Giornali di strada

 

Il Brontolo - Numero 1

Mille e una voce dalle strade e dalle piazze

 

“Ammazzare” il tempo o usarlo tutto...

L’asilo notturno e poi?

Avvocato di strada

Dal carcere alla strada

La voce delle piazze

Gli operatori di strada

Una riforma messa sotto osservazione

Il tempo degli studenti tra dovere e piacere

Uno diventa barbone quando non ha più la forza

Zorro, un eremita sul marciapiede

L’Asilo Notturno visto da una volontaria

Il Brontolo: proviamo a farlo conoscere

“Ammazzare” il tempo o usarlo tutto, minuto per minuto, esperienza per esperienza?

Il tempo protagonista del secondo numero del Brontolo

 

Il tempo degli uomini deve fare i conti con tante variabili... è un tempo continuamente interrotto, dilatato, compresso, sfruttato, sotto utilizzato, “ammazzato”! Ogni giorno giochiamo pezzi del nostro tempo sul tavolo della vita. A volte perdiamo... tempo, altre volte vinciamo perché riusciamo a dare un senso a quello che siamo e stiamo facendo, e arricchiamo e aggiorniamo l’hard disk che conserva il passato delle nostre esperienze e costruisce il futuro cercando di utilizzare al meglio tutto il tempo che abbiamo a disposizione.

Ci sono luoghi nei quali il tempo sembra tantissimo e però è tempo pesante, inutile, opprimente: è il tempo dei luoghi chiusi, il tempo del carcere, che si è costretti ogni giorno a contare e a misurare per farlo passare più in fretta e dare la scalata alla libertà. Ma chi sta “fuori”, libero, spesso si dimentica di quanto sia bello il tempo, si annoia, guarda l’orologio e aspetta che venga sera, o arrivi presto il sabato. Noi raccontiamo il tempo dei luoghi chiusi come il carcere, e quello dei luoghi aperti come le piazze, perché nel confronto ognuno di noi possa apprezzare un po’ di più, e mettere a frutto il tempo che ha, negli spazi che ha in quel momento.

I nepalesi pensano che da bambini fino all’età di 2 anni abbiamo tutte le conoscenze per rispondere e “vivere” tutte le domande e che poi progressivamente ce ne dimentichiamo... forse è per vivere il nostro tempo riscoprendolo e reinventandolo attimo per attimo?

 

L’asilo notturno, e poi? Il tempo e gli spazi della città durante il giorno

Il problema di occupare la giornata quando non si ha un posto dove andare.

 

Stare in giro per strada di giorno se non sai dove andare e non hai niente da fare può essere piacevole ogni tanto, forse, in una bella giornata d’estate, ma se quella è la tua vita sempre e non trovi alternative, allora è tutta un’altra cosa. E le città rivelano subito un aspetto spesso ben nascosto: la loro scarsa generosità, l’incapacità di offrire un posto decente in cui stare, in cui ricostruirsi un possibile percorso per impegnare diversamente la propria vita. Ne abbiamo parlato una sera all’Asilo Notturno, volontari e ospiti insieme.

 

Alessandra (volontaria): Come passate il tempo fuori dal Torresino? Come lo vivete?

Toni: Il tempo libero per noi è difficile, è una cosa pazzesca. Chi non ritiene che il tempo sia utile per fare qualcosa durante la giornata non chiede niente alla vita. Pretende un pasto al giorno, un posto per dormire, e gli va bene così. Se invece una persona comincia ad avere un po’ di orgoglio personale, da dire “io devo essere qualcuno nella vita”, certamente allora ammazzare il tempo è impossibile. Fa di tutto per fare qualsiasi lavoro, anche se lavorare costa fatica. Ma per la maggior parte delle persone che vivono al Torresino il lavoro è un sacrificio troppo pesante. Adesso, per fortuna, io ho ripreso a lavorare, per me è la vita non essere più in giro per strada.

Eleonora (volontaria): Che lavoro fai?

Toni: Faccio assemblaggio, ma più che un lavoro è un passatempo. Per me vuol dire far venire sera, avere uno scopo per alzarmi la mattina, e mi dà soddisfazione perché vedermi senza far niente era un sacrificio enorme. È più forte di me, sono le abitudini che si prendono nel corso della vita. Molti mi dicono: “Perché ti sacrifichi così tanto per quel poco che ti danno?”. Eppure non c’è niente di più importante che sentirsi impegnati, non essere più in giro.

Eleonora: Quanto tempo sei stato senza lavoro?

Toni: Quattro mesi, cioè da quando sono qui. Per me è stato un inferno, non riuscivo a far venire sera.

Alessandra: E quando non lavoravi dove andavi?

 

Toni: Qualche volta andavo in stazione, qualche volta alla sala corse, altre volte in biblioteca. Era difficile riuscire a far passare la giornata, una cosa tremenda, non riuscivo a trovare pace. Purtroppo qui dentro questa domanda si può fare solo a cinque o sei persone, non di più.

Daniele (volontario): Gli altri invece?

Toni: Chi si accontenta di avere un posto per dormire e un pasto al giorno vive solo di espedienti. C’è chi va dai preti per farsi dare qualcosa, chi fa qualche furtarello, chi chiede l’elemosina per poter racimolare qualcosa.

Daniele: Tu prima parlavi di due tipi di persone: quelli che si danno da fare e desiderano sentirsi impegnati, e quelli invece che si accontentano del poco che hanno e non cercano nient’altro. Forse anche chi ora vive di espedienti si è prima dato da fare per trovare qualcosa, ma non essendoci riuscito ha poi perso la speranza.

Toni: Ma uno presto o tardi qualcosa trova. Io ad esempio ho fatto perfino volantinaggio, perché anche questo è un lavoro, un modo per impegnare la giornata.

 

La gente deve capire che cosa vuol dire vivere in strada

 

Alberto (volontario): E com’è invece il tempo che si passa con gli altri, le persone che s’incontrano durante la giornata, il modo di rapportarsi con loro?

Toni: Quelli che conosci cerchi di evitarli, perché in fondo ti vergogni della situazione in cui ti trovi. È come un marchio che ti porti appresso, per cui la mattina quando esco mi auguro di non incontrare nessuno tra le persone che conosco. Perché l’ho provato sulla mia pelle, quando dico a qualcuno che dormo al Torresino mi accorgo subito della faccia che fanno.

Vincenzo: Sì, storcono il muso, ma quello che pensa la gente secondo me è ignoranza. Primo perché deve capire e rispettare gli altri, secondo perché deve imparare a capire che cosa vuol dire vivere in strada. Loro non lo sanno perché non l’hanno mai provato.

