|
La voce nel silenzio Periodico di informazione culturale della Casa circondariale di Udine Anno 6 – numero 2 - aprile 2006
Ferie di ferragosto… licenze sospese
Sono
un detenuto in semilibertà; mi sento privilegiato quando mi paragono a quelli
che non godono di questo beneficio, concessomi dal Tribunale di sorveglianza di
Trieste un anno e mezzo fa. Ai detenuti in semilibertà l’equipe impone un
programma di trattamento e delle regole. In questi anni ho maturato la
consapevolezza che il rispetto di quelle regole è fondamentale per vivere una
vita onesta; per questo mi sono sempre fatto forza per non
trasgredirle ed essere coerente con gli impegni assunti non solo con gli
operatori, ma anche con le persone affettivamente vicino a me, che tanto hanno
investito sulla fiducia nella mia persona. Recentemente ho vissuto
un’esperienza che ha messo in serio dubbio la mia credibilità, con
conseguenze dolorose per me. Essendo un ex-tossicodipendente, da un anno e mezzo
sono periodicamente sottoposto a esami tricologici e delle urine, finora sempre
con esiti negativi, per la ricerca di eventuali sostanze. Ad
agosto, l’amara sorpresa! Venni convocato dal medico referente,
un’assistente sociale e una psicologa del SER.T per un improvviso colloquio.
Appena entrato in ufficio, dalle facce di quelle persone, capii che qualcosa non
andava. Il medico mi disse che l’esame tricologico risultava positivo
all’uso di eroina. Rimasi sconcertato da quelle parole; fortunatamente ero
seduto, altrimenti sarei cascato sicuramente a terra. All’improvviso
smarrimento si aggiunse una forte rabbia, sapendo di non avere usato negli
ultimi due anni nessuna sostanza tossica. Addirittura, per maggiore
precauzione e per evitare qualsiasi disguido, non assumevo neanche le pastiglie
per il mal di testa. La rabbia provocata da quella notizia era molto forte,
reagii d’impeto e, senza ascoltare nessuno, mi alzai e me ne andai. Non
avevo voglia di parlare: cercavo di capire come fosse potuta succedere una
cosa del genere! La mia confusione era tale da non farmi ragionare obiettivamente,
e quel pomeriggio andai a lavorare con poca voglia. Pensavo a come risolvere
questo problema e non trovavo una via d’uscita. Eppure, sapendo di non avere
trasgredito in alcun modo, ebbi la forza di reagire, anche perché l’aiuto mi
arrivò da diverse persone che erano poco convinte di quell’esame.
L’indomani feci subito un contro esame per dimostrare la mia buona fede; avrei
dovuto aspettare un po’ per la risposta, ma era l’unico modo per poter
ritrovare la fiducia persa. Il sabato successivo fui chiamato all’ufficio
matricola del carcere, mi fu notificato la revoca delle licenze premio dal
magistrato di sorveglianza che, letto l’esito dell’esame, non poteva fare
altro che provvedere a sospendere quei premi concessomi. Addio ferie! Dovevo
solamente avere pazienza, cercare di essere calmo e avere fiducia nelle
persone che credevano in me. Nell’attesa della risposta cercavo di sapere
qualcosa di più su questi esami, consultavo libri, andavo su internet e giorno
dopo giorno imparai diverse cose sull’argomento. Seppi che in diversi stati
del nord America questi esami non hanno nessuno valore in quanto poco
attendibili. Cercando ancora trovo che la morfologia dei capelli e peli è
molto diversa. Devo precisare che a me furono prelevati peli del torace, perché
avevo pochi capelli, avendoli rasati. Tutto diventò chiaro quando parlai con un
medico che mi disse che lui non avrebbe mai preso peli del torace per fare un
esame del genere. Infatti se il capello, con il taglio, si rinnova
periodicamente, il pelo può rimanere sul corpo diverso tempo, addirittura,
nella maggior parte dei casi, si può parlare di anni. Ormai ero sicuro che
tutto si sarebbe risolto molto bene, dovevo solo aspettare ancora un po’ e
avrei potuto dimostrare la mia buona fede. La
risposta arrivò: l’esame questa volta era negativo, non c’erano tracce di
sostanze stupefacenti, come del resto era logico. Le licenze premio mi furono
ridate, tutto tornò alla normalità. Per concludere devo dire che ho raccontato
questa vicenda che mi é capitata affinché una cosa del genere non succeda
mai più. Penso di avere creato un precedente, voglio sperare che un domani la
superficialità dimostrata, in questo caso, da determinate persone in questo
caso serva di lezione, avendo rischiato di perdere i benefici, per incompetenza.
