Intervista a Giulio Salierno

 

Il carcere, capro espiatorio di una società che ha paura

intervista a Giulio Salierno (docente di sociologia all’Università di Teramo)

 

Liberazione, 31 gennaio 2005

 

Arrestato poi in Algeria, si schiera "istintivamente" con gli arabi torturati, perseguitati" e convive con i condannati a morte. Abiura il fascismo. Estradato successivamente in Italia, inizia quella che lui chiama una sua lenta, "tormentata conquista di una nuova coscienza sociale e politica".

Liberato nel 1968 e riabilitato, si batte con forza contro ogni forma di esclusione ed emarginazione: protagonista accanto a Franco Basaglia della stagione di lotta contro le istituzioni totali e manicomiali, accanto a Umberto Terracini, promuove la riforma del sistema carcerario. Il suo ultimo lavoro è la piecè-documento dal titolo "La gabbia. Il carcere come metafora della violenza quotidiana" (edito da Sapere 2000) messa in scena nei giorni scorsi nel carcere romano di Rebibbia.

 

Pensi che il disagio sociale sia diventato un pretesto per leggi che puntano al controllo della democrazia?

Naturale. La criminalità è un microcosmo che esalta e rende particolarmente evidenti i fenomeni che scuotono il sistema sociale più vasto. È un laboratorio che permette di analizzare le esigenze più recondite della struttura produttiva, le norme e i valori culturali imperanti, l’ideologia di una classe o di un ceto dominante, gli stessi principi guida di un Paese. Infatti, in Italia, come in Francia, negli Usa o in Germania, le crisi e gli scontri istituzionali e politici si manifestano con più evidenza sulla questione criminale e, più in generale, nella gestione del sistema giudiziario.

 

Sistema giustizia e carcere: un binomio inscindibile?

Di questo sistema, è parte integrante l’universo carcerario. Un’istituzione attorno a cui lievitano - da sempre -alcune nostre (ma non solo nostre), idee tradizionali e velleitarie: umanitarismo astratto, riformismo parolaio, massimalismo rivoluzionario e occhiuta repressione. Oggi la situazione è radicalmente cambiata. L’elettronica sta producendo una nuova era della politica penale: la reclusione si avvia al tramonto. I corti circuiti sociali determinati dalle nuove tecnologie vengono sempre più gestiti attraverso complessi, non predeterminati apparati di controllo: analisi psichiatrica, medicalizzazione, spettacolarizzazione. Le prigioni restano deputate a gestire, soprattutto la devianza degli strati giovanili non-garantiti e poi l’anomia degli immigrati dal terzo e quarto mondo.

 

In "Fuori margine", il tuo libro pubblicato da Einaudi nel 2001, sostieni che in Italia, al di là di tutte le chiacchiere che si fanno sull’argomento, sarebbe impossibile mettere in carcere tutti i ladri, scippatori, truffatori e rapinatori. Perché?

Da noi sarebbe economicamente e tecnicamente impossibile arrestare tutti gli autori di reati. Si calcola, infatti, che le persone dedite alla microcriminalità siano un esercito: oltre trecentocinquantamila e compiono circa diciotto crimini annui a testa. Per tenerle dentro, dovremmo arruolare almeno centomila agenti di custodia e costruire alcune migliaia di prigioni (per edificare un penitenziario ci vogliono 14 anni e il costo di mantenimento di un recluso è di circa 115 euro al giorno, 230 mila vecchie lire).

 

Un’impresa impossibile?

Certamente. Se fossi nominato oggi stesso ministro della giustizia potrei fare poco o nulla per riformare l’universo carcerario.

 

Avevi già avanzato queste tesi, più di trent’anni fa, nel "Carcere in Italia". Oggi come ieri, dunque Si parla di riformare i penitenziari o di edificare nuove prigioni solo in occasione di rivolte o proteste in questo o quel carcere. Sono circa 57 mila i detenuti. Ma pochissimi posti letto reali, circa la metà. Il che significa che andrebbero "sistemati" almeno 30.000 reclusi. Come?

In un carcere, secondo tutta la dottrina di merito, non dovrebbero esserci più di 250-300 detenuti. Pertanto, per 30 mila ristretti, servirebbero almeno 100 prigioni. Edificare una prigione moderna costa molto: circa 100 miliardi di vecchie lire. Dunque, per costruirne 100, ci vorrebbero non meno di 10.000 miliardi (sempre di vecchie lire). Poi, per sorvegliare i carcerati, dovremmo arruolare 10-15 mila agenti di custodia. Inoltre, medici, psicologi, assistenti sociali, eccetera. Insomma un costo annuo da capogiro: oltre 1.500 miliardi (sempre di vecchie lire).

 

E il costo dei detenuti?