Toni: So cosa vuoi dire, ma sai perfettamente che quando vivi al Torresino – e qui dentro c’è un po’ di tutto, lo vediamo ogni giorno con i nostri occhi – la società ti calcola tale e quale, senza nessuna distinzione.

Vincenzo: Sì, fa di tutta l’erba un fascio.

Toni: Sì, però in cuor tuo non ti senti allo stesso livello degli altri, e allora ti fa male se ci tieni alla dignità personale.

Alberto: Vincenzo, tu prima parlavi dell’ignoranza della gente, riesci sempre a mettere da parte quello che pensano gli altri?

Vincenzo: Cerco di non dargli troppo peso. Se incominci a dargli peso che fai?

Daniele: Se dici che vivi al Torresino, quale reazione noti nella gente?

Vincenzo: Per molti il Torresino è come la galera, chi dorme qui è gente da galera, delinquente. Sono ignoranti, dovrebbero capire che se una persona dorme al Torresino o in qualche altra struttura del comune è perché ha problemi con la casa o con il lavoro. Quindi non deve giudicare, prima bisogna valutare, capire bene il motivo, la situazione.

Toni: Io concordo con te, ma purtroppo questo è il marchio che ci siamo fatti noi. Se l’avessi saputo prima non sarei mai venuto al Torresino.

Vincenzo: In che senso il marchio? Marchio di che cosa?

Toni: Che si è considerati un avanzo della società una volta entrati qua.

Vincenzo: Perché a tutta la gente che incontri vai a raccontare che dormi al Torresino?

Toni: No, però quando vai a fare una domanda un punto di riferimento devi darlo, ad esempio per una richiesta di lavoro.

Vincenzo: Questo è anche vero. Magari ti promettono un lavoro, poi però se vengono a sapere che alloggi nelle strutture comunali non ti chiamano più. A me è successo, e allora se adesso mi chiedono dove dormo io rispondo “da amici”. Così mi conviene rispondere.

Toni: Io lo dico chiaro e tondo. Tempo fa ho presentato domanda per fare il nonno vigile. Tu sai benissimo che devi avere la scheda perfetta, altrimenti non vai nemmeno a fare domanda. Quando ho lasciato il recapito telefonico del Torresino l’impiegata del comune ha smesso di scrivere, ha alzato la testa e mi ha guardato. Per me è stata un’umiliazione enorme. Naturalmente le ho spiegato che se presentavo domanda era perché non c’era niente da dire sul mio conto.

Alberto: Così ti sei sentito in dovere di giustificarti.

 

Appena parli del Torresino noti subito che molti prendono le distanze

 

Toni: È normale di fronte al gesto che ha fatto la signora. Ho sentito di dover chiarire che non ho problemi con la legge, perché loro in due e due quattro sanno tutto. Prima di chiamarti s’informano alla questura, è normale perché occupi una posizione del comune e se sei segnalato non ti danno quel posto. Anche per altri lavori purtroppo. Non riesco a dire una cosa per un’altra, la realtà è questa, ma appena parli del Torresino noti subito che la gente prende le distanze. È veramente difficile trovare lavoro una volta entrati qua.

Daniele: Forse allora il problema principale è che qui al Torresino è tutto un miscuglio, ci sono tante persone, ognuna con la propria storia, con i suoi particolari problemi, però alla fine non si fanno distinzioni..

Toni: Per chi vive fuori noi del Torresino siamo tutti uguali.

Vincenzo: Ogni persona è qui al Torresino perché ha una storia, un motivo, c’è chi non ha la famiglia, chi si è trovato improvvisamente in mezzo alla strada. Ogni persona che entra qui o in un’altra struttura del comune ha dei problemi. C’è chi ama starsene in stazione e dormire per terra, c’è chi vorrebbe uscire dai suoi problemi e allora preferisce un letto con lenzuola e coperte. Se ci sono posti in strutture come il Torresino che possono aiutare la gente, se uno se la sente ci va, altrimenti non dipende dagli altri dargli una mano, dipende dalla persona, è una scelta di vita che fa. Se uno si abitua a dormire sui cartoni non lo convincerai mai a dormire su un letto.

Daniele: Questo perché secondo te?

Vincenzo: Perché ci sono due tipi di persone. C’è chi lo fa per scelta perché gli piace così, e chi è costretto a farlo dalle circostanze finché non si risolleva. Se uno si abitua a fare questa vita qua, se ha un poco da mangiare, un posto per dormire, che gl’importa di andare a lavorare? C’è gente che ragiona così, altri invece solo per un po’, fino a quando non trovano una via d’uscita.

Daniele: Ma per alcuni stare al Torresino può essere molto meglio che stare in mezzo alla strada. Forse si accontentano non perché desiderano questa vita, ma perché dopo tanti tentativi falliti si sono rassegnati.

Toni: Anche senza un soldo in tasca, uno se ha dignità non va a chiedere l’elemosina. Io sono stato per parecchio tempo senza neanche cento lire, ma nemmeno per un tè caldo ho chiesto l’elemosina.

Alberto: Ma se uno ha fame?

Toni: Anche se ho fame, piuttosto muoio di fame che chiedere l’elemosina. È una questione di dignità, di orgoglio personale.

Alberto: Eppure il gesto dell’elemosina se toglie dignità a chi chiede, toglie anche a chi dà, a chi ti passa accanto e finge di non vedere, a chi si ferma e magari ti offre una moneta.

 

Perché non fare partecipare le persone alla gestione della struttura dell’asilo?

 

Toni: Piuttosto che insistere per avere qualche moneta preferisco morire di fame, almeno muoio con la mia dignità. Perché poi diventa un’abitudine, un vizio, ti accorgi che ti può bastare per vivere e ti va bene così.

Daniele: Allora però non è una scelta consapevole ma più che altro un vizio, come dici tu, dopo un po’ che uno prova a trovare lavoro e non ci riesce si accontenta di sopravvivere, è più l’impotenza a risolvere i propri problemi che non una scelta.

Toni: È un’abitudine, così si continua per tutta la vita e non c’è via di scampo. Lo stesso discorso per i sussidi che vengono dati anche a persone molto giovani. Allora uno arriva al punto di dire: “Chi me lo fa fare di andare a lavorare per prendere 700/800 euro, se posso avere un sussidio di 300/400 euro al mese?”. Io posso capire le persone anziane, che non sono più in condizione di lavorare, ma chi ha 30 anni no. Quand’è che queste persone andranno in cerca di un lavoro, che cercheranno di risolvere i problemi della vita?

Daniele: Forse è un circolo vizioso perché chi entra qui fa più fatica degli altri a trovare lavoro e più facilmente si abitua a sopravvivere e ad accontentarsi del poco che ha, così a un certo punto rinuncia anche ad uscire da questa situazione.