Non accuso nessuno. Può accadere, quando non si conosce a fondo il proprio
lavoro, di sbagliare; mi auguro che non accada più. Permessi
di necessità: le contraddizioni dell’ordinamento penitenziario di
Cris Sono diventato papà di un bellissimo
Angelo di nome Sara, il 31 agosto del 2005. Tutto è andato bene, mancavo solo
io alla nascita della mia piccolina, solo io non ero presente nel giorno più
bello della mia vita. La nascita di un figlio sono certo che sia la cosa più
bella. Poter stare vicino alla persona amata in quel momento così dolce, fatto
di dolore e felicità, frutto di aver trasformato l’amore in verità, di aver
creato una cosa unica e di volerle trasmettere il meglio di una coppia. Ora mi
chiedo: perché non c’è una legge che permetta l’uscita dal carcere in
questi momenti di gioia? Parlo dell’articolo 30 dell’Ordinamento
Penitenziario che concede l’uscita dal carcere solo per motivi gravi o di
morte. Mi chiedo: perché negare questo dolce momento? Nella vita una persona può
sbagliare, `quanti lo fanno! Avevo chiesto di andare all’Ospedale con la
scorta o con l’assistente volontario; premetto che mi trovo in carcere per
motivi finanziari e non sono socialmente pericoloso. Mi bastava anche un’ora
solo per vedere venire al mondo la mia piccola Sara e per condividere quei
momenti con la mia amata. La legge
me lo ha negato. In
un certo senso quel momento è stato il più brutto della mia vita, pieno di
paure e di angosce, di ansie: la paura di non poterla vedere, la paura di
perderla, la paura che qualche cosa andasse male. Attimi che solo io in quel
momento stavo provando. Sono pensieri normali per una persona che vive qua
dentro e che non può vedere né sentire il suo Angelo venire al mondo. Quando
poi mi hanno comunicato che il mio Angelo era venuto al mondo mi sono messo a
piangere, sono crollato, mi sentivo vuoto. Io ero qua e non potevo darle il primo
bacio, la prima carezza e non poter tenere la mano alla mia amata e dirle:
“amore grazie, vi voglio tanto bene”. II giorno più bello della mia vita si
stava trasformando in un incubo; per grazia di Dio tutto è andato bene. In
Italia fanno tante leggi per salvare le persone potenti e non si fanno delle
leggi che farebbero felici tanti padri, come
avrebbero fatto felice me se mi avessero fatto andare in ospedale. Per
questo “ringrazio chi fa le leggi” per avermi strappato il giorno più bello
della mia vita. Un’idea
per risolvere alcuni problemi che assillano le carceri italiane di
Leonardo Si
pensa che il carcere debba rieducare un essere umano a vivere secondo uno
stile di vita improntato al rispetto degli altri. Almeno in teoria così
dovrebbe essere. Ma è realmente così? Forse per pochi può funzionare ma io,
da detenuto, per esperienza personale, sono convinto del contrario. Com’è
possibile rieducare una persona chiudendola in “gabbia”, impedendogli di
mantenere quei contatti umani indispensabili per ogni individuo e in qualche
maniera da considerare “primordiali”, esempi di vita “impeccabili” (se
è da ritenere che chi non si trovi in “gabbia” sia “senza peccato”),
e lasciandola tra altri che hanno commesso sbagli di più generi? Risultato: uno scambio d’idee per
commettere altri crimini; imparare tecniche diverse e ampliare le proprie
conoscenze dell’“ambiente” (o giro). In pratica il carcere non diventa
altro che una sorta d’università del crimine in cui si apprende uno stile
di vita che non ha niente a che vedere con l’educazione alla convivenza con la
comunità, e la cosa peggiore è che il tutto avviene alle spese dei
contribuenti. Io non so se le cifre sono esatte ma, da quello che ho capito,
il detenuto in media può costare anche fino a 400 euro al giorno. Vi sembra
troppo? Dobbiamo considerare le retribuzioni del personale, le spese sanitarie,
il vitto e l’alloggio (comprendente acqua, luce, manutenzione delle
strutture eccetera). Moltiplicato per circa 60 mila detenuti attuali, è
