Le voci dalla strada

 

Le voci dalla strada

da "L_inkre@dibile", periodico del Master in giornalismo dell'Università di Padova

 

Tanti, soli e per strada. A Padova i senzatetto sono almeno 300

Alla "Casetta" tra uomini e donne che lottano per sopravvivere

Da una chiesa all'altra senza documenti né soldi

Gli avvocati di strada con sportelli a Padova Verona e Mestre

Come si diventa un barbone a 34 anni

Tanti, soli e per strada. A Padova i senzatetto sono almeno 300

 

Non esiste la figura romantica del clochard, quello che la vita di strada l’ha scelta. Perché non c’è nulla di romantico nell’essere un clochard o, se preferite, senzatetto. Per strada valgono soprattutto tre regole: senza documenti non sei nessuno; se sei italiano è più facile che ti aiutino; è una guerra di tutti contro tutti, per un letto o un pasto. Questa è l’unica lettura comune della galassia sfaccettata e contraddittoria dei "senza fissa dimora" a Padova. Perlomeno, mette d’accordo chi lavora nel settore: operatori di associazioni, di cooperative, volontari e non, persino le istituzioni.

"Se sei un senzatetto, la prima cosa che ti devi augurare è di avere ancora i documenti", spiegano all’associazione "Noi famiglie padovane contro l’emarginazione". Senza, non hai diritti: nessuna assistenza sanitaria, nessuna tutela legale. È la situazione di quasi tutti e specialmente degli stranieri, che sono sprovvisti del permesso di soggiorno. Una difficoltà in più per essere aiutati. Ma quanti sono i senzatetto a Padova? La ricerca "Presenze nascoste" commissionata dalla Regione Veneto ne conta 300. Un numero che gli operatori sociali giudicano però sottostimato, anche se riconoscono che contarli uno a uno è difficile o addirittura impossibile. Il percorso per ricevere una mano è vario. Agli italiani la Caritas diocesana mette a disposizione 12 posti letto gratis nella "Casa Elisabetta d’Ungheria", il dormitorio in via Rudena: si accede con un colloquio. Lo stesso fanno la parrocchia della Santissima Trinità (8-10 posti, anche per gli stranieri) e l’asilo notturno in via del Torresino, gestito dal Comune: 82 letti (70 per italiani, 12 per stranieri). Per entrare, bisogna avere un documento di identità e presentarsi allo sportello del segretariato sociale, in via del Carmine. "Adesso, con l’emergenza freddo - specificano i responsabili - a seconda della gravità dei casi possono essere ospitati per un paio di notti anche quelli che non hanno sostenuto il colloquio. Glielo facciamo fare in un secondo momento".

È il freddo, ora, che fa più paura. Per l’inverno il Comune gestisce un coordinamento cittadino con le altre cooperative e associazioni impegnate nel portare aiuti. Ma le funzioni sono soltanto consultive e ognuno alla fine opera in proprio.

In via Trieste sono stati ricavati altri dieci letti, dopo che Trenitalia ha negato il permesso per le brandine in stazione, che invece c’erano l’anno scorso. A "La casetta" in via Eremitano "Noi" gestisce un servizio pomeridiano di docce e uno di accoglienza serale per chi si vuol riposare un paio d’ore. Dieci persone a notte dormivano un anno fa nei due container messi a disposizione da l’associazione "Razzismo stop" nella sua sede di via Gradenigo: per quest’anno il "Progetto Siberia", come l’hanno chiamato, è in fase di avviamento.

