone, è un buon periodo questo, a casa benino, a lavoro poi ‘un ci lamentiamo, il farmaco mi sta aiutando, me lo danno in affidamento e l’aiuto della psicologa un’ è da trascurà di certo… Senti, io ‘un te lo volevo dì, ma hai sentito della proposta di legge sulle droghe che ha fatto quel gentilomo di Fini? Pare che ora vogliano decidere anche per i medici, e che diano il metadone solo se poi te lo levi e entri in comunità… Avevo sentito qualcosa ma pensavo fosse uno scherzo… invece t’ho pensato quando ho letto che con questa legge tutte le droghe so’ uguali… ora lo sai quanti ragazzini bischeri come noi vanno a fassi l’eroina perché magari pensano ‘un faccia nulla come le canne! E poi anche te datti una regolata perché con qualche canna di troppo o con qualche pasta in più, ti becchi da 6 a 20 anni di Sollicciano! O questa?!? O chi l’ha detta, il Gabibbo? ‘Un mi dì che rivogliano penalizzare il consumo personale?!? O ‘un s’era vinto il referendum nel ‘93??? Mica andranno contro una legge con un’altra legge??? Sai, a questi gli stà in pensiero… ma ‘un’è finita qui, maremma diavola. Ho anche sentito che rimettano la famosa dose media giornaliera, quella di Craxi, che mandò in galera tanti ragazzi per uno spino, e diversi s’ammazzarono… il bello è che hanno stabilito delle dosi massime, lo sai qual è la sostanza per la quale il tetto di tolleranza è più alto? Fammi indovinà… per caso c’entra qualcosa l’ispettore Colombo e un certo Miccichè??? Ispettore ‘un’è ma ci siamo capiti… ma che so’ grulli, tanto ce n’è poca di coca in giro… Ma dimmi… te quant’è che ‘un vedi il camper in piazza, con i ragazzi che ci danno le siringhe sterili, i preservativi e che ci fanno fa’ due chiacchiere in santa pace e magari ci danno anche qualche dritta per qualche lavoro o per la scuola serale? Eh… loro è un po’ che ‘un li vedo, e pensa che hanno chiuso da un anno anche Porte Aperte… che brutta aria tira… ci so’ sempre meno possibilità, e buttano all’aria tutti i servizi pubblici… Zitto, vai, che l’altro giorno pe’ ave’ un colloquio al Ser.T. ho dovuto penare… ma lo sai che in tutto il servizio c’era un medico, un’infermiera e un’assistente sociale e basta? Peggio che andà di notte! Anche loro stanno benino, sì… con questi chiari di luna basta dalli una spallata e fine dei giochi… tutti i soldi li danno ai soliti, ai privati, un’ ti rimane altro che andà in certe comunità e poi con la legge Fini - dio ce ne scampi e liberi - anche i privati potranno certificare la tossicodipendenza… t’immagini che bisness! Siam messi di nulla, vai… certo sarebbe anche l’ora di dassi una svegliata, un credi? Invece di rintronassi a ‘sto modo e di piangessi sempre addosso… io pe’ falli schifo mi ci farei sopra una bella fumata d’erba, mira! Ma fosse quella il problema… anche se ora pure quella diventa un casino per colpa di questi mascalzoni… ma che ci rimane da fa’, davvero? Senti, in carcere in tutta Italia c’è quasi 60 mila cristiani, pare che sui 20 mila siano tossici o giù di li… e per loro so’ tutti, ricordatelo… allora, o si fa compagnia a quei 20 mila, o ci chiude a San Patrignano e ci buttano via le chiavi oppure ci si dà una regolata perché se anche anche ti beccano con qualche canna ti levano ogni cosa, patente, motorino, ti danno anche gli arresti domiciliari e ti vietano di frequenta certi locali… ma ti rendi conto? Poi chi chiami, Padre Pio??? Pare d’esse ai tempi del mi’ nonno… Da mettessi le mani nei capelli, davvero. Speriamo che almeno i Ser.T. e gli operatori in gamba dicano qualcosa… certo che anche noi si dovrebbe inizià a fa’ qualcosa, a crede di più in noi stessi e smettela di votassi a questo o a quel santo… San Patrignano ‘un ci garba, ma anche San Pierino bene bene ‘un ci dice… Dà retta, giangi, stiamo in campana, ‘sta leggiaccia ‘un deve passà… ma comunque vada, su la testa!!!
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