Ristretti Orizzonti

 

A un mese dalla notte di terrore di Via Anelli

Francesca Vianello racconta l’altra faccia del bronx di Padova

di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti

 

26 agosto 2006

 

Esattamente un mese fa, su Padova calava quella che uno dei quotidiani cittadini ha chiamato "la notte più buia"; il 26 luglio scorso infatti, verso le otto di sera, via Anelli diventava scenario del più violento scontro fra nigeriani e magrebini mai verificatosi in città, che ha impegnato per oltre cinque ore più di duecento fra agenti di polizia, delle municipale, carabinieri e guardia di finanza nel sedare quella che alcuni hanno definito una "battaglia dallo sfondo religioso": da una parte quasi duecento nordafricani di fede musulmana, dall’altra altrettanti nigeriani animisti e cristiani. Gli stessi schieramenti che ormai da anni la cronaca dipinge come rivali nel controllo della vendita di stupefacenti.

 

Una rappresentazione, quella del bronx nelle mani dei signori della droga, che in questi anni si è fatta via via sempre più prepotente, monopolizzando ogni spazio di informazione diversa, ogni tentativo di scattare una foto al ghetto ormai più famoso d’Italia che lo ritraesse da un’angolatura differente.

 

«Addirittura quando ci si riferisce a qualche altra area cosiddetta "a rischio" della città, come via Dini o alcune zone di Montà, il timore è quello che diventino "un'altra via Anelli", per cui il nome stesso di questa strada è divenuto un vero e proprio simbolo». A parlare è Francesca Vianello, ricercatrice presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova, autrice di numerosi saggi su temi legati al controllo sociale, alla devianza minorile e alle politiche di sicurezza, oltre che curatrice del libro "Ai margini della città", una ricerca sulle forme del controllo e le risorse sociali proprio di via Anelli, nelle librerie dallo scorso gennaio.

 

Francesca, da dove nasce l’idea di questo libro?

Dal desiderio di smantellare gli stereotipi, e di non arrendersi alle immagini di Via Anelli - una realtà tanto vicina a noi - veicolate sia dai media, che dal senso comune, una realtà di cui tutti ormai pretendono di sapere senza esserci mai stati. Abbiamo perciò fatto ricorso a tecniche etnografiche, che prevedono un ampio uso delle fonti biografiche, proprio per conoscere le persone oggetto della nostra indagine. Siamo andati a vedere cosa si muove sotto a situazioni che sembrano semplici e evidenti, ma che in realtà nascondono dinamiche complesse che bisogna capire.

 

Secondo te sono molti gli stereotipi che minano la rappresentazione del bronx?

Sì: credo che via Anelli sia emblematica in quanto a stereotipi. Pur essendo la modalità del ghetto padovano un qualcosa di molto specifico e particolare per la realtà del nord est, è comunque rappresentativa di una tendenza che esiste sul nostro territorio, e che divide lo spazio pubblico in contesti a forte omogeneità interna e forte disomogeneità esterna, riunendo i simili e allontanando i diversi. È una tendenza che si è rafforzata negli ultimi anni ed è proprio quello che ti costringe sempre più, nel momento in cui tu pensi al diverso da te, ad affidarti a degli stereotipi: te ne manca la conoscenza diretta, per cui ti affidi alle immagini che altri costruiscono per te.

 

A chi è imputabile la diffusione di questi stereotipi?

In realtà gli stereotipi si trovano a tutti i livelli. I nostri intervistati ci raccontavano che leggere "residente in via Anelli" sulla loro carta di identità, genera un trattamento particolare sia che si tratti della polizia, che del potenziale datore di lavoro, il quale può arrivare a non assumerti, mentre se sei fortunato può essere che ti chieda: "Ma sei di quelli buoni o di quelli cattivi?", e allora puoi solo sperare che creda che tu appartenga ai primi. Ma neppure i volontari, anche quelli più critici, erano al riparo da visioni stereotipate, così come non lo erano i medici né, paradossalmente, gli stessi residenti: tutti quanti rappresentavano la popolazione di Via Anelli - o si autorappresentavano - usando la divisione tra "buoni e cattivi", riproponendo dunque all’interno del ghetto lo stesso ragionamento utilizzato all’esterno. E questa cosa non ci tornava…

 

Residenti schiavi della loro stessa rappresentazione?

La loro rappresentazione è: "noi siamo i buoni venuti qui per lavorare", dove i buoni sono quelli col permesso di soggiorno e i cattivi quelli senza. Poi però, andando più a fondo, molti ammettevano che al primo ingresso in Italia neppure loro avevano il permesso di soggiorno…! A sua volta, l’intervistato senza permesso, ti indicava i buoni come quelli che avevano un lavoro - per quanto irregolare - e i cattivi invece con quelli legati al mondo della droga… E anche lì però i confini non erano così distinti, per cui in realtà quasi tutti ad un certo punto erano stati coinvolti nella dimensione dello spaccio in differenti misure, magari senza vendere ma tenendo la roba in casa propria…Insomma, ognuno, in una scala sempre inferiore, tende a rappresentare la distinzione fra buoni e cattivi.

