L'Opinione delle carceri

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

L’Opinione on line, 21 dicembre 2004

 

La partita della giustizia, di Maurizio Bonanni

Marcello Lonzi è morto per "cause naturali"

L’ambiente salvato dai detenuti

Paola Severini racconta il Natale dei figli dei carcerati

La partita della giustizia, di Maurizio Bonanni

 

In materia di giustizia, quali sono le regole del gioco? A Costituzione invariata, senz’altro quelle indicate dal presidente della Repubblica. Quindi, il rinvio al Parlamento della legge di riforma non fa altro che assestare quattro pesanti "pestoni" sui calli già dolenti della maggioranza. Vediamoli nell’ordine. L’art. 110 della Costituzione limita i poteri del ministro della Giustizia all’organizzazione ed al funzionamento dei servizi. In pratica, il ministero di Via Arenula è tenuto a provvedere alla realizzazione e gestione dei "contenitori" (costruzione e funzionamento dei tribunali, degli uffici giudiziari, delle carceri e della relativa sorveglianza) delle decisioni di giustizia, quali: sentenze; indagini giudiziarie e procedimenti penali in genere.

Il ministro Castelli avrebbe voluto, invece, fissare annualmente, davanti al Parlamento, le priorità della politica giudiziaria ed i reati da perseguire con particolare attenzione, in violazione palese dell’obbligatorietà (art. 112 dell’attuale Costituzione) dell’azione penale, in base alla quale "tutti" i reati sono parimenti perseguibili. La "graduazione", semmai, riguarda soltanto i profili della pena.

Secondo: per gli articoli 101, 104 e 112 della Costituzione, non si può nemmeno fare la rivoluzione copernicana di Castelli, che avrebbe voluto costituire, presso le strutture territoriali dell’organizzazione giudiziaria, altrettanti "uffici per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti".

In pratica, si voleva chiamare i pubblici ministeri responsabili a rispondere di quelle inchieste da loro avviate e che si fossero rivelate, a posteriori, giudiziariamente infondate. Così facendo, tuttavia, la riforma di Castelli viola l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112), l’indipendenza della magistratura (art. 104) e l’esclusiva soggezione alla legge del giudice (art. 101). Complimenti per l’en plein, Signor. Ministro! Ancora: in base all’insuperato detto "facciamoci del male", il ministro della Giustizia (ma un volta non aveva pure la "Grazia"?) va incontro a grossi guai, infilando il naso nel vespaio delle nomine direttive degli uffici giudiziari, terreno costituzionalmente protetto a beneficio esclusivo del Consiglio superiore della magistratura (Csm).

Per di più, per impugnare le decisioni di nomina del Csm, il ministro deve farlo dinnanzi al Tar (tribunale amministrativo regionale) competente, il quale però si andrebbe così a sostituire alla Corte Costituzionale, che ha competenza esclusiva (art. 134 Cost.) sui conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato (Csm e Governo, nella fattispecie).

"Dulcis in fundo", Castelli ha incassato il ko quando ha tentato di tagliare le unghie (veramente, si trattava di falangi intere!) al Csm, istituendo la Scuola superiore della magistratura e nuove commissioni di concorso (composte, oltre che da magistrati, anche da avvocati e professori universitari), che avrebbero deciso i così detti "passaggi verticali" (promozioni a Consiglieri e Presidenti di Corti di Appello e della Cassazione) e l’unico "passaggio orizzontale" previsto dalla legge rinviata, per quanto riguarda il transito dalla funzione di pubblico ministero a quella di giudice.

E così, se fossimo stati in Ciampi avremmo detto: "incarta e porta a casa", caro Ministro. Tra l’altro, Berlusconi non ha affatto gradito, facendo la faccia feroce agli onorevoli della sua maggioranza, un po’ troppo digiuni di diritto costituzionale. Ma, il cittadino (la vera vittima della così detta "giustizia negata") che cosa ci guadagna, da questa bocciatura? Nulla, in fondo. Per lui cambiava poco con la riforma Castelli, né i giusti rilievi di Ciampi serviranno a ridurre i tempi biblici della giustizia. Dove sta, quindi, il punto vero della questione, a mio avviso?

Al di là di tutti i conflitti di competenza (inutili e, quindi, sempre da evitare), resta senza risposta il seguente quesito: come e chi deve fare il controllo sulla gestione dei risultati dell’azione penale? Mi spiego meglio: i magistrati, sono equiparabili, a tutti gli effetti, agli altri dirigenti pubblici, per prestigio della funzione e per i trattamenti salariali percepiti. Ebbene, mentre per "tutti" gli altri esiste la possibilità, per l’Amministrazione di appartenenza, di giudicare i risultati dell’attività amministrativa da loro svolta, perché la stessa cosa non dovrebbe accadere per i magistrati?