Oltre 220 mila lire al giorno a testa. Inutile perdere tempo a fare i conti. Siamo, comunque, oltre i 3.000 miliardi all’anno. Infine, almeno 500 miliardi di lire per suppellettili, mobili, traduzioni, interventi medici, eccetera, eccetera.

 

Totale generale?

Oltre 15 mila miliardi di vecchie lire all’anno. All’incirca, quanto è previsto in una finanziaria annua dello Stato per tutta l’Italia. Perciò è impossibile riformare realmente le prigioni. E non a caso, dall’unificazione del Paese non c’è mai, dico mai stata una seria, reale ristrutturazione del patrimonio edilizio carcerario. Abbiamo messo una pezza qui, una là. Oggi al posto dei buglioli mettiamo un cesso, domani un lavabo, e così via. Del resto, anche se le carceri fossero edificate ex novo, non servirebbe a nulla.

 

Cioè?

Possiamo anche fare dei Grand Hotel, dopo un po’ diventerebbero ugualmente un inferno. Non bastano prigioni nuove, serve molto altro, serve modificare la durata dei processi (mediamente, 8 anni, un eternità), abolire le leggi restrittive sugli stupefacenti (le carceri sono zeppe di tossicodipendenti), regolamentare la legge sull’immigrazione ( oltre il 30% dei reclusi sono stranieri), introdurre l’oralità nei dibattimenti penali, dare ai detenuti la possibilità di lavorare, ristrutturare intere periferie urbane, incidere sulla disoccupazione. E fino ad oggi nessun Paese è riuscito a fare tutto questo.

 

Ma serve davvero il carcere?

Il carcere patisce un equivoco di fondo: lo sviluppo, attorno a esso, di una complessa ideologia del recupero, della rieducazione e del trattamento, secondo la quale, la prigione dovrebbe redimere, risocializzare, trasformare in "positivo" la personalità del recluso e non punire. Quest’ottica, giudicata mistificante, è entrata in crisi, a partire dagli anni Sessanta, prima in America e poi, via via, anche da noi, in Italia, sulla scorta di giudizi taglienti, quale quello di Michel Foucault, secondo il quale il penitenziario nasce già afflitto da una malattia mortale e la sua è la storia di una terapia impossibile. Anzi: la prigione è riuscita assai bene a produrre delinquenza, in un ambiente apparentemente marginalizzato, ma controllato dal centro e a produrre il delinquente "patologico".

 

Nella "Spirale della violenza", il tuo libro del 1969, i detenuti venivano descritti secondo una classificazione che ne determinava anche la posizione gerarchica interna al carcere. Si tratta di categorie ancora valide?

Sì. Oggi bisogna aggiungere il problema dei migranti. Si stanno formando in prigione bande su base etnica, e proprio a causa della violenza del sistema carcerario, stanno emergendo, tra gli immigrati, le figure dei leader. Si formano le stesse piramidi sociali e le stesse gerarchie di potere esistenti all’esterno, naturalmente a livello di criminalità. Un boss mafioso resta tale anche in un penitenziario.

 

Quando la società emargina, ossia costringe "fuori margine" una persona, sembra voler esorcizzare la paura di riconoscere colpe che la riguardano direttamente, nascondendosi dietro forme canonizzate di bene e di male. In che misura la società, cioè noi tutti, tende a scrollarsi di dosso certi fardelli?

La società ha bisogno del capro espiatorio. Non ne può fare a meno. Non riuscirebbe a sopravvivere senza. È il disagio della civiltà, direbbe Freud. Certo, noi, rispetto all’uomo delle caverne, abbiamo compiuto passi avanti giganteschi, incredibili. Forse tra venti o trenta anni andremo su Marte. Ma, per quel che concerne l’essenza della libertà, il suo coincidere, in termini filosofici, con la ragione assoluta, siamo ancora all’anno zero o poco più. Per alcuni teorici americani, poi, il darwinismo sociale o, se si preferisce, la costruzione di forme canonizzate di lecito e illecito, è indispensabile per la formazione e il perpetuarsi della ricchezza e per lo stesso sviluppo della libertà. In sostanza, secondo queste tesi, noi, come corpo sociale, siamo obbligati allo stigma (e a volte al razzismo), alla nascita del diverso, per sopravvivere rispetto a noi stessi, ai nostri sensi di colpa, ai desideri belluini che ci fermentano nell’inconscio, alla necessità di realizzare piramidi sociali che emarginano milioni di uomini.

 

Ci serve un capro espiatorio per evitare che la violenza di cui siamo preda, e che neghiamo come esistente in noi, nelle nostre istituzioni, esploda tra noi, contro di noi, mandando in frantumi il corpo sociale. E il capro espiatorio, come elemento di scarico delle tensioni individuali e collettive, è lo strumento che equilibra o riequilibra la situazione. Che dolore è il dolore di chi vive "fuori margine"? Come si percepiscono i detenuti?