Alberto: E questo è in forte contraddizione con il senso dell’asilo notturno, che vorrebbe essere anzitutto un luogo di passaggio per persone temporaneamente in difficoltà.

Toni: Alcuni ospiti del Torresino sono in cerca di lavoro, ma pregano Dio di non trovarlo. È gente fragile di carattere, senza stimoli. E poi anche gli assistenti sociali dovrebbero per prima cosa fare una scelta, escludere tutta una categoria di persone, ad esempio quelle che ogni giorno mancano di rispetto nei confronti degli altri e della vita.

Daniele: Perché allora non dare un po’ di responsabilità a queste persone per evitare che si adagino, abituandosi a non fare niente? Perché non farli partecipare attivamente alla gestione della struttura dell’asilo, ad esempio nel tenere pulita la propria stanza, nell’aver cura delle cose comuni? In questo modo gli ospiti sarebbero posti di fronte a una piccola partecipazione diretta e quindi responsabilizzati.

Alberto: Il principio è senz’altro giusto, bisogna però vedere se è un discorso che può valere per tutti, cioè se tutti possono essere responsabilizzati.

Toni: Ma non credo che questo potrebbe funzionare, non credo che si possa in questo modo mettere le persone in carreggiata.

 

“Avvocato di strada di Padova” un primo bilancio dell’attività

 

Lo sportello di tutela dei diritti dei senza dimora funziona! E tante persone si possono sentire un po’ meno abbandonate perché oggi c’è chi si occupa dei loro diritti

di Nicola Sansonna, responsabile della segreteria di “Avvocato di Strada”

 

Quando inizia una nuova attività c’è sempre da mettere in conto l’incognita di un possibile insuccesso. Probabilmente c’era e ci può essere ancora anche nel caso di “Avvocato di strada di Padova”, il rischio di incontrare ostacoli e pesanti difficoltà, ma i risultati ottenuti sinora fanno ben sperare. Quello che mi ha colpito è stato l’entusiasmo di tutti i partecipanti, che hanno aderito e fatto sì che questo sogno, nato a Bologna quattro anni fa dalla mente di Antonio Mumolo e pochi altri avvocati, attecchisse anche a Padova.

Dopo la prima riunione del 19 novembre, in cui sono stati stabiliti i criteri di gestione e i principi cardine, tutto per noi restava ancora a livello teorico, perché la parte relativa all’interfaccia con gli utenti e a chi dovesse poi essere fisicamente presente i giorni degli incontri era ancora da definire. Abbiamo allora iniziato a preparare i volantini, la modulistica, i biglietti da visita: insomma l’essenziale per cominciare a lavorare e a far saper che a Padova era arrivato il servizio “Avvocato di strada”.

Il primo passo poi verso l’esterno è stato di parlare con i responsabili delle varie strutture in cui avvengono materialmente gli incontri, ad esempio don Gianfranco direttore della Caritas diocesana, che ci ha messo a disposizione il lunedì l’ufficio di via Vescovado 23: lì facciamo sportello dalle 15 alle 18 circa, secondo l’affluenza.

Non pubblicizziamo le iniziative con spot, annunci o altro, andiamo semplicemente nei luoghi dove abitualmente chi è particolarmente disagiato e senza fissa dimora si può recare.

Quale posto più indicato delle cucine economiche popolari? Una persona veramente speciale ci ha, come dire, “introdotti nell’ambiente”: Suor Lia, da lei ho appreso un metodo che io, i praticanti e i volontari con i quali incontro possibili utenti, abbiamo immediatamente adottato: parlare con la gente con semplicità, farsi conoscere, farsi accettare da loro, e spiegare quale servizio siamo in grado di offrire. Lo abbiamo fatto, ed è efficace.

Mercoledì primo dicembre abbiamo organizzato la prima riunione, presenti gli avvocati, e deciso che il giorno successivo avremmo avviato l’attività.

In tutta sincerità ero piuttosto emozionato, stavo per iniziare qualcosa di nuovo che a Padova nessuno aveva ancora fatto: dire alle persone che non hanno mezzi: “Guarda che i tuoi diritti c’è qualcuno che è pronto a tutelarli, e in maniera gratuita”. Questo è il senso del mio lavoro.

La mattina del 2 dicembre, quando sono arrivato al primo appuntamento, ho trovato già lì Valentina e Fernanda (che con Annamaria, Isabella e Flora collaborano alla gestione dello sportello): Valentina raccoglieva i dati e spiegava l’iniziativa, si aggirava tra le persone distribuendo volantini e presentando il progetto; in un eccesso di entusiasmo, aveva addirittura svegliato due persone che si erano appisolate sul tavolo per dire cosa potevamo fare per loro... Mi sono unito a Valentina e, dopo aver spiegato cosa proponevamo, abbiamo raccolto i primi appuntamenti, utilizzando la grande esperienza di Fernanda, segretaria in uno studio legale per anni. Il primo incontro con i legali è stato fissato per lunedì 6 dicembre, e lo ha svolto l’avvocato Vittorio Manfio del Foro di Padova, che aderisce al progetto. Da allora altri avvocati si sono avvicendati e il lavoro è in crescendo. In totale, oltre all’avvocatessa Giulia Perin, che è stata un po’ il traino tra gli avvocati, abbiamo quindici avvocati tra civilisti e penalisti che hanno aderito, e contiamo di crescere ancora.

Dal 2 dicembre a tutt’oggi abbiamo fissato 90 appuntamenti; si sono presentate ai colloqui con gli avvocati, che si sono succeduti agli incontri con gli utenti, 45 persone. In tutti i casi viene aperta una pratica. Esistono un archivio cartaceo e un archivio informatico degli appuntamenti. La maggior parte degli incontri si conclude con consigli legali e di indirizzo; su alcuni si sta procedendo all’apertura di un fascicolo per il procedimento legale. Ma in ogni caso c’è sempre la volontà di ascoltare e di cercare una soluzione, dove questo è possibile, ai problemi che di volta in volta si presentano.

 

Il progetto “Avvocato di Strada” a Padova è stato promosso dal Gruppo Operatori Volontari Carcerari, dalla coop sociale AltraCittà, la coop sociale Cosep, e l’associazione di volontariato penitenziario “Il Granello di Senape”. È cofinanziato dal Centro di Servizio per il Volontariato della Provincia di Padova.

Il progetto è stato elaborato da Francesco Morelli del “Granello di Senape”.

Nasce per la tutela dei diritti delle persone senza fissa dimora, a cui esclusivamente potrà essere data assistenza legale gratuita.

La gestione dello sportello è affidata alla Cooperativa AltraCittà; con l’apporto dell’associazione “Il Granello di Senape”, mentre la coop sociale Cosep si occupa del neonato giornale di strada ‘Il Brontolo’.