Allora, invece di tirare mazzate alla cieca, che gli si ritorcono contro come un boomerang, Castelli dovrebbe, invece, pensare seriamente a come premiare gli uffici giudiziari "più performanti", visto che gli stipendi dei giudici, quelli sì, non possono essere fissati (e ci mancherebbe altro!) dal Csm! Esempio banale: basterebbe distinguere lo stipendio di base da quello accessorio di risultato, costituendo un "Fondo nazionale per la produttività", da distribuire come premio di risultato (in base a criteri-cornice, fissati dal Parlamento!) alle procure territoriali più efficaci nel perseguimento di determinati reati.

Poiché, poi, anche per il Csm vale la previsione costituzionale del "buon andamento" della pubblica amministrazione, l’organo di autogoverno "deve" (per obbligo costituzionale) provvedere ad attivare autonomamente la verifica dei risultati dell’attività giudiziaria, mettendo a punto le sue forme canoniche di controllo sulla gestione. Certe regole, cari i miei magistrati, valgono per tutti. Per voi, per i prefetti, per gli ambasciatori, per gli alti gradi delle forze dell’ordine e dell’esercito, che costituiscono altrettante categorie protette! Il vostro stipendio, in fondo, non è sempre a carico del contribuente?

 

Marcello Lonzi è morto per "cause naturali"

 

Il tribunale di Livorno ha stabilito che la morte di Marcello Lonzi è avvenuta per cause naturali, pertanto non ha ritenuto necessario aprire alcuna indagine. Nessuna degna risposta è giunta alle 22 domande formulate dall’avvocato Trupiano, legale di Maria Ciuffi, madre di Marcello. L’avvocato Trupiano ha commentato l’incredibile sentenza sostenendo che il caso Lonzi a questo punto è entrato a fra parte dei Misteri d’Italia insieme alle stragi di Piazza Fontana, dell’Italicus e dei tanti altri episodi che hanno marchiato con il sangue i momenti politici particolari attraversati dall’Italia. Non potendo accettare un’archiviazione senza risposte ai dubbi e alle prove che ne smentiscono la fondatezza, Trupiano ha dichiarato che si rivolgerà subito al Consiglio superiore della magistratura. Il clima di scoramento è grande. Ecco il testo consegnato dall’avvocato Trupiano al gip presso il tribunale di Livorno. La lista di domande, dubbi e richieste è stata quasi totalmente ignorata.

 

Domande senza risposta

 

Perché i familiari di Marcello Lonzi sono stati avvertiti del suo decesso solo 12 ore dopo?

Perché lo hanno tenuto tanto tempo all’interno del carcere?

 

Perché se è morto d’infarto hanno spostato il corpo nel corridoio?

Perché sono stati prelevati organi vitali e tessuti e non si è mai proceduto ad esami tossicologici?

Come ha fatto il perito incaricato a non vedere tutte quelle ecchimosi sulla schiena di Marcello?

Come viene giustificata la perdita di tanto sangue e da più parti del corpo, roba che si vede solo al macello comunale?

Perché l’autopsia è stata eseguita senza avvertire nessuno dei familiari allo scopo di evitare la nomina di un consulente di parte?

Perché tanto tempo per il soccorso ed il trasporto a mezzo del 118?

Chi e cosa si cerca di coprire?

 

Avvocato Vittorio Trupiano

 

Una fine "istantanea", che però si prolungò per 24 minuti

 

Il Tirreno, 10 dicembre 2004

 

La morte di Marcello Lonzi - si legge nell’autopsia - sarebbe stata "istantanea" ma in un arco di tempo collocabile "tra le 19.50 e le 20.14". Le 19.50 sono anche l’orario del decesso come indicato sul certificato di morte. Eppure, esaminando le testimonianze negli atti del fascicolo relativo al caso, le ricostruzioni della vicenda che si susseguono scandiscono una cronologia dei fatti che apre una serie di interrogativi. La scena del fatto è quella fotografata dai carabinieri quella maledetta notte dell’11 luglio 2003: il corpo di Marcello è riverso sul pavimento tra la cella numero 21, sezione sesta, padiglione D delle Sughere e il corridoio. La sua testa ostruisce la chiusura della porta. Tutto intorno sangue, sotto il cadavere e anche fuori dalla porta. In gocce o in strisciate circolari dai contorni netti.

