Ristretti Orizzonti

 

Il progetto dell’Unità di Trattamento Intensificato per autori

di reati sessuali a Bollate: storia di un esperimento riuscito

di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti

 

23 maggio 2008

 

La direzione della Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate mette a disposizione una sezione apposita dell’istituto (ex sezione di isolamento giudiziario), per la realizzazione di quello che è il primo progetto di trattamento penitenziario italiano per autori di reati sessuali. Attivo dal 2005 grazie ad un finanziamento di Regione Lombardia e Provincia di Milano, il progetto nasce da un’associazione di professionisti del privato sociale: il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione. Molte le domande di ammissione al trattamento, anche perché i protetti delle altre carceri lombarde guardano con interesse al regime di custodia attenuata e alle garanzie di dignità e sicurezza offerte da Bollate. Le domande ricevute vengono attentamente vagliate sulla base della motivazione dell’individuo, dell’effettiva trattabilità dello stesso, del rischio di recidiva e della presenza di psicopatologie gravi e tossicodipendenza, che costituisce motivo di esclusione. Richiesta la conoscenza della lingua italiana, l’integrità psicofisica, la buona condotta e un fine pena fra i quattro e i dieci anni. Si procede poi alla selezione dei partecipanti di questa straordinaria sperimentazione arrivata ormai al 3° ciclo, ognuno dei quali prevede un percorso di un anno e poco più e moduli cui partecipano una ventina di persone. Paolo Giulini, criminologo clinico e docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è il responsabile dell’Unità di Trattamento Intensificato per autori di reati sessuali, presso la Casa di Reclusione di Milano-Bollate.

 

In cosa consiste il vostro intervento clinico?

Dopo una prima fase pretrattamentale volta a intervenire sulla minimizzazione del reato e a vagliare le motivazioni che hanno portato il detenuto ad aderire al progetto, l’equipe pluridisciplinare che gestisce il percorso valuta l’idoneità del soggetto cui, in caso di giudizio positivo, si chiede di firmare un "Patto Trattamentale Individuale"; in esso vengono definiti ruoli e competenze delle due parti in gioco: da una parte le modalità di impegno e adesione dell’utente, dall’altra contesto, strumenti e operatori con cui andrà a operare l’Unità di Trattamento. Segue il programma vero e proprio, sulla base di modalità, obiettivi e scopi ben definiti: la prevenzione della recidiva riveste una posizione centrale.

 

Il Patto Trattamentale serve a responsabilizzare l’utente?

Certo! Come, sempre ad un’ottica di responsabilizzazione, risponde anche la struttura in cui operiamo: pur essendo parte del complesso della casa di reclusione, si tratta infatti di un edificio autonomo e separato dal resto del carcere. L’elevato grado di autonomia di movimento e di gestione, assieme al rispetto della dignità del singolo e alla sua sicurezza, ne costituiscono i tratti caratterizzanti. Da una parte questo valorizza i processi di autonomizzazione dei detenuti, dall’altra attenua le tendenze difensive degli stessi e permette agli operatori di studiarne le dinamiche relazionali e comportamentali in un contesto comunitario.

 

Quanto contano per voi i luoghi, oltre che le persone, nella cura?

Tantissimo. Un termine per noi fondamentale è quello di "costruzione del campo trattamentale", che si riferisce al luogo che ho appena descritto e agli interventi intensificati di tipo multidisciplinare che adottiamo. Aggiungo solo che le celle sono tutte singole, la qualità del vitto è molto alta, e la presenza degli agenti discreta oltre che selezionata, perché si tratta di persone che hanno aderito a un processo di formazione e sono lì volontariamente. È la riproduzione di una comunità terapeutica, concetto che mutuiamo dai colleghi canadesi che da anni sviluppano questo tipo di trattamento con i detenuti autori di reati sessuali.

 

 

 

La terapia è aperta anche ai condannati che negano il reato attribuito loro?

