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Recensione. "Il nome del barbone", di Federico Bonadonna di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti
10 novembre 2007
«La gente dà l’etichetta perché siccome è troppo pigra per pensare, se dà l’etichetta agli oggetti e alle persone risparmia di osservarli nel profondo". Chiamalo "disadattato", oppure "momentaneamente povero", oppure "uno che semplicemente per le vicende della sua vita si è trovato per strada". No, viene etichettato: "barbone, sono tutti uguali"». A parlare è Marco, senza dimora e personaggio principale de "Il nome del barbone" (edizioni DeriveApprodi, 2005), che si lascerà accompagnare dall’autore del libro, Federico Bonadonna, lungo l’ultimo tratto della sua vita. E questo sfogo sintetizza l’invito che fa un po’ da filo rosso all’intero scritto (un viaggio fra vite di strada e povertà estreme di Roma): per avere successo, qualsiasi progetto sociale di reinserimento deve liberarsi da ogni semplicismo nell’analisi dei processi di marginalizzazione sociale, e riconoscere appieno la natura multidimensionale dell’esclusione e del disagio.
Sullo sfondo degli ultimi anni di vita e della morte di Marco, nel libro prendono forma i profili di numerosi senza fissa dimora che popolano la capitale. In un mix senz’altro azzeccato, l’autore alterna capitoli dedicati alla ricerca e all’analisi antropologica con le voci degli intervistati, dei quali non altera il linguaggio romanaccio. Si delinea così, pagina dopo pagina, un mondo che certo comprende anche quanti sono affetti dalla sindrome da accumulazione di cartoni, stracci e buste di plastica colme di rifiuti (alias "barboni"), ma che include altresì un universo estremamente variegato di persone che non sono riuscite ad integrarsi nel modello di sviluppo vigente e del quale i barboni costituiscono solo un’esigua minoranza.
C’è Evio il comunicatore, capace di calamitare attorno a sé per un giorno televisioni e giornali di mezzo mondo, dopo aver chiamato l’Ansa per annunciare la presentazione dell’"Università dei barboni" da lui stesso ideata… Evio che spiega la differenza fra essere un "emarginato", ritrovandosi a vivere da barbone senza accettarlo e dunque senza essere mai felice, e fare invece il "barbone per scelta", proprio come lui…
Ma questa non è certo la norma! E allora nei giardini vicino al Colosseo c’è Maddalena, 55 anni e uno sfratto esecutivo alle spalle, che sotto sei ombrelli ha costruito la camera da letto che condivide con il suo compagno polacco; se lei accumula buste di plastica colme di significati agli altri invisibili e dove – spiega - c’è tutto il suo mondo, la realtà, per la predicatrice Melina, sta da tutt’altra parte, e cioè in quelle energie positive e negative sprigionate dalle forze del male e del bene che sempre si contrappongono, in una battaglia che lei ha scelto di combattere parlando solo in rima baciata o alternata…
E ancora diverso è il passato di Luisa, "la donna sulla sedia a rotelle" che vende i suoi ricami ai mercati: sfrattata dopo essere finita sotto un treno e aver avuto una gamba amputata. Altra storia quella di Chicca, "la Regina della Tiburtina", una nana di settant’anni sfuggita dall’amante alcolizzato e violento: ora vive fra topi, ratti e l’immondizia che accumula, senza mai separarsi dalle sue buste di plastica nelle quali c’è anche il corredo matrimoniale della madre.
E che dire di Fabrizio e la sua "rabbia politica", mentre si commuove ripercorrendo la sua vita e la storia "der piccì", che ha tradito lui e gli altri compagni quando nel ’77, con lo 0,3 % in più dei voti della DC, si dimostrò incapace di "fare la rivoluzione". Fabrizio dice che ha iniziato a farsi proprio in seguito a questa enorme delusione; dopo le pere, l’Aids e il riconoscimento del 47% dell’invalidità. Fabrizio che legge i quotidiani, segue i tg quando può, e si tiene informato…
Cos’ hanno in comune Fabrizio, Chicca, Luisa, Melina, Evio e i molti altri protagonisti del libro? Probabilmente l’essere erroneamente collocati in un’unica categoria, secondo un falso nesso che associa povertà, pazzia e quindi devianza. Sicuramente, tutti loro si riconoscono nell’assenza di un luogo autonomamente gestibile dove poter abitare, luogo che è un elemento primario di identità. Il non-abitare un tale spazio culturalmente inteso è una violazione fondante, la quale genera una fondamentale forma di devianza, "perché non si ha quello spazio privato…che ripara le persone – dal freddo come dagli sguardi dei passanti – quando ne sentono il bisogno o il desiderio". L’altra forma di devianza risiede nell’impossibilità di mantenere un lavoro in assenza di una casa. Nelle parole di Marco: "Non puoi lavorare non avendo casa! Ma questo la gente non lo capisce. Ti dicono: vai a lavorare e poi ti compri casa! Ma come faccio a lavorare se non ho casa?".