 

Stava bene

 

L’ultima volta che qualcuno vede il giovane Lonzi in vita e "in buone condizioni di salute" (deposizione di un agente di custodia davanti al Pm Roberto Pennisi datata 12 luglio) l’orologio segna le 19.40. A parlare è un detenuto lavorante che stava rientrando dalla doccia al quale Marcello offre un caffè dalle sbarre della porta della cella. Nella quale, oltre a Marcello, c’era un altro detenuto che dormiva (deposizione dell’agente al Pm). L’agente accompagna il lavorante poi si attarda "a parlare con vari detenuti". Si sono fatte le 19.50, dieci minuti in tutto da quando Marcello Lonzi ha preparato un caffè e lo ha offerto.

 

L’allarme

 

L’agente comincia a sentire chiamare con insistenza "appuntato, appuntato" e si affretta verso la cella 21 dalla quale il richiamo proveniva. Qui trova Marcello Lonzi "prono, completamente disteso per terra, con la testa in corrispondenza dell’inferriata". Accanto a lui il compagno di detenzione lo chiama e lo scuote "senza ottenere risposta". L’agente testimonierà al Pm: "Lonzi appariva esanime. Sotto la sua testa si era formata una piccola pozza di sangue. A quel punto ho subito dato l’allarme" chiamando il medico di guardia e i propri superiori. Sull’ora della morte del giovane il superiore dell’agente riferirà ai carabinieri arrivati sul posto insieme al magistrato che il decesso "si è verificato tra le 19.45 e le 19.50".

In cinque-dieci minuti al massimo da quando è stato visto per l’ultima volta "in buone condizioni di salute" Marcello avrebbe avuto - lo spiega nell’autopsia il medico legale - "un’aritmia maligna instauratasi su una ipertrofia ventricolare sinistra". Fulminato, Lonzi avrebbe perso conoscenza e sarebbe caduto andando a sbattere "contro lo stipite della porta della cella".

 

La ferita

 

Una morte "istantanea" che procurerà al giovane (verbale dei carabinieri delle 23.55) "una ferita lacero-contusa in sede frontale sinistra che si approfonda quasi fino al piano osseo. Dalla quale è fuoriuscita e continua a fuoriuscire abbondante quantità di sangue".

La testimonianza del compagno di cella del giovane Lonzi disegna, però, un altro scenario: "Mi sono svegliato all’improvviso perché ho sentito uno strano rumore - si legge nelle dichiarazioni rese al Pm - quando sono stato in grado di connettere ho visto Marcello steso bocconi per terra, fermo. Mi sono accovacciato vicino a lui chiamandolo e dandogli pizzicotti sulle guance perché si riprendesse. In tale frangente ho visto che emetteva strani gemiti che non so ben descrivere ma che mi hanno spaventato perché erano fuori del normale, di tipo lamentoso, ai quali accompagnava un leggero movimento del capo". La testa di Marcello, in questo racconto, era "quasi sotto il termosifone", in prossimità del cancello di ingresso.

 

Le telefonate

 

Tredici minuti dopo (20.03.07) la centrale del 118 registra una telefonata: dalle Sughere chiedono un’ambulanza con urgenza perché "c’è un detenuto che è disteso per terra e perde molto sangue". La chiamata si ripete alle 20.13.55: dalle Sughere mettono fretta e dalla centrale rispondono: "È partita quando avete chiamato". La voce dal carcere insiste: "Mi hanno detto che c’è la cella piena di sangue". Sangue che resta invisibile all’ispettrice che alle 20.15 informa il suo superiore (rapporto dello stesso al direttore del carcere) che "il detenuto Lonzi doveva essere immediatamente tradotto presso il locale Pronto soccorso perché colpito da una crisi cardiocircolatoria intorno alle 19.50". L’associazione di volontariato che invia sul posto l’ambulanza spiegherà di aver catalogato la chiamata del 118 alle 20.10 su carta e alle 20.20 su computer (dichiarazione del direttore). L’ispettrice, nel verbale di informazione al comandante del reparto, dichiarerà: "Il personale del 118 entrava in istituto alle 20.15".

Nel frattempo sul corpo del povero Marcello si adopera, con manovre rianimatorie, il personale sanitario del carcere. Lo faranno per mezz’ora (referto del medico del 118 a bordo dell’ambulanza) sul corpo che resta "per gran parte all’interno della cella con il solo capo fuoriuscente sì da non potersi chiudere la porta d’accesso della cella". Medici e infermieri applicheranno il defribillatore e praticheranno a Lonzi due iniezioni lavorando (si legge nell’introduzione all’autopsia) in condizioni di "scarsa illuminazione della cella". La posizione del corpo con la testa in parte nel corridoio (ma non era sotto il termosifone interno alla cella?) è testimoniata dalle foto, dal rapporto dei carabinieri, dal racconto dell’ispettrice che spiega: "Il corpo ostruiva la chiusura della camera. Fuori viene messo un agente a vigilare al fine di far restare il quadro della stanza come al momento dell’accadimento".