Inizialmente in fase di selezione chiedevamo fra i requisiti il riconoscimento minimo dei fatti commessi. Poi la Magistratura di Sorveglianza ha spinto affinché includessimo anche i negatori, essendo la non ammissione del fatto una delle principali problematiche che interessano questa categoria di rei. Abbiamo quindi ideato una fase preliminare di tre mesi a loro rivolta, dove procediamo a una valutazione psicodiagnostica e clinica del detenuto, mentre lui firma un contratto dove si dichiara consenziente a sottoporsi a questo periodo di valutazione. Sottoscrive così l’obbligo di partecipare a uno specifico gruppo sulla negazione, a fianco del normale programma di gruppi settimanali.

 

Come si compone l’equipe?

Per il gruppo sulla negazione, si tratta di due operatori, uno psicologo e un criminologo, che si avvalgono di un peer support, che può essere o un detenuto che ha partecipato al precedente programma trattamentale con pregressi problemi di negazione, o un detenuto uscito da una negazione decennale in occasione della sua richiesta di essere trasferito per poter partecipare al programma trattamentale.

 

Un giudizio, ad oggi, della sperimentazione?

I numeri parlano di una trentina di detenuti ex protetti che vivono oggi fra i comuni all’interno di Bollate. Per quanto riguarda i negatori, è da notare che nel secondo ciclo di trattamento cominciato nel febbraio 2007, fra i 24 detenuti provenienti dalle "sezioni protette" delle carceri lombarde, 9 erano negatori totali. Bene: a fine trattamento 7 di loro hanno ammesso pienamente di essere autori dei fatti sessuali per i quali sono stati condannati. Credo sia indicativo che in 15 anni di lavoro nelle sezioni protette, mi sia successo complessivamente solo 3 o 4 volte di vedere un negatore modificare così drammaticamente la sua versione dei fatti. E questo dice molto sull’importanza della costruzione del campo trattamentale.

 

Esiste un servizio esterno, sul territorio, una volta che si è fuori?

L’UEPE di Milano-Lodi ha firmato una convenzione con un Servizio del Comune di Milano e il Centro di Mediazione Sociale e Penale, in seguito alla quale al Centro si prosegue la terapia di gruppo e quella individuale: l’attività è rivolta sia a chi ne fa richiesta volontaria per esempio dopo il fine pena, ma anche a chi si trova in misura alternativa. Posto che dei 19 detenuti selezionati per il primo ciclo del programma nel 2005, 8 sono stati scarcerati prima del re-inserimento fra i comuni, (causa sopraggiunto indulto o fine pena, o perché avevano avuto accesso alle misure alternative), mi sembra un dato significativo che 7 di loro si siano rivolti al Servizio sul territorio di loro sponte per continuare il trattamento. Con il servizio esterno, arrivano a quasi un centinaio i soggetti interessati dal progetto.

 

Come definirebbe le sezioni protetti?

Può andare beve la parola "marasma", in quanto mettono assieme pedofili, altre categorie di autori di reati sessuali, travestiti, i cosiddetti "infami", gli ex poliziotti…e questo "proteggendoli" dai detenuti comuni, ma senza curarsi di proteggerli gli uni dagli altri. Per fornire qualche esempio sulla qualità della vita, in alcune carceri i protetti devono stare attenti a cosa mettono in bocca quando i pasti sono cucinati dai comuni...Ancora, vi sono stati casi in cui, specie in passato, l’assegnazione a queste sezioni è stata usata come punizione per quegli agenti che avevano tenuto comportamenti scorretti nelle sezioni dei comuni.. Si tratta di sezioni che rispondono, per stereotipi e ignoranza, alla subcultura carceraria, sono spesso e volentieri deprivate delle risorse e delle attività trattamentali minime, e costituiscono luoghi dove può capitare che gli stessi operatori non abbiano molta voglia di andare…

Il marchio "protetto" è invalidante a vita, "pedofilo" lo è ancora di più, dunque in una situazione come quella che ho descritto sopra è normale che il meccanismo della negazione agisca con tanta forza. Ed è altrettanto logico che per un criminologo clinico divenga proibitivo lavorare sia a livello individuale che collettivo. Ne derivano ovvie conseguenze in termini di recidiva.