 

Gli sportelli di “Avvocato di Strada - Padova” sono già attivati presso:

Le Cucine Economiche Popolari, via Tommaseo, 12, il martedì ed il giovedì dalle 9,00 alle 12,30

La “Caritas Diocesana”, via Vescovado 23, il lunedì dalle ore 15,00 alle ore 18,00

Responsabile della segreteria di “Avvocato di Strada”: Nicola Sansonna

Per informazioni:

Segreteria, Tel. 049.8210745 Fax 049.8764481

E-mail: avvocatodistradapd@yahoo.it

 

 

Dal carcere alla strada il passo è troppo breve

“L’inferno” della galera, a volte, è nulla, rispetto a quello che fuori aspetta un ex detenuto

 

Testimonianza raccolta da Francesco Morelli

 

Fausto ha 44 anni, usa droghe fin da quando era ragazzo e questo ha reso la sua vita progressivamente più complicata e precaria. Si è “disintossicato” un’infinità di volte, le prime col sostegno di operatori e famigliari, poi semplicemente perché finiva in carcere, dove le “sostanze” si reperiscono con fatica e comunque costano il triplo rispetto ai prezzi correnti “in piazza”.

Col trascorrere del tempo, del resto, i periodi di detenzione si sono fatti sempre più lunghi (e quelli di libertà più brevi ovviamente….), quindi Fausto è riuscito a restare “pulito” abbastanza per avere una condizione fisica discreta.

L’ultima carcerazione è durata 5 anni e mezzo, determinata dalla somma di una dozzina di condanne: piccole detenzioni e piccoli furti… ordinari “inconvenienti”, per chi vive nel mondo della tossicodipendenza.

 

Storia di Fausto: dopo la galera, la strada, il foglio di via, un furto per sopravvivere, forse ancora la galera

 

A giugno Fausto viene “dimesso” dalla Casa di reclusione di Padova. Ha qualche soldo, ricevuto per i turni di “scopino” fatti, un paio di tute da ginnastica e il certificato di detenzione…. niente altro. Non ha documenti: la patente di guida gliel’hanno tolta con il primo arresto, a 23 anni, e la carta di identità è andata smarrita chissà dove…

Finché ha soldi trova qualcuno che gli dà un posto per dormire… fuori dai circuiti “ufficiali” dell’accoglienza, si intende: solidarietà tra emarginati, contraccambiata con l’acquisto di qualcosa di utile a sballarsi o di cibo.

Finiti i soldi (e la solidarietà) si sistema su una panchina; una notte viene “sorpreso” dalla polizia e, non avendo documenti, portato in questura. Gli prendono le impronte, cercano negli archivi e salta fuori un “foglio di via”… Fausto è stato “espulso” da Padova, con il divieto di tornarvi per dieci anni! Ecco perché non voleva mostrare i documenti – concludono i poliziotti.

Lo accusano, oltre che del mancato rispetto del foglio di via, pure di avere tentato di sottrarsi all’identificazione: viene “segnalato” alla Procura e gli intimano nuovamente di andarsene da Padova.

 

I due mesi di “libertà” dopo il carcere per lui sono stati una lotta senza speranza

 

Andarsene dove? Fausto non ha un posto dove andare: prima dell’arresto aveva abitato per un po’ di tempo in un Comune della provincia, la cui anagrafe lo ha cancellato appena ve ne è stata l’occasione… Almeno a Padova conosce gli operatori del Ser.T. e gente variamente impegnata a dare sostegno alle persone… come lui! Sbattendosi un po’ riesce a trovare un’associazione disposta a fargli prendere la residenza presso la propria sede, ma rimane il problema del “foglio di via”.

Eppoi Fausto ha bisogno di altro, mentre aspetta che le pratiche burocratiche facciano il loro corso: può anche dormire sulle panchine… in estate non c’è il rischio di morire di freddo… però deve pur mangiare e, per non morire di tristezza, deve trovare qualcosa con cui sballarsi.

Al Ser.T ottiene un po’ di metadone, ma non sempre, perché non avendo residenza il Servizio Sanitario Nazionale gli garantisce solo gli interventi “di emergenza”. Un giorno lo incrocio che torna da Via dei Colli ed è stravolto: non gli hanno dato niente… a loro avviso non stava “abbastanza male” da giustificare la somministrazione di emergenza… “Dipende da chi trovi”, mi dice, “c’è chi te lo dà senza storie e chi invece fa tante domande… ti fai… non ti fai.. quanto… e come?”.

Una mattina lo arrestano, ha rubato due computer. Processo per direttissima, condanna a un anno e quattro mesi, rilascio in libertà provvisoria, tutto in giornata. Sfuma la possibilità di avere una residenza e arriva il secondo “invito” ad andarsene da Padova: al terzo, scatta una diversa misura di sicurezza, la “Casa di lavoro”, che sostanzialmente è una detenzione amministrativa… per lo più senza lavoro…

Nelle settimane successive vedo spesso Fausto in giro per la città, malmesso, con le idee sempre più confuse. E’ agosto, tanti uffici sono chiusi e lui non sa più dove andare a sbattere. Poi, improvvisamente, scompare. Mi arriva voce che lo hanno arrestato di nuovo, per l’ennesimo furto, però non ho conferma, se lo hanno messo al Circondariale se ne sta zitto zitto, altrimenti qualche notizia filtrerebbe. Oppure se n’è andato in un’altra città prima che gli facessero la terza intimazione? Oppure gliela hanno fatta ed è finito in “Casa di lavoro”?.

Comunque sia, i due mesi di “libertà” per lui sono stati una lotta senza speranza. L’ho visto dimagrire di 20 chili e invecchiare di 20 anni.

“L’inferno” del carcere, a volte, è nulla, rispetto a quello che ci aspetta fuori.

 

La voce delle piazze

Che cosa chiedono a Padova i “non padovani”? Che chi viene da fuori possa trovare una migliore accoglienza, a partire dagli affitti, da come ti trattano le persone. Che stanno qui, e che ci siano più spazi per stare in mezzo alla strada invece che chiusi in casa

 

Carla fa l’attrice, ha 25 anni, è di Campobasso, ma ha studiato a Padova, dove si è laureata in Scienze della Comunicazione. La “piazza degli spritz” l’ha frequentata per anni, ora ci va un po’ meno perché “non ha più l’età”. Però ha vissuto l’esperienza dell’ospite “straniera” in una città non proprio accogliente, e ha le idee chiare su come vorrebbe che fosse Padova, che ora è anche un po’ la sua città.

 

Cosa rappresenta per te Piazza delle Erbe?