subito fatto il conto. Avendo questi dati e questi risultati, non sarebbe meglio fare cambiare
qualcosa? Forse non tutti questi detenuti dovrebbero scontare la loro pena in
carcere. Si potrebbero trovare pene alternative che, oltre a rieducare
l’individuo, potrebbero essere di utilità sociale e magari darebbero
l’opportunità di automantenersi per non essere di peso alla comunità. Per
esempio si potrebbe pensare ad un affidamento dei detenuti ad associazioni
come la Caritas, Protezione
civile, case di cura…, per ottenere maggiori risultati su tutti i fronti. So che non è possibile per tutti ma sono sicuro che con una buona
valutazione di ogni individuo, molti risulterebbero idonei a questo tipo di
percorso. Lo stesso l’ho provato sulla mia persona. Oggi sto scontando 5
anni per un reato commesso 13 anni fa, del quale io mi sono sempre protestato
innocente. Quando mi hanno arrestato ero perfettamente integrato nel tessuto
sociale da ben 7 anni. Lavoravo e mantenevo la mia famiglia attuale e passavo
puntualmente gli alimenti alla famiglia che avevo perso durante una precedente
carcerazione. Ora invece sono nella “gabbia” a spese dello Stato, e non
posso più far fronte agli impegni che avevo sempre onorato, causando in tal
modo una situazione di disagio alle persone che. in qualche modo, dipendevano da
me per il loro sostentamento. Allora ero riuscito a reinserirmi grazie ad una
persona che mi ha aiutato a ripartire e a credere di nuovo nella società. Ha
creduto in me e nelle mie possibilità. Ma quanti sono così fortunati? Non
voglio neanche pensare a che cosa sarebbe stato di me se non avessi avuto
questo tipo di aiuto. Provate solo ad immaginare la mia uscita dal carcere dopo
un periodo di detenzione di 5 anni e 6 mesi (tale è stata la mia prima
condanna) con solo i vestiti che indossavo, senza un soldo, senza un posto di
lavoro e senza un tetto dove ripararmi. L’unica cosa che avevo: un foglio con indirizzi di detenuti conosciuti
in carcere. Si, perché la maggior parte di coloro che trascorrono un periodo di
detenzione di qualche anno, quando escono sono ridotti proprio così. Come si può
pretendere che queste persone riescano a reintegrarsi? È normale che si
aggrappino a quel poco che hanno e cioè a quel foglio con gli indirizzi: ecco
fatto... si ritorna nel “giro”. Ma se solo queste persone avessero avuto
un contatto umano con persone integrate, certamente impossibili da scorgere
all’interno di un istituto di pena ma presenti nelle associazioni di cui
parlavamo o comunque in altri ambienti, avrebbero avuto maggiori possibilità di
incontrare la persona che tende la mano o per lo meno la visione di una
strada alternativa e, forse, avrebbero fatto come me: avrebbero buttato
via il foglio con quegli indirizzi. Così si ritorna al discorso iniziale:
educare, reintegrare una persona vuol dire avvicinarla a situazioni diverse
dalla “gabbia”. Solo così ognuno può scegliersi il proprio futuro e
ottenere maggiori risultati utili a se stesso e alla società. Qualche
riflessione sul “dopo carcere” di
Maria Grazia Non
so se sarà contento che questa volta sia io a parlare di lui: per questo non
farò il suo nome. Quando faceva parte della redazione di questo nostro giornale
ci aveva regalato delle belle pagine sul suo percorso personale, sul travaglio
passato e presente, ma aveva affrontato anche i tanti problemi comuni a chi vive
la realtà del carcere. Uscito da via Spalato per terminare fuori la sua pena
residua, grazie anche al fatto di aver trovato una casa e un lavoro, ormai da
quasi un anno vive e lavora in modo autonomo (pur con le restrizioni che la
legge gli impone). All’inizio avevo sue notizie abbastanza frequenti: lo
sentivo per telefono e ogni tanto c’era l’occasione di vedersi. Ho potuto
così cogliere il senso di disorientamento dei primi giorni, quando il suo
corpo, privato da qualche anno di qualunque spazio di intimità personale,