C’è un altro concetto cardine che permea il libro di Bonadonna che così lo esprime: "È evidente che la mentalità soggiacente l’accoglienza, considera chiunque si trovi in stato di miseria estrema nella condizione di dover accettare qualsiasi cosa. È un nostro pregiudizio . Nel senso letterale del termine. È un pensiero non supportato da alcuna dimostrazione". E l’autore di certo sfata una tal credenza con questa sua ricerca, che si concentra sui senza dimora che rifiutano l’assistenza notturna, e spesso anche diurna, dei vari servizi sociali. Tali servizi (tipo i dormitori), secondo gli intervistati si traducono in soluzioni ghettizzanti, sostenute da un’idea di egualitarismo nei diritti che sconfina nell’omologazione: rivolgersi ed essi dunque significa accettare una spersonalizzazione, l’auto-degenerazione della propria già precaria identità; piuttosto allora la notte in strada, al freddo, con la costante paura di essere aggrediti e l’impossibilità di riposare in maniera continuativa per un numero di ore sufficiente: da qui le allucinazioni e una percezione sempre più distorta della realtà.
A quanti gli hanno chiesto se non fossero stati gli stessi senza dimora a scegliere di vivere per strada, Bonadonna ha sempre risposto che difficilmente una persona può scegliere di vivere all’inferno, e nel libro rimarca che "diritti per tutti non significa che siamo tutti uguali": in altre parole, la scelta della strada ai servizi spersonalizzanti della bassa soglia è più una scelta forzata che reale. L’autore dà voce anche a chi propone soluzioni alternative, come Enrico, che afferma: «La cosa più importante è il diritto alla vita, che non vuol dire far vivere per forza la gente come vuole qualcuno», e punta il dito sulla necessità di politiche edilizie di tipo diverso; un’opinione questa condivisa da molti e che tradotta significa (per quanti non sono barboni per scelta): "stop a dormitori e ostelli immensi, sì a una casa con il minimo indispensabile per vivere degnamente", un tetto sulla testa anche da poter condividere con altri due, tre, cinque compagni, ma che si possa chiamare casa e che sia il punto di partenza per rendersi autosufficienti e integrarsi nella società.
Il messaggio forte di questo libro è l’invito a non privare le persone senza fissa dimora della responsabilità che deriva dalle loro scelte, e che è il cardine dell’identità di ogni uomo e della convivenza coi suoi simili. Si tratta certo di soggetti che si pongono al di fuori del modello di sviluppo economico dominante, poiché violano il tabù della produzione (e del lavoro) che ne costituisce il principio portante; pure rimangono individui e non vittime (o peggio "rifiuti") della società. Marco è un chiaro esempio di persona che sceglie: aids conclamato, il fegato che non gli funziona più e si gonfia a dismisura perché trasforma le sostanze in siero, ulcerazione neurotrofica plantare destra più ulcera trofica in sede plantare sinistra, un piede in cancrena con un buco profondo e puzzolente, che non avrebbe dovuto nemmeno poggiare a terra per sperare non di guarire ma solo di star meglio…Bene: Marco aveva trovato una donna con un bell’appartamento nel centro di Roma, ma questa tal Mariella pretendeva che facesse l’amore a comando, per cui lui dopo pochi giorni se ne va da lì per sempre ripetendo: "non sono un prostituto", e sceglie piuttosto la vita in strada, l’elemosina, il freddo, la morte, che arriva sicura e terribile.
Un sentimento di correttezza umana e professionale permea l’intero libro, con Bonadonna convinto che per rispettare i senza fissa dimora debba rispettare innanzitutto sé stesso, senza dunque mai fingere di essere diverso dalla persona che è, senza nascondere il proprio vissuto e il proprio modo di guardare alle cose.
L’autore rispetta quindi i conati di vomito che lo assalgono a casa della donna di Marco di fronte allo sporco, al fetore e al cibo in decomposizione che invadono la cucina. Così, durante la sua ricerca, Bonadonna rispetta le norme igieniche che gli impediscono di bere dalla stessa bottiglia dei punkabestia che bivaccano sotto il Tevere, anche se questo vorrà dire non essere accettato da loro e non poterli né riprendere né intervistare. Ancora, non nasconderà la sua paura dell’Aids e delle infezioni, quando rifiuterà l’abbraccio di Marco che, in fin di vita e devastato da ogni tipo di bruttura, è talmente felice di rivederlo da buttarglisi al collo con le mani piagate. E accetterà anche il senso di disgusto provato alla vista di Paolo, il mitico "barbone della Vespa 50", che a ora di cena impala gatti "allo spiedo" nelle grotte del Flaminio, dopo averli cacciati e accuratamente scuoiati.
Di rispetto parla anche la scelta di usare per chi intervista – con l’eccezione di Marco che ha espressamente voluto altrimenti – uno pseudonimo, e tutelare così "una privacy violata di continuo, in un mondo sotto gli occhi di tutti, ma che sappiamo guardare solo distrattamente". |