Io sono proprio affezionata a questo posto perché penso che sia uno dei primi che ho visto a Padova, e poi mi ricordo, quando ancora studiavo, che in questa stagione, o magari prima a giugno o luglio, uscivo dall’aula studio verso le sette e venivo qui ed era bellissimo. Ancora adesso per me venire nelle piazze significa incontrare tutti i miei amici, che intanto hanno fatto lo stesso percorso che ho fatto io. Anche loro, magari, vengono qui e si sentono un po’ “fuori”, però forse il divertimento sta proprio nel vedere come siamo diventati vecchi, nel dire: “Oh Dio, guarda quelli…”, perciò è ancora bello.

 

Qualcuno dice che la piazza è lo specchio della città, talvolta però è uno specchio infedele, perché ci restituisce un’immagine deformata della realtà. Tu cosa ne pensi?

Io sono attrice, per cui tendo normalmente a vedere tutte le caratterizzazioni esagerate e nella piazza ancora di più, per esempio vedi da una parte tutti quelli seduti che si fanno le canne o vogliono fare gli alternativi, dall’altra tutti quelli con la giacchetta. E però va bene così perché sono due ore al giorno, voglio dire spero che questa gente non sia sempre così. E poi invece c’è anche un sacco di gente che mi piace, che mi fa divertire. Non so se questo gruppo che io frequento è un gruppo che guarda con un occhio esterno ciò che gli sta attorno, però quello che vedo è che quando io vengo qui non mi sento alienata, sto comunque bene.

 

Quali diverse appartenenze osservi nella piazza?

C’è questo bar all’angolo che secondo me è da “Padova bene”, sarà che io sono stata sempre abituata a pensare che quello è il bar dei fascisti, però qui fino all’anno scorso non mi sono mai presa uno spritz, perché a me hanno sempre insegnato che lì lo spritz non si prende perché ci sono i fascisti, mentre nella zona della fontana ci vedi di più i ragazzi che sono o fanno gli alternativi, e poco più in là gli stranieri. Anche se ormai pure il Caffè Verde Oro è diventato abbastanza eterogeneo perché è quello che tiene aperto di più, anche fino alle dieci di sera, quindi è meno d’elite di quanto si potrebbe pensare e questa cosa però è bella. Io sono meridionale, perciò sono abituata a stare proprio in mezzo alla via e penso che a Padova questa piazza sia l’unico posto che è sfuggito al tentativo di fare di Padova una città d’elite.

 

Un luogo che allenta certe tensioni, che fa cadere certe differenze sociali? O che al contrario le accumula?

Secondo me la piazza è un momento importante perché la gente ha un bisogno direi fisiologico di stare in mezzo alla strada, quindi è anche importante che la gente la rivendichi. Però poi ci sono episodi tipo la carica di qualche mese fa che ti fanno capire che comunque è un posto tenuto sotto controllo. Al suo interno appare tranquillo, in realtà è un ambiente che sta subendo un’osservazione dall’esterno.

 

Pensi che la polemica degli spritz in una certa misura riproduca anche la spaccatura interna alla città, la divisione netta tra studenti universitari e autoctoni padovani?

Sì, secondo me un po’ sì. Autoctoni che abitano il centro, però, perché se vai in altri quartieri non è così. Io penso che tutti sappiamo da chi è popolato il centro di Padova, in genere è gente benestante, borghesia medio-alta, appartenenza cattolica piuttosto forte. È chiaro che dà fastidio vedere questi che stanno seduti in strada a bersi due o tre spritz.

 

Se dovessi sintetizzare i significati della piazza?

Un punto di ritrovo, di socializzazione, di comunicazione…

Io sono laureata in Scienze della Comunicazione, perciò ho forse una visione un po’ troppo tecnica, però dobbiamo smettere di pensare che la comunicazione sia soltanto nei luoghi in cui si parla di Godard, di Truffaut. Io quando vengo qui sto bene, magari mi ubriaco anche un po’, però sto bene, e questo mio star bene, il condividere il mio benessere con gli altri è una comunicazione molto più intima e profonda che parlare per due ore del cinema di Godard. È vero, quando vieni agli spritz è difficile che ti metti a parlare di come è diventata l’economia dopo la morte del marxismo, però è comunque bello.

Anche questo scambio continuo di persone, è vero che la piazza non ti permette di concentrarti sull’interazione che stai avendo con qualcuno, perché ogni tanto guardi di là per vedere se è arrivata la fidanzata oppure l’amico a cui hai dato appuntamento, eppure anche questo è vitale, necessario.

È importante anche solo uno scambio di sguardi, di contatti, perché poi in inverno c’è tanta gente, perciò per passare in mezzo alla piazza devi toccare le altre persone, ti devi continuamente spostare.

E come attrice? Com’è la piazza vista da un’attrice?

Come attrice mi diverto. La maggior parte dei miei personaggi li ho presi dalla piazza. Come fonte d’ispirazione è quantomeno valida, la realtà delle piazze è estremamente variegata.

Magari ci sono delle persone che camminano un po’ con la spalla abbassata, è un esempio banale, allora tu lavorandoci arrivi fino a quando sei completamente gobbo. E questo lo fai anche con i caratteri psicologici, magari c’è uno che ti dice: “perché questa è la vera comunicazione”, allora tu fai andare avanti questo discorso fino a farne un personaggio, almeno io lavoro così.

 

Quale immagine di Padova presenteresti a uno che viene da fuori?

A chi volesse venire a studiare a Padova direi che è una città estremamente complessa. Padova secondo me è una città complessa, femmina perché ambigua, ha dei lati altamente raffinati ma anche dei lati bassi. È femmina perché ha ancora il senso della carne, una vita che scorre ancora violenta. Io sto qui da sette anni, ogni tanto non ce la faccio più, prendo e me ne vado per tre o quattro mesi. Perché come con le femmine anche con Padova ho un rapporto di amore e odio.

 

Quale città vorresti? Qual è la tua Padova ideale?

Probabilmente un po’ così, però dove le persone che vengono da fuori – perché questa è una città fatta per le persone che vengono da fuori, fin dal 1200 aperta agli studenti – possano trovare una migliore accoglienza, a partire dagli affitti, da come ti trattano le persone che stanno qui, forse una città dove ci possano essere più spazi per stare in mezzo alla strada, per conoscere altre persone. Alla luce della mia esperienza personale posso dire che i padovani con cui ho stretto amicizia sono tutte persone che hanno fatto l’Università e si sono mescolate loro, con disponibilità, a noi che venivamo da fuori. C’è una targa in Piazza dei Signori, è una targa del ‘700 che testimonia come prima venissero rispettati gli studenti universitari a Padova. Dice che alcuni sbirri sono stati condannati alla forca perché durante il carnevale in un’azione violenta avevano ammazzato degli studenti. È una targa simbolica che dovrebbe insegnarci ad avere più rispetto per tutte le persone che vengono da fuori, studenti e non solo, perché la gente che viene da fuori è vita, anche là dove è portatrice di contraddizioni.