poteva finalmente esprimersi liberamente. Ho percepito l’ebbrezza che
provava passeggiando nel suo appartamento, spazio immenso rispetto ai passi
contati a cui era costretto nella sua cella. Ho
gioito con lui per i legami familiari che finalmente potevano trovare le
condizioni favorevoli per ricomporsi, perché almeno le barriere fisiche,
ostacoli ad una libera comunicazione, erano cadute; ma ho anche colto l’ansia
per altre barriere che gli anni di detenzione avevano innalzato fra lui e i
familiari che gli stavano più a cuore e che, vivendo all’estero, rimanevano
ancora irraggiungibili. Era soprattutto di qui che nasceva la sua determinazione
a tuffarsi nel lavoro, a sfruttare ogni possibilità di guadagno con ore
straordinarie per poter azzerare al più presto i debiti (multe processuali e
spese di carcere) che, se non pagati, rappresentano, in base alla legge, un
ostacolo all’espatrio anche qualora la pena fosse tutta scontata. L’ho
rivisto poco tempo fa, dopo alcuni mesi. Il lavoro lo assorbe completamente;
spesso non ci sono per lui né sabati né domeniche. Data la delicatezza della
sua posizione non ho indagato troppo in quali condizioni lavori, ma ho colto da
alcuni accenni che la precarietà e le scarse garanzie di sicurezza sono
dominanti in molti ambienti che la sua attività lo porta a frequentare.
Nonostante il carico di ore lavorative mi è parso di ottimo aspetto, ma
soprattutto con qualcosa di nuovo negli occhi e nel sorriso. Un po’ alla
volta, mentre mi raccontava di questi ultimi mesi mi sono fatta una ragione
di quella luce: da qualche tempo gli arriva via telefono la voce di un bambino che
aspetta il suo papà, per specchiarsi nei suoi occhi, per giocare con lui, per
farsi coccolare. Un bambino che del papà ha solo sentito parlare perché non
l’ha conosciuto, ma ora sta prendendo coscienza di qualcosa che gli spetta. Ed
esige la sua parte, perché
se fosse in grado di capire la situazione non accetterebbe di dover pagare tanto
per una colpa non sua. Non posso evitare di soffermarmi a pensare al turbinio di
ansie ed emozioni che l’amico sta vivendo e così mi affiorano domande e
considerazioni. Non è raro che a causa di qualche grave
fatto di cronaca, si parli di eccessivo garantismo della legge nel confronto
dei detenuti, spesso perché un caso particolare, non analizzato nel suo
contesto e non confrontato con situazioni analoghe, diventa motivo di
generalizzazione. Credo che un’opinione pubblica più consapevole di tutti i
problemi, più informata sui rischi di una giustizia in cui i soggetti non sono
valutati come persone inserite in un contesto familiare e sociale, ma solo come
individui da punire, prenderebbe coscienza che la società tutta correrebbe
meno rischi se chi è in carcere potesse vivere questa dura esperienza senza
perdere di dignità e quando esce fosse più aiutato a ritrovare una sua strada.
Anche quindi volendo analizzare la situazione solo da un punto di vista di costi
e benefici, a chi giova affrontare il problema solo con l’aumento di misure
restrittive? Se quella che esce dal carcere è un’umanità offesa o
incattivita, non ci perdiamo un po’ tutti? O pensiamo che il carcere sia il
luogo in cui chiudiamo i problemi che la società di oggi non sa affrontare e
risolvere, per poi buttarne la chiave? Penso poi a quello che sta succedendo oggi nel mondo del lavoro. Quante
sono le persone che per garantirsi un lavoro si lasciano sfruttare, senza
garanzie di sicurezza perla propria incolumità, salute, futuro? Ma l’amico
non merita di essere fonte solo di
pensieri negativi, perché so che, nonostante tutto, sta trovando la forza per
affrontare difficoltà e problemi, anche grazie a chi ha voluto stargli vicino
in questo percorso. Mi auguro che come lui tanti altri trovino lo stimolo e
l’aiuto per non scoraggiarsi nell’incontro con persone, anche
dell’istituzione, che abbiano a cuore l’uomo. |