Se hai fame, tra le varie opportunità ci sono le cucine popolari di via Tommaseo. Con un buono che ritiri o alla Caritas o all’opera "Pane dei poveri" hai un pasto ed è qui che vedi realtà diversissime, spesso in conflitto tra loro: alcolisti e tossicodipendenti, cattolici e musulmani, e anche malati psichiatrici, ex detenuti. Si può mangiare poi al centro giornaliero "La Bussola" in via Tiziano Minio, attivo dall’aprile di quest’anno. Varie parrocchie offrono pasti gratuiti e il martedì e il giovedì alle 21 nel piazzale della stazione ferroviaria ci sono i ragazzi della comunità di Sant’Egidio che distribuiscono panini e bevande. Per l’assistenza sanitaria, invece, operano medici volontari: alcuni all’ambulatorio della Caritas in via Dupré, altri alle cucine popolari. In orario di visite c’è sempre la fila.

 

Matteo Mohorovicich

 

Notte di S. Lucia: in 40 per 10 posti

Alla "Casetta" tra uomini e donne che lottano per sopravvivere

 

Il termometro segna quattro gradi, ma sono solo le otto di sera e scenderà ancora. È la notte di Santa Lucia e la fuliggine delle marmitte cala dalle auto che passano sopra il cavalcavia depositandosi sulle giacche, sui rari guanti delle persone in fila. La maggior parte di quelle persone proviene dall’Europa dell’Est. Occhi grigi, sguardo veloce, diffidenza. Altri sono africani, soprattutto marocchini. Hanno facce stanche e rugose, labbra rotte, occhiaie profonde. I pochi italiani si riconoscono immediatamente, si muovono con maggior sicurezza, parlano con gli operatori, riescono perfino a ridere.

Alla Casetta (centro di prima accoglienza in via Eremitano), dalle 20 alle 22, l’associazione "Noi" offre ai senzatetto un tè caldo e qualche brioche, poltrone su cui riposare cullati dall’altoparlante della stazione, proprio dietro il fabbricato. Ma offre soprattutto la possibilità di dormire sotto un tetto. Monica, la responsabile, registra tutte le richieste. Stasera ne sono arrivati otto nuovi, due non hanno voluto lasciare il loro nome, sono senza documenti e la paura di esporsi è più forte di una notte all’addiaccio. La precedenza andrà sicuramente a quella nuova famiglia con due bambini, gli altri aspetteranno, forse domani sarà il loro turno. Perché i posti gestiti dall’associazione sono una decina, le richieste trenta, quaranta a sera.

Pozzanghere d’acqua sul pavimento interno, come se la strada volesse invadere anche quel rifugio. Scarpe da ginnastica si muovono in fretta, escono, rientrano, si fermano davanti al tavolo di fronte alle scarpe di Monica. "C’è posto? Io dorme fuori anche stasera?". Alessandro, un altro operatore guarda in basso, "la prima cosa che si impara in questo lavoro è dire di no". Un no che però appare ingiustificato a quegli occhi che chiedono aiuto. "Io aspettare, tu dire me finito posto? E io stasera dove dormire?" - la voce si rompe in singhiozzi - "Io prendo metadone, io smettere droga, ma se stasera fuori io mi drogo per non sentire freddo. Se stasera io drogo è colpa tua, Monica, è colpa tua".

Inutile provare a spiegare che i posti sono quelli, che devono necessariamente ruotare, che ogni volta qualcuno rimane fuori. Quegli occhi intanto sono usciti, si sono seduti sullo scalino e hanno pianto, ma hanno anche continuato a non capire, ad inveire. Si sono aperti una birra, per rappresaglia. Ma alla fine sono riusciti a passar la notte, e il giorno dopo hanno camminato fino alla mensa popolare di suor Lia, gonfi, strafatti, accalcati insieme a quelli di altre trecento persone che quotidianamente si presentano per un piatto caldo. Là trovi anche molte donne, in genere poco frequenti alla Casetta, anziani, badanti. Monica continua a scrivere, è scossa, ma non può mostrarlo.