 

Gli operatori di strada mediatori fra la rete dei servizi e chi vive ai margini

L’associazione “Famiglie contro l’esclusione”, in prima linea sui luoghi del disagio e delle nuove povertà

 

Monica, psicologa, e Vincenzo, volontario, sono operatori dell’unità di strada dell’associazione “Famiglie contro l’emarginazione”, che ogni giorno a Padova scendono in strada per occuparsi di chi sta male e non ha risorse e per riuscire a dare sempre delle piccole risposte utili ai loro bisogni primari. Li abbiamo incontrati per farci raccontare la loro esperienza.

 

Università: una Riforma “passata ai raggi X” da studenti e ricercatori

 

Un viaggio tra i banchi delle Università, e soprattutto tra studenti e ricercatori, in un anno di grandi cambiamenti, di grande ansia, ma anche di voglia di partecipare e dire la propria opinione sulle ultime novità che stanno travolgendo le nostre facoltà

 

Una mattina come tante altre per noi studenti: ci si ritrova per l’inizio delle lezioni ed è l’occasione per rivedersi dopo un’estate trascorsa lontano da Padova. Sono parecchi infatti i ragazzi che vengono da altre regioni d’Italia per studiare nell’Ateneo veneto. Tante storie si intrecciano, mai banali, per questi “foresti”: Mirco mi racconta dei suoi anni trascorsi a lavorare in fabbrica e poi la voglia di rimettere in discussione la sua vita e riprendere a studiare a 26 anni, cambiando casa, scontrandosi coi genitori che lo volevano “sistemato” anzitempo. Francesco, 21 anni, viene da Marsala, lo incontro a lezione il primo giorno di Università e mi parla dei dubbi estivi, sull’idea di abbandonare gli studi, sull’incertezza rispetto alla strada che ha intrapreso. “Sono qui “, mi ricorda, “ma il fatto di non sapere se porterò a termine quest’avventura mi spaventa…”. Ci guardiamo, ci sorridiamo, consapevoli che comunque sarà un anno di sorprese da trascorrere insieme.

In effetti qualcosa di strano stava succedendo intorno alle varie facoltà a margine del fiume Piovego: gruppi di studenti negli atri ci avvertivano che le lezioni quest’anno non sarebbero iniziate causa sciopero dei Ricercatori. È vero che alcuni giornali ne stavano parlando, ma non c’era niente di sicuro: l’iniziativa avveniva per protesta contro il decreto non ancora attuato che pare prevedere la precarizzazione di questa figura che nelle Università fa un po’ di tutto: tiene corsi, seminari (più del dovuto) e, nonostante i gravi tagli in questo settore, porta avanti attività di ricerca. Il dottor Gamberini, ricercatore a Psicologia, mi aggiorna sugli ultimi sviluppi: “Arrivare a 40 anni con un lungo ed impegnativo tirocinio di studio e ricerca e non avere alcuna prospettiva sicura per il futuro… ecco questa è la situazione dei “cervelli” italiani. Con 1000 euro al mese, costretti a vivere in appartamenti misti, magari con gli stessi studenti che frequentano i miei corsi”. Nell’atrio dell’edificio di Psicologia incontro la professoressa Panzeri che, con un po’ di amarezza, mi dice: “Quasi tutti i Ricercatori della facoltà e di tanti altri atenei d’Italia hanno deciso di astenersi dall’insegnamento per quest’anno accademico… Di solito coi soldi che uscivano dai corsi mi pagavo le vacanze estive… mi sa che vista la gravità della situazione si possa fare uno sforzo anche economico affinché ci sia un segnale dal mondo universitario, docenti, ricercatori e studenti!!”.

Per noi studenti lo sciopero non è stato certo vissuto come un pretesto per rimandare l’inizio delle lezioni. Incontro in Piazza Delle Erbe, nell’ora del ritrovo di centinaia di studenti, alcuni ragazzi di Biologia che mi giurano: “Questo è il momento finale di un attacco alla cultura universitaria; niente ricerca significa una cultura stantia, che non può fare passi avanti. Soprattutto non ci sarà più autonomia all’interno delle Università perché gli argomenti di ricerca saranno scelti e finanziati da enti privati esterni. Quello che tirerà di più per il mercato del momento sarà oggetto di studio e di investimenti, in base a scelte piuttosto arbitrarie”. Marta, che studia archeologia, ci sta ascoltando e si inserisce: “Quindi materie che studio io e che non interessano a nessuno rischiano di scomparire... penso alla Storia dell’Arte, alle lingue antiche, alla letteratura greca.”.

 

Era da parecchio tempo che tutte le forze appartenenti all’Università non si univano a difesa della cultura

 

Le prospettive non sono delle più rosee, anche se ci sono pure quelli che non si schierano contro la riforma. Un professore con la saggezza di chi vede le cose nella loro complessità mi rammenta: “È normale che in una situazione di mancanza di fondi le risorse siano gestite al meglio; se le Università non riescono a svolgere attività di ricerca per scarsità di mezzi è giusto che questa sia concentrata in poli esterni preparati”.

Giovanni è rappresentante degli studenti e crede fermamente che questa sia una grande possibilità per incidere sul nostro futuro di studenti e non solo. per lui la protesta è “una presa di coscienza in cui siamo noi studenti a decidere cosa è positivo per l’Università, senza accettare, come sempre succede, le decisioni prese dall’alto senza interpellarci”. Non si parla di un altro ‘68 ma sicuramente era parecchio tempo che tutte le forze appartenenti all’Università non si univano a difesa della cultura: i Ricercatori che in segno di protesta fanno lezione fuori dal Palazzo della Ragione, gruppi di studenti che si ritrovano nel cortile del Palazzo del Bo per discutere del loro futuro, senza dimostrazioni politicamente schierate e accantonando per un giorno i libri. Mirco mi guarda durante un’assemblea : “Da me queste cose non succedono…”, e io penso che siamo noi a lasciarcele sfuggire, troppo indaffarati dai paraocchi del presente, distanti dagli eventi realmente importanti. L’inverno nel frattempo ha smorzato un po’ la visibilità delle iniziative intraprese; la palla ora è passata sui banchi del Parlamento per la decisione finale. Nelle Università la situazione è tornata normale, tranne i buchi lasciati dal ritiro dei corsi affidati ai Ricercatori, che però sono stati sostituiti da altri professori. Quindi l’effetto della protesta è stato un po’ ambiguo; come dire: protestiamo per essere visibili dal mondo accademico, che però interviene tappando i buchi e i disagi aperti dalle iniziative dei Ricercatori. “Purtroppo”, ha detto il preside della facoltà Renzo Vianello, “il mio dovere è quello di organizzare le lezioni e farle partire in ogni modo: non è a mia discrezione lasciare delle lezioni vacanti”. Comunque arrivano notizie che tutto il mondo accademico italiano è in rivolta ed i Ricercatori uniti al fine di non diventare una specie in via d’estinzione.