 

Gli orari

 

Alle 20.14 il medico del 118 (arrivato in quell‚istante secondo la ricostruzione) annotava contemporaneamente (si legge nell’autopsia): "Constatazione di decesso" e "Intervento terminato alle 20.45".

Nel mezzo di questi due orari, alle 20.30 l’ispettrice informa del decesso il suo superiore che si reca sul posto. Nella sua relazione il medico legale scriverà: "L’accertamento dell’epoca della morte non riveste particolare importanza in quanto verificatasi tra le 19.50 e le 20.14". 24 minuti per una morte così immediata che non ha dato a Marcello Lonzi - si legge nell’autopsia - neppure il tempo "di mettere in atto alcun meccanismo di difesa" prima di cadere a terra.

 

L’ambiente salvato dai detenuti

 

Il quartiere si apre al carcere vivendolo come luogo di reale integrazione, d’utilità sociale e non d’emarginazione. La prigione risponde alla società civile con la volontà concreta di stabilire un dialogo aperto, un confronto, una collaborazione. Sabato 18 dicembre, 26 detenuti del carcere di Rebibbia, di cui sei della sezione femminile, sono stati impegnati in un lavoro di recupero del verde pubblico in alcune zone del V municipio di Roma che attraverso l’Assessorato per lo sviluppo di Politiche per la popolazione detenuta ha dato il via all’iniziativa proposta dal Dipartimento amministrativo penitenziario" (Dap) dal titolo "Recupero del patrimonio ambientale".

Si è trattato di un intervento per il risanamento di aree verdi e in degrado della zona Tiburtina, in particolare la parte compresa nel tratto stradale che va dalla caserma militare "A. Ruffo" alla stazione Metro di "S. Maria del Soccorso". I detenuti impegnati nel progetto sono tutti in esecuzione di pena e possono usufruire del permesso premio regolato dall’art. 30 dell’ordinamento penitenziario. Hanno avuto a loro disposizione i macchinari messi a disposizione dall’azienda Ama, dal servizio giardini del comune e dalle cooperative socio-integrate Artemisia, Chebesà, 29 giugno e Parsec che hanno concorso ai lavori anche mettendo a disposizione il proprio personale. Il tutto per risanare il patrimonio naturale e per dare allo stesso tempo un’opportunità di riscatto sociale attraverso il concreto impegno umano e civile.

"L’iniziativa - ha spiegato il direttore della casa di reclusione Stefano Ricca - non ha avuto valore ricreativo e non è stato un modo come un altro per spezzare la noia forzata del carcere. Il senso del progetto è stato quello di mettere in contatto i detenuti in esecuzione di pena con associazioni e cooperative come "Artemisia" che ci hanno creduto fin dall’inizio. Una volta fuori gli ex detenuti hanno potuto avere delle basi per ricominciare a vivere da cittadini liberi".Il presidente del municipio V, Ivano Caradonna, aveva fatto del recupero ambientale e dei programmi di reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti uno dei punti del suo programma elettorale.

Presentando lo scorso 14 dicembre l’iniziativa, aveva dichiarato: "Rebibbia ha un ruolo integrante nella vita del municipio e ci stiamo impegnando perché progetti come questo divengano la piattaforma d’avvio d’iniziative imprenditoriali che possono prendere in seria considerazione la risorsa che rappresentano coloro che hanno scontato una pena". Il carcere di Rebibbia è oggi, con i suoi 2300 detenuti, 1000 agenti di custodia, 120 funzionari amministrativi, un centinaio di collaboratori e tantissimi volontari, una città nella città. Un municipio in più.

La ricetta per una migliore convivenza tra prigione e centro urbano è questa, suggerisce Carmelo Cantone, direttore del nuovo complesso della Casa circondariale di Rebibbia: "Bisogna ripensare il concetto di sicurezza pubblica ed abbondare parole d’ordine quali "tolleranza zero", assai in voga in altri paesi, soprattutto quelli anglosassoni. Il carcere in Italia non può essere soltanto un problema per la collettività ma anche una risorsa presentata non solo dai detenuti ma anche dal personale, tra i più preparati e attrezzati d’Italia". Una risposta seria e concreta, insomma, all’appello lanciato dalla responsabile giustizia della Federazione Romana dello Sdi, Assunta Trento che ha sollecitato le istituzioni ad affrontare in maniera giusta il problema dei penitenziari, non luoghi d’emarginazione ma d’integrazione. Un’alternativa sul territorio".