Il telefono squilla, le chiamate si susseguono. Bisogna trovare altri posti d’emergenza. Nel frattempo vengono distribuite alcune coperte. Anche quelle sono razionate. Il Comune ne dà 10 ogni 15 giorni e gli operatori devono gestire anche quel piccolo tesoro con parsimonia, segnare su un foglio chi ne ha già presa una, rimproverare chi la perde o dice di essere stato vittima di un furto. "La coperta è bene prezioso - spiega Ibrahim - tu no freddo con tanti cartoni e coperta". Ibrahim è arrivato in Italia nel 1989, appena ventiduenne. Franchi francesi in tasca e in bocca una bugia: "Sono un turista". Era già venuto qua nel pomeriggio perché alla Casetta, dalle tre alle cinque, chi vuole può avere sapone, asciugamani e farsi una doccia calda. Ma lui voleva solo riposare al caldo, su una poltrona. Si è dovuto accontentare di una panca di legno. Ha appoggiato le stampelle e ha steso il braccio fasciato. Ibrahim è stato investito e l’automobilista è fuggito. Nessuna denuncia, perché anche lui è senza documenti. Possibile? In Italia da quasi diciassette anni e ancora clandestino. Racconta la sua vita, ma la realtà si confonde con la fantasia, la storia si plasma e diventa quello che avrebbe dovuto essere e non quello che è stato. Qui tutti raccontano storie, ma spesso non si tratta di bugie, piuttosto tentativi di autoconvincimento.

"Come posto finito?", sono le uniche parole che riesce a farfugliare un altro ragazzo, visibilmente imbottito di droga, le mani sporche di sangue. Si siede, si arrabbia e ripropone quello che ormai sembra un ritornello: "Se stasera io drogo colpa tua". Dopo poco si affloscia sulla sedia, si risveglia in preda a singhiozzi, sembra che sputi sangue, non parla. Ormai ha perso conoscenza. "Se ti chiamiamo un’ambulanza vai con loro?", il ragazzo risponde solo dopo una decina di minuti, con un cenno del capo. Arrivano dopo poco e se lo portano via. Ma la fila di persone non si ferma per questo, rimane lì, in attesa. Nei bicchieri fuma il tè caldo, i gruppetti si sono formati a seconda delle etnie. La porta è un continuo aprirsi e chiudersi dei fumatori, di quelli scoraggiati che escono sbattendola, degli operatori che li seguono per parlare: "Dobbiamo far dormire tutti al caldo, ma servono i turni, cerca di essere forte". Verso le dieci arriva Padre Gianfranco, presidente della Caritas e porta buone notizie: dalla prossima settimana ci saranno trenta posti in più, messi a disposizione dalle poche parrocchie che hanno risposto al suo appello. Con lui arrivano anche dei sacchetti di cibarie, un altro tesoro da dividere, forse riuscirà a bastare fino a domani sera.

 

Beatrice Mani

 

"Aiutatemi, cerco un letto"

Da una chiesa all’altra senza documenti né soldi

 

Senza una casa, senza un documento, senza sapere nulla della città in cui mi trovo. Mi metto sulla strada così, non indosso stracci né vestiti logori, ho solo un grande problema da risolvere: trovare un tetto sotto cui trascorrere la notte. Chi mi guarda vede un ragazzo di razza bianca, chi mi ascolta sente parlare italiano. Esistono assistenti sociali ed associazioni ma bussare alle porte delle chiese, in simili situazioni, è uno degli atteggiamenti più spontanei se non altro perché è risaputa la loro vocazione all’accoglienza. Sono le tre del pomeriggio di mercoledì 14 dicembre 2005, parto da via Facciolati, un posto qualunque. Ecco com’è andata.

Entro nella chiesa di San Prosdocimo, in Piazzale Pontecorvo, i banchi sono deserti, una donna mi dice di suonare in canonica. Aspetto. Apre il parroco, è una persona anziana, rimango sulla porta, spiego il problema senza muovere un passo. Lui sospira, si appoggia allo stipite, guarda altrove e dice "Caro figliolo, ce ne sono decine di persone che ogni giorno vengono a suonare questo campanello". Faccio ben intendere che non cerco soldi, solo un posto dove trovare ricovero ma lui ripete la stessa frase alternandola a lunghi momenti di silenzio. Una signora suona dal cancello, mi lascia lì, corre ad indicare alla donna dove parcheggiare l’auto. Lo seguo, insisto: "Se lei non mi può aiutare, sa almeno dove possa andare?" Mi manda all’ostello della gioventù. Chiarisco nuovamente: non ho documenti né soldi sufficienti per pagarmi una letto. Silenzio. "Provi al dormitorio - dice - ma sarà pieno".