 

Il tempo degli studenti, tra dovere e piacere

È sempre qui ma non riesci a vederlo né a toccarlo. E non ne senti l’odore. È necessità della vita, ingrediente principale di ogni storia. Che cos’è? Il tempo                                                                                 

di Silvia

 

Sappiamo bene cos’è il tempo, ma se qualcuno ci chiedesse di spiegarlo non ne saremmo capaci. Molte volte non siamo in grado nemmeno di gestirlo, anzi, è la nostra maggiore preoccupazione. Corriamo da una parte all’altra della città, pieni di affanni, di doveri che ci pesano sulle spalle e di impegni che dobbiamo rispettare. È una società perennemente in corsa la nostra, che ci vuol lasciare indietro e noi disperati tentiamo di seguire i suoi ritmi tralasciando a volte le nostre priorità. Ci lamentiamo di aver poco tempo per respirare, ci lamentiamo di aver troppo tempo vuoto da occupare. Per noi giovani la situazione è un po’ diversa: il tempo diventa un nemico quando si parla di scuola, mentre prende le nostre difese quando si tratta di uscire da quest’ambito. Lo studente fa fatica a gestire il proprio tempo. La mattina, si lanciano spesso sguardi pieni di desiderio fuori dalla finestra della classe, verso quel mondo in cui il tempo prende valore, ma che non possiamo raggiungere. Il pomeriggio lo studio è soggettivo: c’è chi gli dà un’importanza disperata, c’è chi si preoccupa ma non troppo e chi si lascia trasportare da tutt’altro. Ma il tempo dedicato allo studio rimane sempre uno dei punti nevralgici della giornata di uno studente.

Il tempo, per uno studente, ha senso solo se è seguito dall’aggettivo “libero” e il tempo libero è quello che non trascorriamo a studiare o lavorare. Ci sono molti modi di impegnarlo, ma solo pochi di questi ci soddisfano pienamente. Il praticare uno sport o frequentare corsi delle più svariate attività sembra perdere il passo rispetto ad altri “passa-tempo” che invece avanzano inesorabili, come ascoltare musica o suonarla, stare al computer, guardare la televisione, leggere un libro (anche se imposto), dedicarsi al volontariato. Questo dipende soprattutto dal fatto che le attività sportive o i corsi in generale sono “necessità” indotte dai genitori, che le considerano una parte fondamentale dell’educazione dei propri figli. La maggior parte dei giovani, però, ama uscire in compagnia. Accanto a questi “impegni” per il tempo libero vi è, infatti, lo stare insieme. I giovani occupano gran parte del loro tempo con gli amici, a casa o fuori casa, soprattutto la sera. Alcuni preferiscono passare la serata a casa di qualcuno per guardare un film o semplicemente per parlare fino a tardi. C’è chi esce per andare al cinema o in discoteca. Altri, invece, vedono nella piazza il luogo fondamentale del loro ritrovo. La piazza è il “punto centrale” dove convergono tante esistenze e mondi diversi accomunati solo dal fatto del voler stare insieme, tra la gente, dimenticando impegni e problemi. Il sabato per i giovani è vero vivere, è il tempo libero da ogni pensiero ed è il momento che si aspetta per un’intera settimana. Il sabato la mente si svuota. Ci si rilassa, ci si diverte. Il pomeriggio ci si trova con gli amici in piazza, al cinema, in qualche locale. È il tempo che i giovani sanno organizzare meglio, è un appuntamento che non mancano mai. Il sabato sera si sente già odore di settimana nuova e si fa di tutto per nascondere questa sensazione, è per questo che si riempie di vita. È come una festa conclusiva, un rituale essenziale che si ripete. I punti di ritrovo sono più o meno gli stessi e la gente cambia di poco. Si chiacchiera, si ride, si scherza e il tempo non opprime se non nel momento in cui si rientra e si pensa che è già tutto finito e che bisognerà aspettare ancora una settimana per rivivere quei momenti. Il tempo è ancora tutto da vivere per noi giovani, è solo che a volte indugiamo nelle nostre insicurezze. Bisognerebbe riflettere sul fatto che più andiamo avanti e meno ne avremo di tempo, per noi stessi e anche per gli altri. Sarebbe quindi più produttivo assaporare e gustare meglio il nostro tempo per non rimpiangerlo poi. Il tempo è qualcosa che noi giovani dobbiamo Apprezzare e non Buttare, qualcosa da Cercare sempre senza Disperderlo. Il tempo, non dobbiamo Esaminarlo troppo ma bisogna sempre farlo Fruttare all’istante. Non si deve Giocare col tempo e non bisogna neppure Ignorare la sua presenza. Dobbiamo Liberare il tempo, senza Modellarlo eccessivamente. È impossibile Negarlo o Odiarlo. Dobbiamo Renderlo nostro, Personalizzarlo, evitando di Quantizzarlo troppo. Bisogna Rispettare il nostro tempo e quello degli altri e Sfruttarlo secondo i nostri sogni o esigenze. Il tempo è da Trovare e assolutamente non da Uniformare. La cosa più importante è Valorizzare il proprio tempo.

 

Uno diventa barbone quando non ha più la forza di reagire alle difficoltà della vita

 

Homeless, senzatetto, barbone, clochard. Le parole che si usano per definire chi vive in strada sono tante, e qualche volta si fanno sottili di-squisizioni su quale sia più corretta, più elegante, meno offensiva. Noi abbiamo preferito andare alla sostanza, e parlare con gli ospiti dell’asilo notturno della condizione del “barbone”, di come si diventa barboni, di come si finisce a vivere da barboni. Se poi la parola “barbone” sia scorretta, se ce ne siano di migliori è un argomento di cui tratteremo un’altra volta.

 

Lino: È il governo che ha creato i barboni. Una volta i barboni non esistevano o erano pochissimi. Adesso invece è molto diverso, girando per le strade se ne vedono tanti, è logico.

 

Luca: Ma perché si diventa barboni?

 

Lino: Perché si vuole. “Io lascio tutto e me ne vado, problemi non me ne prendo”: così ragiona un barbone. Mi accontento del poco che ho, scelgo di vivere in strada, ai margini della società, lontano dal mondo.

 

Toni: Ma lo si diventa anche per le circostanze della vita, non per scelta solamente. Perché ti capita di vivere situazioni disastrose e in quel momento magari ti trovi solo, non c’è nessuno che ti possa aiutare. Non trovi una via d’uscita e a un certo punto ti vengono a mancare le forze, smetti di lottare, ti arrendi. Anche così si diventa barboni, per necessità.

