Ristretti Orizzonti

 

Per sopravvivere al carcere il lavoro conta per il 50%:

l’altro 50% è nelle mani di chi si prende cura dei detenuti

di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti

 

20 settembre 2006

 

Francesco Formica è cuoco presso il seminario vescovile di Treviso da quando, più di vent’anni fa, gli fu concessa la semilibertà. Nel 2002 ha finito la sua pena mantenendo il lavoro, ma ha voluto fare qualcosa di più: aprire la casa dove vive in affitto a persone che hanno avuto esperienze di carcere.

 

Il lavoro è la vera ancora di salvezza per le persone con percorsi penali: è d’accordo con questa affermazione?

Lo sono nel senso che senza un’occupazione rimani chiuso. Per me il fatto di aver trovato un posto come cuoco ha significato semilibertà, che dopo pochi anni si è trasformata in libertà condizionata.

 

E quindi?

E quindi, con una condanna a ventidue anni di reclusione comminatami quando mio figlio aveva tre mesi di vita, la possibilità di uscire per lavorare mi ha dato il tempo biologico per ritessere la ragnatela della mia famiglia: ho ricostruito un rapporto con lui che era ancora un bambino, cosa che sarebbe stata impossibile se avessi iniziato dopo il fine pena con lui ventenne. E ho potuto stare più accanto a mia madre, che è venuta a mancare giusto un anno prima del fine pena.

 

Come sarebbe stata la sua vita se fosse rimasto chiuso sino al fine pena?

Insensata. Uno non si rifà una famiglia dal nulla dopo ventidue anni. E anche se io in carcere ho scoperto la fede e sostengo che questo mi abbia "salvato", credo però che anche la fede sarebbe crollata se non avessi trovato mio figlio ad aspettarmi una volta fuori.

 

Per questo ha messo a disposizione una camera della sua abitazione per chi esce?

Sì, perché so che l’uomo ha bisogno di un lavoro, ma anche di un casa. Vedo queste persone che escono e che non hanno più nulla, letteralmente aggrapparsi agli specchi. Il lavoro secondo me conta al 50%: mi ricordo le discriminazioni che ho subito anch’io all’inizio da parte dei colleghi, che facevano il toto scommessa sul crimine che potevo aver compiuto: terrorista nero? rosso? ha ucciso la moglie? E io che non avevo neppure il coraggio di guardarli in faccia. L’ambiente di lavoro può essere durissimo specie appena usciti, dipende dal datore che trovi, dai compagni…Ecco perché dico che l’altro 50% affinché uno ce la faccia, dipende dal poter tornare a "casa" la sera, cioè da qualcuno che – se non ce l’hai – si sostituisca alla famiglia e abbia cura di te.

 

Quante persone ha ospitato sinora?

Dal 2002 ne ho accolti sei.

 

A suo parere cosa vedono in lei?

In una parola? Compartecipazione. Sanno che capisco cosa stanno attraversando. Io ripeto sempre che "quando si fa del bene bisogna farlo bene". In me queste persone trovano un abbraccio di compassione nel senso letterale del termine, di sentire insieme. Trovano qualcuno che dice loro: "Per te è finita una parte di vita e ora ne inizia un’altra: ti do una mano". Un qualcuno che poi lo fa però: e si sbatte per trovare loro un lavoro, un posto dove vivere, mentre intanto li ospita a casa sua.

 

Suo figlio, che abita con lei, come vive questa sua scelta?

Mio figlio è orgoglioso di me.