Mentre seguo l’indicazione del parroco passo vicino alla basilica del Santo e decido di chiedere aiuto anche lì. Attraversando la navata, mi sento piccolo, fuori luogo. Chiedo all’usciere di parlare con il parroco, convinto che anche lì ce ne sia ancora uno solo. Indica la sagrestia. Entro. Un prete scende dalle scale, mi vede, rallenta, mi squadra senza dirmi nulla e s’infila nella sala davanti ai miei occhi. La porta è aperta, lo seguo e capisco che è lui la persona che sto cercando. Entro e mi fermo poco oltre a soglia. Lui mantiene la distanza. "Mi hanno rubato tutto, soldi, portafoglio, documenti, perdoni padre, cerco qualcuno che mi aiuti perché non so dove passare la notte" dico. Continua a squadrarmi. "Non so cosa dirle" risponde. Rimane a due passi da me; "Sono spiacente". Fa per girarsi, provo a ripetere: "Cerco solo qualcuno che mi aiuti, che mi dica cosa posso fare". "Guardi - risponde secco - questo non è il luogo per affrontare questi argomenti". La risposta mi lascia perplesso, "Se non qui dove?" ribatto. "Vada a chiedere in portineria". In portineria? Comincio a credere d’aver sbagliato tutto, forma, modo di pormi, faccia. Poi rifletto: fino a questo momento nessuno ha voluto conoscere tutta la mia storia.

La portineria è una grande cancellata in ferro che chiude un passaggio in fondo al quale c’é un ufficio. Suono il campanello. Dietro la vetrata appare un uomo, mi guarda dietro i venti metri che ci separano. Rifaccio la richiesta. "Vada alla Caritas dell’Orto Botanico - mi risponde - ma domani mattina, adesso è chiusa". Domani? Riformulo la domanda. "Mi dispiace, non so cosa dirle, mi dispiace". La voce pare seriamente dispiaciuta. Smetto di insistere, sospiro e cerco almeno un consiglio. "Provi alla Curia Vescovile - mi dice - vada al Duomo". E Duomo sia. Quando varco il portone sono la quattro passate. Banchi deserti, una coppia di ragazzi aspetta il prete fuori dal confessionale. Incrocio una suora. "Mi scusi - dico - ho bisogno di aiuto, mi hanno rubato tutto, soldi, documenti, mi hanno detto di andare alla curia Vescovile, al Duomo, non so cosa fare". "Vada alla Caritas, è qui dietro, qui non possiamo fare nulla". Mi indica la strada e taglia l’angolo. Entro nel portone di Palazzo Pio X. C’è un po’ di tepore, mi affaccio all’oblò della portineria: "Cerco la Caritas" dico. Il signore dall’altra parte del vetro mi risponde secco: "È chiusa, oggi pomeriggio è chiusa". Come chiusa? Adesso che faccio? Comincio ad essere preso dallo sconforto. "Provi a chiedere a quella suora" consiglia. Mi indica una figura ferma davanti a una porta chiusa a chiave. È giovane, avrà poco più di una trentina d’anni. Ascolta la mia storia guardandomi due o tre volte dalla testa ai piedi. "Perché non provi a prendere un treno così, senza pagare?" mi propone. "L’idea è plausibile - rispondo - ma senza documenti né biglietto rischio che mi facciano scendere ben prima di Trento (il luogo dove dico di essere diretto), magari in piena campagna. Meglio chiedere aiuto qui e aspettare domani". La mia giustificazione zoppica ma la accetta. "Non so che fare - risponde - provi dai Padri Comboniani, forse loro possono aiutarla". Mi faccio spiegare dove sono, mi gratto la testa. Ringrazio. "Buona fortuna" mi augura. Quando arrivo davanti alla missione comincia ad esse buio. Mi sento scombussolato e confuso.