 

Mario: Uno diventa barbone quando non ha più la forza di reagire alle difficoltà della vita. Quando è così stanco e nauseato dalla società che non lotta più per una vita normale. E allora si lascia andare e niente ormai lo può cambiare.

 

Luca: Ma il vero barbone lo fa per scelta. È lui che ha scelto la strada. Il barbone ha una sua dignità, non chiede, soprattutto non pretende. Ed è solidale con gli altri suoi compagni di strada. Anche se ha pochissimo in tasca, qualche spicciolo, un pezzo di pane, lo divide con gli altri. Alcuni invece sono “finti barboni”, perché non hanno la stessa dignità, perché se hanno qualcosa se la tengono stretta, non la dividono con altri che hanno lo stesso bisogno. Alcuni si vestono persino bene, eppure fanno l’elemosina, chiedono, pretendono. Io li chiamo finti barboni.

 

Toni: Parlando di chi vive in strada, andrebbe fatto anche un discorso che riguarda le istituzioni. Quando vedono una persona in difficoltà, sola, che vuole lottare per essere un cittadino dignitoso alla pari degli altri, perché non l’aiutano? La verità è che spesso non solo non l’aiutano, ma si preferisce quasi che muoia, che sparisca dalla vista della società, così da non rappresentare più un problema per nessuno. Queste sono cose vere perché sono capitate a me. Io stavo per morire su un marciapiede, sarei morto se non avessi trovato una persona che mi ha portato in ospedale.

Quando mi ha visto il medico mi ha detto: “Ma cosa aspetta a farsi curare?”, mi ha trovato malato e denutrito. Potevo avere solo un pasto al giorno e domenica nemmeno quello, e per di più senza medicine. Così mi ha scritto una lettera affinché potessi andare dai frati a farmi curare. Mi hanno offerto un tè ed erano quasi due mesi che non prendevo un tè o un caffè la mattina. La seconda volta sono state le suore a darmi le medicine di cui avevo bisogno. E se non avessi avuto la forza per continuare a lottare me ne sarei già andato da un pezzo. La verità è che non mi sono mai arreso, fino all’ultimo. Ricordo il primo giorno che ho ricominciato a lavorare, pur di non perdere il lavoro ho dovuto fare sforzi sovrumani per mascherare di essere malato. Stavo così male che perfino barcollavo. È umano tutto questo?

 

Zorro. Storia di un’esistenza che finisce “fuori binario”

 

Come si diventa “barboni”? Sulla strada si vive per scelta o per necessità?

E se anche è una scelta fino a che punto può dirsi libera?

Leggendo l’ultimo, fortunato libro di Margaret Mazzantini potremmo avere la sensazione di non trovare alcuna risposta a questi difficili interrogativi, ma un invito – questo sì – a ridare forza e dignità alla domanda, a rimettere in discussione alcuni consolidati luoghi comuni sulla vita di strada. Protagonista di questo breve monologo teatrale è Zorro, uno che abita la strada, un’anima girovaga e inquieta, un “attraversatore di città” come lo definisce l’autrice, che lo elegge a simbolo della vita imperfetta, rappresentazione quasi caricaturale, ma vibrante, di una deriva esistenziale. Una traiettoria di vita è uscita bruscamente dal suo alveo naturale e può procedere soltanto ai margini di se stessa: un uomo si è perduto, è solo, fatica a ritrovarsi ma dentro continua a cercare. Si ritroverà solo quando avrà scoperto in quei margini una nuova composizione di sé e nella brulicante solitudine del marciapiede la misura del suo intimo passo.

“Zorro. Un eremita sul marciapiede” racconta la storia di uno scivolamento progressivo, perdita di una dimora interiore prima ancora che materiale. Non una caduta ma un deragliamento, il passaggio breve e inaspettato di un’esistenza che a un certo punto si trova sganciata dai binari della “normalità”. Perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci ancorano a terra, le mezze verità che ci tengono saldi nell’incerto cammino del mondo: chi per un attimo non baratterebbe il peso della quotidianità con la leggerezza di una vita sciolta da ogni vincolo e legame? Ma chi veramente saprebbe reggere il peso di una simile libertà?

Non un artista e nemmeno un clochard: la storia di Zorro è prima di tutto e più semplicemente la storia di un uomo. Non la storia di uno sfaccendato o aspirante “barbone”, e nemmeno soltanto la singolare vicenda di un uomo piegato dalle avverse circostanze alla vita di strada. Se così fosse il libro non ci parlerebbe allo stesso modo, con la stessa viva inquietudine, rimarrebbe anzi prigioniero dei luoghi comuni che esso per primo vorrebbe far cadere. Invece ciò che tocca il lettore, e con forza lo interroga, è la sensazione o anche solo il presentimento che la storia di Zorro possa essere la storia di ognuno di noi, che in fondo al personaggio ognuno di noi possa scorgere una segreta possibilità di se stesso. Una possibilità magari rimasta a lungo inconfessata, certo scomoda da riconoscere, ma con la quale dovremmo fare i conti perché in qualche modo ci appartiene, perché è veramente sottile il confine che separa una vita “normale” da una vita che non può (più) dirsi tale, perché in definitiva ci porterebbe tanto in prossimità degli altri quanto di noi stessi.

 

“Zorro. Un eremita sul marciapiede” è un libro capace di suscitare anche polemiche, di apparire a qualcuno troppo “costruito” e troppo lontano dalla realtà della strada, come la conoscono quelli che ci vivono: è per questo che invitiamo a mandarci altri commenti, critiche, piccole recensioni su questo libro.

 

L’Asilo notturno visto con gli occhi di una volontaria

 

di Eleonora

 

“È cominciato tutto per caso!” “Tutto cosa?”

  Era una sera come tante altre: aperitivo in piazza e filmetto al cinema… di non comune con altre serate era il fatto che uscivo insoddisfatta dalla piccola, fredda e, m’azzardo a dirlo, scomoda sala dell’Excelsior. Non erano certo questi ultimi tre fattori a causare insoddisfazione, dal momento che un bel film, un Film con la effe maiuscola, t’appassiona e t’avvolge a tal punto da farti dimenticare di tutto! L’insoddisfazione derivava, invece, da un film che non solo non m’aveva dato niente, ma mi aveva pure tolto qualcosa. Eh sì, perché sono convinta che un brutto film, ovvero un non-film, abbia, ahimè, il potere di annebbiare in qualche modo l’animo, di farti impiantare per bene i piedi nella terra, invece che farti camminare a qualche centimetro da essa.

Comunque… Uscivo sc