"Luoghi di umanità, di redenzione e di speranza" nelle parole che lo scorso novembre Giovanni Paolo II ha pronunciato in occasione della conferenza dei responsabili delle amministrazioni penitenziarie dei 45 Stati aderenti al Consiglio d’Europa, incoraggiando alla ricerca di pene alternative, sostenendo iniziative d’autentica reintegrazione sociale dei detenuti con programmi di formazione umana e professionale. E’ quanto prevede, tra l’altro, l’art. 27 della nostra Costituzione. L’impegno e il lavoro per il recupero delle aree verdi di Tiburtina da parte detenuti di Rebibbia è già un primo risultato in questa direzione.

 

Paola Severini racconta il Natale dei figli dei carcerati

 

Sabato scorso a Rebibbia alcuni detenuti hanno messo in scena una rappresentazione teatrale. Le immagini televisive mostravano il teatro con un vasto pubblico composto da detenuti, agenti e operatori. C’erano anche rappresentanti delle istituzioni. Non è la prima volta che il teatro entra in carcere, ma ancora una volta non c’erano i parenti dei detenuti e in particolare i loro figli ad assistere allo spettacolo.

Pensare ai ragazzini che in questi giorni abbracceranno il padre o la madre da dietro un bancone o peggio potranno solo vederli da dietro un vetro non è buonismo natalizio. Questi figli saranno gli adulti a cui non solo il presente non sorride ma per i quali il domani potrebbe essere negato. Ne abbiamo parlato con Paola Severini direttore di Angeli Press l’agenzia sul sociale che si può leggere su internet www.angelipress.net e che da gennaio sarà direttore dell’osservatorio nazionale per il lavoro minorile della fondazione Banco di Napoli.

 

Direttrice, cosa l’ha portata sulle tracce di questi bambini?

Un progetto del ministero della Giustizia chiamato Peter Pan. Che tra l’altro accade in una regione di frontiera come la Calabria. Nel carcere di Rossano Calabro hanno realizzato un’area destinata ai colloqui tra detenuti e figli minori. A parte qualche spazio verde in strutture grandi come Rebibbia, nel resto del paese sappiamo come avvengono i colloqui e come non sia possibile neppure immaginare un abbraccio tra figli e loro genitori in carcere. Il valore di questi bambini non può e non deve essere negato per colpe che non hanno commesso. E’ un lavoro specifico rivolto proprio a questi minori e che dovremmo esportare in tutta Italia. Iole Santelli, sottosegretario alla Giustizia, mi spiegava che il progetto sui minori è molto più ampio e va ad interessare anche quei ragazzi con pene lunghe che escono dagli istituti minorili e che invece di scontare la pena in carcere perché maggiorenni andranno in strutture di semi internato dove studiano e finiscono anche per laurearsi.

 

Perché Angeli ha deciso di appoggiare questo progetto?

Questa è una realtà che purtroppo viene trascurata perché le priorità ruotano nella maggior parte dei casi intorno alla struttura che contiene, reprime e rassicura i cittadini. Ma la sicurezza è un argomento valido se previene, se offre ai detenuti e ai loro familiari buoni motivi per accettare le regole della convivenza civile con diritti e i doveri in cui riconoscersi e crescere insieme. Un detenuto che ha commesso un reato e deve scontare la sua pena non crederà mai che sia giusta se a margine della privazione della libertà sopraggiungono afflizioni che nulla hanno a che vedere con la rieducazione. Non dare l’opportunità di coltivare il rapporto con i figli in condizioni che consentano di stare insieme, di condividere spazi di normalità, è davvero un’occasione mancata per la sicurezza della comunità. Le persone detenute saranno uomini e donne migliori se avranno avuto esempi migliori e non c’è miglior esempio del ricordare a quel bambino che nonostante gli errori dei suoi genitori c’è sempre un modo per rimediare e per riavere accanto mamma e papà. In questo lo Stato che punisce e pensa alla sicurezza della collettività ha grandi responsabilità non solo verso gli adulti ma anche nei confronti del minore che è lasciato solo ad aspettare.

 

Pagina a cura di Dimitri Buffa Scrivete a: L’opinione, rubrica "L’opinione delle carceri", via del Corso 117 – 00186 Roma - E mail redazione@opinione.itbuffa@opinione.it

 

 

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