In portineria dicono che il responsabile è impegnato, si libererà dopo mezz’ora. Mi consigliano di tornare perché forse possono fare qualcosa. La frase apre un barlume di speranza. Mi faccio dare un recapito telefonico ed esco. Continuo a camminare. Entro nella chiesa degli Eremitani: vuota. Suono in canonica: silenzio. Torno verso la missione. Arrivato in piazza Petrarca entro nella Basilica del Carmine e fermo un prete che esce dal confessionale. Gli spiego la situazione. Guarda altrove, mi ripete frasi già sentite. "Non posso fare nulla - aggiunge - a Padova ci sono pochi punti di accoglienza. Vada al dormitorio, è qui, a venti minuti, lei è giovane, camminando ci mette poco". Possibile che nessuno sappia che lì non si entra senza l’autorizzazione del Comune? Mi offre dei soldi. Rifiuto. Insiste. Lascia cadere nella mia mano un euro e mezzo e mi dà due indicazioni di massima per raggiungere via Torresino. Ringrazio. Infilo le monete nella cassetta delle offerte ed me ne vado. È buio.

Alle sette meno un quarto il portone dei Padri Comboniani scatta. Il portinaio mi fa accomodare in una stanza e va a chiamare il responsabile. Entra un uomo, sembra un laico. Ascolta la mia storia e per la prima volta vedo un po’ d’interesse. "Bella sfortuna - replica - ma non ti preoccupare, siamo organizzati". Esce. Lo sento parlare al telefono. "Sono io.. c’è qui un ragazzo in difficoltà.. si.. si, alle otto.. va bene, grazie". Torna in due minuti. Ha parlato con l’assistente sociale, basta che mi presenti vicino alla stazione alle otto ed avrò un posto letto in via Trieste, prenotato. Mi porge due euro, "Hai fame? - chiede - questo basta per pagarti il pasto alle cucine popolari". Rifiuto, mi preoccupa altro: non ho documenti. "Non c’è problema" risponde. Mi dà un foglietto con le indicazioni ed il recapito telefonico dell’operatrice e mi augura buona fortuna. "Grazie, grazie davvero" rispondo. Alle otto mi presento all’appuntamento, mi accoglie un operatore, il posto letto c’è, ringrazio ancora e lo disdico perché qualcuno, questa notte, può averne veramente bisogno.

 

Federico De Wolanski

 

Gli avvocati di strada con sportelli a Padova, Verona e Mestre

 

L’assistenza legale gratuita ai senzatetto è l’obiettivo di un’iniziativa nata nel 2000 a Bologna dalla collaborazione dei legali Valerio Cerritelli e Antonio Mumolo con l’associazione Amici di Piazza Grande. Alberto Benchimol, direttore del progetto avvocati di strada : "I legali sono tutti volontari. Non si tratta solo di consulenze. Se necessario, si va in tribunale. Dopo le prime vittorie, altri centri hanno aderito, tra cui Padova , Verona e ora anche Mestre". Il Veneto è in prima linea. I dati sono confermati da Toti Naspri, direttore di "Capolinea", il giornale di strada scaligero distribuito dai senzatetto. "L’adesione di tre città nella stessa regione è un record". Nella città del Santo sono una trentina gli "avvocati di strada". Le prestazioni legali sono a tutto campo e gratuite. Il segretario dello sportello, Nicola Sansonna: "I senza dimora non possono accedere al gratuito patrocinio perché non hanno residenza. Nell’80% dei casi il problema viene risolto attraverso una consulenza. Non cerchiamo lo scontro, ma la collaborazione col comune e i vari enti. Certo che i senza fissa dimora aumentano di continuo".

