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Dopo indulto. Sicurezza e criminalità: una questione molto più complessa… Mosconi: «Il vero allarme sociale si scatenerebbe se qualcuno intaccasse il "credo dell’emergenza sicurezza": allora sì ci sarebbe insicurezza vera». di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti
4 dicembre 2006
Nel clima di allarme sociale in cui stiamo vivendo, c’è chi afferma l’esistenza di un’evidente sfasatura fra l’immaginario dei pericoli che si corrono e la percezione del rischi concreti della vita quotidiana. Dell’estrema complessità di cui deve tener conto chi si appresti a stimare indicatori come quelli dell’insicurezza e della criminalità, ne parliamo con Giuseppe Mosconi, ordinario di sociologia del diritto alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, e docente di condizione carceraria e prevenzione della devianza. Mosconi è anche direttore del Master di primo livello di Criminologia critica, prevenzione e sicurezza sociale, presso il Dipartimento di Sociologia (Facoltà di Scienza Politiche dell’ Università patavina). Fra i suoi numerosi scritti, "Criminalità sicurezza e opinione pubblica in Veneto" (Cleup, Padova, 2000), e "Capitale sociale, sicurezza e paure della criminalità a Padova" (articolo in "Dei Delitti e delle Pene", 2001, del quale è coautore assieme a Dario Padovan e Alvise Sbraccia).
Come si manifesta il sentimento dell’insicurezza in questa più recente fase del nostro paese? Il ritenere che si viva in una situazione di insicurezza è diventato oggi una sorta di credo politico, una rappresentazione della realtà entro un arco di valori assolutamente irrinunciabili, che ti porta a schierarti politicamente indipendentemente da quanto tu sia realmente sicuro o insicuro. Un credo politico a dimensione trasversale, bipartisan ma non solo, che è così diventato un luogo comune, uno stereotipo, un modello culturale diffuso rispetto al quale assumere posizioni di contrasto significa essere tacciati di buonismo, superficialità, di avere un partito preso…di tutta una serie di stereotipizzazioni negative quindi anche sul piano politico, culturale e sociale. Assistiamo così a un salto di livello sul piano culturale – nel senso di cultura diffusa - che ritengo particolarmente preoccupante nella dimensione della dialettica democratica possibile.
Lei e il suo team vi siete occupati a più riprese di insicurezza e criminalità, costituendo l’unico gruppo di studiosi di riferimento su questi temi in Veneto. Fra l’altro, lei ha condotto annualmente ricerche sulle medesime questioni nell’ambito del progetto "Città Sicure" della Regione Emilia Romagna dal 1995 al 1999. Perché si usa così spesso il termine "società del rischio", per riferirsi alla fase storica in cui ci troviamo? Con questo termine si fa riferimento al fatto che la nostra società ha toccato il culmine del suo possibile sviluppo e sta ora producendo tutta una serie di fattori di autodistruzione dello sviluppo raggiunto, per cui il massimo del benessere è oggi esposto a un rischio totale di regressione, alterazione e financo perdita, dovuto a una serie di fattori.
Quali? I grandi fattori di crisi delle società sviluppate sono sostanzialmente tre: la devastazione dell’ambiente, le guerre con una logica di esplosione sempre più incontrollabile associate ora al terrorismo internazionale, e infine la povertà con i flussi migratori che produce.
Che tipo di conflittualità ingenerano questi fattori nella società? Una conflittualità orientata a re-distribuire i rischi secondo categorie sociali ben definite. Il conflitto sociale in una situazione di sviluppo trainante aveva come motore la redistribuzione degli effetti dello stesso; nella situazione attuale invece ha anche la componente della redistribuzione delle negatività. Paradossalmente quindi il conflitto viene agito di più e preventivamente dalle aree forti e privilegiate a scapito di quelle deboli, proprio in vista di una diversa distribuzione dei rischi.
E l’immigrazione come entra in tutto questo? La lotta contro l’immigrazione, il filtraggio dell’immigrazione e tutto ciò che comporta l’idea della sicurezza rispetto a questo aspetto, si delinea come una forma di attestazione di alcune aree sociali privilegiate che intendono autoproclamarsi come sicure a scapito di tutta una serie di soggetti deboli, a loro volta sempre meno sicuri perché sempre più esposti a elementi di attribuzione di status di debolezza, e dunque a fattori di esposizione a una crescente assunzione di rischi.
Un gioco a somma zero? In un certo senso. La rassicurazione di certe aree della popolazione si traduce in una progressiva insicurizzazione di certe altre, non solo di quelle che non hanno più protezioni sociali, ma anche di quelle che subiscono più direttamente i limiti dello sviluppo e che sono fatte più o meno bersaglio delle politiche di sicurezza.
Da dove deriva questo enorme bisogno di rassicurazione? Esistono diversi ordini di fattori alla base degli elementi dell’insicurezza di oggi. Il primo riguarda l’equilibrio globale sul piano politico ed economico, ed è dovuto all’alterarsi delle condizioni dello sviluppo a partire dalla fine di alcuni equilibri politici: la caduta del muro di Berlino, per noi italiani tangentopoli, l’esplosione di conflitti ingovernabili…fattori che ci hanno resi tutti molto più precari e improbabili negli orientamenti e nelle scelte.