 

E voi cosa avete scoperto tramite l’attività di decostruzione degli stereotipi?

Ascoltando i racconti della loro vita passata, delle loro origini e delle loro storie, abbiamo per esempio constatato che parecchi abitanti di via Anelli appartengono a famiglie di estrazione medio/medio alta, sono persone che hanno studiato, e vantano esperienze lavorative. Arrivano qua certo richiamate dalle prospettive di arricchimento, ma a volte anche per esperienza personale, per voglia di vedere il mondo. Inizialmente sono giovani uomini a muoversi, perché conoscono qui qualcuno che ha intrapreso lo stesso percorso migratorio e vi si appoggiano: proprio come farebbe chiunque altro insomma!

 

Cos’altro?

Per esempio abbiamo dovuto ricrederci sul fatto che via Anelli costituisse un luogo molto pericoloso: noi ci siamo andati senza intermediari, abbiamo trascorso un po’ di tempo lì…era evidente che eravamo degli estranei e dunque sperimentavamo la "prospettiva rovesciata" dell’essere sotto osservazione, perché gli abitanti non capivano che motivazione potessimo avere di stare lì… ma non è stato mai pericoloso dal punto di vista dell’incolumità fisica. Spaesante e problematico quanto si vuole per un problema di aspettative reciproche che non sempre venivano attese, la nostra percezione di "insicurezza ambientale" si è però dileguata quasi subito. Bastava uno sguardo al cortile: oltre al gruppetto di spacciatori e ai tossici, lì si raduna un intero mondo: bambini che corrono e le madri che chiacchierano fra loro, commercianti illegali che trattano coi clienti il prezzo di ogni tipo di merce e uomini di ritorno dalla spesa appena fatta, che si affrettano alle case sotto il peso di enormi buste di plastica. Via Anelli, al di là di tutto, è senz’altro un autentico luogo di raduno e socializzazione.

 

La cosa che vi ha stupito più di tutto?

Che erano gli stessi abitanti di via Anelli a chiedere sicurezza, e questo è rivelatore di quanto oggi il concetto di sicurezza funga da vettore di comunicazione fra cittadini e istituzioni, cittadini e giornalisti, cittadini e cittadini…Quando chiedevi loro: "Qual è il vostro problema?", la risposta era: "La sicurezza". Una risposta del genere data da persone spesso e volentieri senza lavoro né permesso di soggiorno, che vivono con gli scarafaggi in casa e con un posto letto a turno, sarebbe ironica se la situazione non fosse disperante! Loro hanno capito perfettamente che se denunciano gli scarafaggi nessuno li ascolta, mentre se dicono che hanno problemi di sicurezza, trovano un audience comunque più attenta alla loro situazione e alla loro rivendicazione.

 

La sicurezza come unico modo per catalizzare l’attenzione dei politici?

Dei politici, dei giornalisti, addirittura dei medici, e dei volontari delle varie associazioni! Oltretutto, quando domandavamo agli stessi residenti del ghetto se qualcuno era mai venuto a rubare a casa loro, o se avessero mai subito pestaggi, la risposta era sempre "no". Pure, invece di lamentarsi per la mancanza di una vera casa o per il fatto di non avere un posto dove lasciare i bambini, continuavano a puntare sul discorso sicurezza: "I nostri bambini hanno problemi di sicurezza", dicevano ad esempio, sperando così di venir spostati per primi (com’è anche avvenuto), o di avere un accesso veloce ad alcuni servizi.

Solo rivendicando sicurezza hai la possibilità di venire ascoltato e i media abbracciano totalmente questa prospettiva.

 

Dal punto di vista del controllo, via Anelli costituisce davvero un’emergenza? Una situazione drammatica che ricorda quella di una catastrofe naturale, come la si è sempre voluta rappresentare?

Nessuna emergenza è mai completamente dovuta a una catastrofe naturale, anche nelle peggiori carestie e terremoti esistono sempre responsabilità a lungo e breve termine.

Dunque anche il "cancro di via Anelli" nasconde tutta una serie di responsabilità riconducibili a diversi attori, e ha fatto comodo a molti che per un così lungo periodo la situazione degenerasse: ora stanno sgombrando le palazzine e riqualificheranno, certo è che in questi anni ci hanno guadagnato i proprietari degli immobili che affittano a prezzi esorbitanti, gli amministratori che rifiutano qualsiasi tipo di intervento trincerandosi dietro le condizioni degradate in cui versano gli immobili, e le forze dell’ordine che, mese scorso a parte, hanno sempre impegnato un numero relativamente esiguo di uomini e mezzi per controllare la zona. Di sicuro ha fatto comodo anche agli immigrati che arrivavano senza permesso di soggiorno, soldi, né un tetto dove stare. Per quanto riguarda l’amministrazione – specie quella di sinistra - ci è sembrata in questi anni riproporre una vecchia dicotomia, divisa com’era fra il processo di riqualificazione indirizzato agli immigrati "buoni", e il problema di ridurne al massimo il numero dal momento in cui bisognava farsi accoglienti e ospitali, rimandando dunque a casa quelli "cattivi"…