 

Michele Campagnoli

 

Come si diventa un barbone a 34 anni

Roberto: "Ho perso tutto per amore. Casa, famiglia e identità"

 

Pantaloni verdi in stile militare e giubbotto imbottito. I capelli sono corti ma curati, il viso appena rasato e la pelle leggermente abbronzata. Quando arriva alla Cassetta Roberto assomiglia più ad un operatore che ad un barbone. Infatti fino a tre anni fa la sua era una vita normale: a 34 anni aveva una casa, una moglie e due figli, un lavoro in polizia. Poi la strada. Questo è un uomo brillante, con il sorriso stampato sulle labbra, la battuta sempre pronta e una sfilza di ex: poliziotto, marito, padre, figlio, cittadino.

La sua storia ha inizio in Friuli dove è nato e cresciuto, dove aveva costruito una vita scandita dall’orario di lavoro, dall’amore dei suoi cari. Poi un giorno l’incontro con una ragazza, la perdita di ogni controllo e la disfatta: "Pensavo solo a come trovare il denaro per portarla fuori - racconta - fare la bella vita. Ho iniziato a truffare chiunque, aziende, imprese, fin quando non sono stato scoperto e catapultato di nuovo nella realtà". Ma il mondo reale ha mostrato il suo vero volto: "Mia moglie non ha più voluto vedermi, mia figlia sedicenne dice ai suoi coetanei che sono morto, perfino mia madre mi ha ripudiato. Avevo mantenuto i rapporti solo con un caro amico, ma è scomparso poco tempo fa e con lui se n’è andata anche la mia fede".

Al disagio personale, alla vergogna di fronte agli occhi dei concittadini si sono aggiunte le peripezie legali. "Dopo un’esistenza passata a far rispettare la legge mi sono trovato dall’altra parte. Il delinquente questa volta ero io e proprio perché sono un ex agente il trattamento che mi hanno riservato è stato ancora peggiore".

Persi tutti i punti di riferimento Roberto ha iniziato a girovagare. Dal Friuli al Veneto, poi Milano, una corsa in treno da una regione all’altra, senza uno scopo se non quello di perdersi e dimenticare tutto. Dal Nord Italia a Roma, poi Napoli e ancora Treviso, infine Padova dove è arrivato due mesi fa. "È stato in questa città che ho trovato gli assistenti sociali e gli operatori dell’associazione "Noi" e ho deciso di cambiare. Perché è impossibile abituarsi a questo tipo di vita, è uno schifo. Non potevo più sopportare gli stenti, ma soprattutto gli sguardi della gente, la commiserazione ipocrita, le parole mai seguite dai fatti, il disprezzo mal nascosto".

Pochi giorni fa Roberto si è iscritto all’anagrafe per cercare di riavere i documenti. Solo con una carta d’identità italiana in mano si può trovare un lavoro. Lavoro indispensabile perché Roberto ha anche gravi problemi cardiaci che lo costringono a spendere circa duecento euro ogni 15 giorni per acquistare le medicine necessarie. Nella borsa dove c’è tutto ciò che possiede, si trova anche un fascicolo di prescrizioni mediche. "Busso alle porte delle parrocchie e delle associazioni, è l’unica cosa che posso fare. Non ho mai chiesto l’elemosina ai passanti".

Il giorno dopo Roberto entra nelle mensa popolare di via Tommaseo e tutti lo salutano, senzatetto e operatori. Chiede informazioni, scambia battute. Il suo rapporto con la strada non assomiglia a quello stereotipato, sembra non appartenere al mondo dei diseredati. Mentre parla si avvicina un giovane senzatetto, italiano. "Hai un telefonino da vendermi?" - gli chiede - Roberto si gira - "No" - risponde secco e prosegue il discorso, poi si volta verso il ragazzo e dice: "Ne riparliamo dopo".

 

Beatrice Mani

 

 

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