Il secondo ordine? Riguarda il venir meno della protezione dello stato sociale, che ha visto un deciso peggioramento nelle condizioni di vita, dovuto alla diminuzione di risorse e servizi conseguita alla restrizione della spesa pubblica e alla contrazione di quella totale. Le persone sono lasciate a loro stesse in una situazione di aumento di costi e grande incertezza sul futuro proprio e dei figli, mentre cresce la difficoltà di avere rapporti equilibrati con le persone considerate importanti. I riferimenti pubblico-istituzionali si diradano in una crescente partitizzazione da una parte e una minor permeabilità alla partecipazione dal basso dall’altra, anche perché a livello decentrato le istituzioni gestite dai partiti hanno sempre meno risorse per rispondere alle esigenze del territorio. Il terzo ordine di fattori di insicurizzazione riguarda i livelli di aspettative che questa società definisce e sviluppa verso i singoli, cui si chiedono standard di prestazioni e di consumo sempre più elevati.
Uno stress continuo insomma.. Con il soggetto sottoposto a infiniti test per confermare la sua adeguatezza sociale nei ritmi della quotidianità, nei livelli di reddito che poi determinano il potere d’acquisto, sul piano della sua forma fisica (fitness) e del mantenersi apprezzabile agli occhi della comunità in termini di successo economico, professionale, formativo, status symbol..
E il fattore immigrazione in tutto ciò? Diventa la rappresentazione più fisica e plateale dell’imprevedibilità dei mutamenti cui siamo soggetti: il fatto di veder cambiare il mio intorno sociale diventa la prova che il mondo sta cambiando, che si può temere l’invasione, il metissage…
Come si colloca la criminalità in tutto ciò? Quanto detto sopra porta facilmente all’individuazione di capri espiatori e quindi la cosa più semplice diventa prendersela col criminale e con l’immigrato. Questa dell’immigrato è la figura più fisica che da un lato rappresenta l’insicurezza, e dall’altro si presta con più facilità alla teatralizzazione dell’efficienza di uno stato che invece efficiente non è.
In altre parole, uno stato che mostra i muscoli con i più deboli? Sì, e in questo modo non risponde alle questioni di fondo. Il circolo vizioso che entra in atto allora è: più risposte non date alle questioni di fondo, maggiore l’insicurezza, maggiori le dimostrazioni di efficienza verso il falso pericolo o comunque il pericolo teatralizzato dell’immigrazione e della criminalità, maggiore l’enfatizzazione di questo stesso pericolo che richiede un sempre più massiccio intervento rassicurante su quel determinato terreno. È un meccanismo che si ingigantisce sempre più su se stesso, in maniera assolutamente autoreferenziale.
Qual è il ruolo giocato dai media? Fondamentale, basti dire che senza i media questa rappresentazione non esisterebbe. Con riferimento all’enfatizzazione del "pericolo criminalità" da parte di tutte le agenzie di comunicazione, (indipendentemente dall’appartenenza), parlerei di "effetto immersione", nel senso che il soggetto esposto ai messaggi mediatici viene immerso in una dimensione in cui il pericolo, per il fatto di venire ribadito così spesso, diventa normalità quotidiana. Il paradosso allora è che per via di questa normalizzazione, il pericolo non ha più neppure un effetto allarmante, e il singolo si sente rassicurato dal fatto che continuino a dirgli che è insicuro. In questo senso, il vero allarme sociale si scatenerebbe se qualcuno intaccasse il "credo dell’emergenza sicurezza": e allora sì ci sarebbe l’insicurezza, quella vera!
Questa discrepanza fra il clima di allarme sociale diffuso dai media e i risultati delle vostre analisi, non pone seri dubbi sull’adeguatezza delle fonti da cui derivano gli indicatori di criminalità e insicurezza poi resi pubblici, e sui metodi di rilevazione dei dati? Ma certo! Le ricerche che pubblicizzano in tv o sui giornali le fanno chiedendo: "Hai paura di uscire di sera quando è buio?", o: "Sei preoccupato della criminalità?". Qui evidentemente il tono della domanda presume già l’ovvietà della risposta. Se invece che come una domanda generale aperta il quesito viene posto all’intervistato in forma strutturata, allora tutto cambia! Per esempio i nostri studi dimostrano come se si domanda: "C’è bisogno di pene più severe in Italia?", la risposta probabile è "sì"; ma, procedendo a verifiche più puntuali le risposte fornite sembrano andare in senso contrario: la maggioranza si dichiara ancora contraria all’introduzione della pena di morte, e i più si dicono d’accordo sul fatto che sia necessario comprendere i motivi per cui una persona viola la legge (e aiutarla a superare le sue difficoltà), piuttosto che puntare sull’inasprimento delle sanzioni comminate. Esiste cioè tutta una serie di ridimensionamenti di quel primo "sì" dato, di posizioni che emergono o si attenuano quando all’intervistato si pongono soluzioni non solo di tipo punitivo, ma anche di tipo assistenziale o riconciliativo, che quando evocate "vincono" su quella della severità della sanzione da comminarsi.
Un esempio specifico sulla criminalità? Abbiamo potuto riscontrare come i timori di essere vittima dei tipici atti criminali associati a un più elevato grado di allarme sociale (borseggio, furti in appartamento, scippo, aggressione), risultano sproporzionati rispetto alla frequenza con cui questo genere di reati avviene. Un’evidente conferma di ciò si ha mettendo a confronto le affermazioni verbali degli intervistati che denunciano stati di ansia e paura anche per la propria incolumità fisica, con i loro comportamenti quotidiani. Se guardiamo ad esempio al numero elevato di uscite serali, e al fatto che relativamente poche persone rinunciano per timore a camminare da sole nel posto in cui vivono, dobbiamo senz’altro propendere per un ridimensionamento dell’allarme sicurezza. Così se assumiamo la tendenza a denunciare i reati subiti come un test significativo della richiesta di punitività e come una naturale reazione allo stato di insicurezza percepito, allora di nuovo troviamo un’evidente assenza di correlazione fra criminalità dichiarata e numero di denunce esposte. |