Gli schemi usuali non riflettono la realtà, ma ciò che noi crediamo sia la realtà. Questo è particolarmente vero per la criminalità. Un universo contraddittorio e sfuggente, posto spesso sugli altari da una cattiva letteratura e un pessimo cinema. Il paradosso della situazione è che gli stessi criminali (e li definisco tali dal punto di vista giuridico) tendono a percepirsi come il senso comune vuole che siano. I ladruncoli di borgata, soprattutto con gli estranei, parlano di se stessi come fossero Al Capone, oppure, al contrario, vittime della società senza scampo e senza alternative possibili. Insomma, o Abele o Hitler. Assurdità, si capisce. Ma è proprio questo il meccanismo di cui tutti noi siamo prigionieri. In sociologia, per analizzare questa situazione si ricorre prevalentemente alla teoria dell’etichettamento o dei gruppi oppure dell’anomia. Nelle storie che ho raccolto gli intervistati parlano in prima persona. Volevo che venissero fuori i reali comportamenti, i modi di pensare, gli amori, i furori, le rabbie, i desideri, le speranze. È stata la parte più difficile del lavoro. È molto difficile convincere un camorrista (indicato per nome e comunque riconoscibile dalle stesse vicende narrate) a dire, parlando di se stesso: uccidere un uomo è facile e non si prova un bel niente; oppure far confessare a una bella prostituta, anch’essa facilmente identificabile, che fa la vita perché così guadagna più che se lavorasse. È difficile farli parlare di se stessi perché per difesa, direi legittima, tendono a romanzare la propria vita non solo secondo gli stereotipi culturali interiorizzati, ma anche secondo ciò che credono l’interlocutore si voglia sentire dire.

 

Che cosa insegna il carcere?

Ho imparato tante, tantissime cose dagli esclusi, sia italiani che stranieri. Devo tutto ai marginali, ai devianti, ai detenuti. In un certo senso, tutto ciò che so (ammesso che sappia qualcosa), tutto quello che ho fatto, la stessa cattedra di sociologia, i libri scritti, tutto, insomma, lo devo a loro. Di più: devo a loro la consapevolezza del vivere quotidiano, le esperienze fuori del comune, vive, significative, incancellabili. Come quelle vissute mentre ero nella Legione Straniera, in carcere in Algeria, vivendo fianco a fianco con gli arabi torturati, condannati a morte. O, ancora, nelle prigioni francesi e italiane. Migliaia e migliaia di reclusi, storie, sentimenti, amicizie.

Il carcere è certo un luogo dove si vedono e si vivono le massime abiezioni, ma anche splendidi eroismi, fedeltà alla parola data, solidarietà. Quando, per anni, si dividono pane, insonnia e furori con i compagni di catena, si resta indissolubilmente legati l’uno all’altro. Ci si riconosce sempre, a cenni, solo fiutandosi. Perché non si è solamente condiviso un tratto di strada, ma si è fatto di più, si è scoperto insieme che si è uomini e che si resta uomini in tutte le circostanze, in tutte le occasioni. E poi, proprio per dirla tutta, io ho incontrato molti più delinquenti, farabutti, fuori, tra le gente bene, che tra i reclusi in tutte e 22 le carceri che ho girato.

Abolire la tortura del carcere, di Giulio Salierno

 

Si dice: "Il carcere è sempre esistito. E poi, del resto, dove potremmo mettere i delinquenti?". Ciò rappresenta un chiaro alibi giustificatorio che mira a perpetrare nel tempo l’esistenza di un’istituzione che, quanto a disumanizzazione totalizzante, generalizzata e normativizzata da tutto l’apparato giuridico borghese non ha precedenti nella storia ( e nella preistoria).

L’equivoco nasce dall’errata identificazione di fenomeni assai diversi tra loro: il carcere come edificio atto a custodire persone in attesa di altro destino, e dove comunque non si scontano pene, è stato falsamente identificato con la reclusione, intesa come pena istituzionalizzata. La quale, invece, è solo con il secolo XVII che assume una rilevanza sociale, politica ed economica che prima non aveva mai avuto.

Il radicale mutamento delle strutture economiche di base determinò allora l’avvento di una nuova sovrastruttura: l’internamento istituzionalizzato. E sono oggi i nuovi, rivoluzionari cambiamenti delle strutture economiche di base, causati dall’ingresso dell’elettronica (in particolare, nella sua veste di sapere informatizzato) in tutti gli aspetti della vita a segnare la morte del sistema penale basato sulla reclusione. Un sistema, ormai obsoleto, un "mostro" istituzionale - vero e proprio mangia uomini - che divora tutti coloro che hanno a che fare con esso: in primo luogo, i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari e i membri dello staff dirigente. E gli effetti letali del carcere si propagano dall’interno dell’istituzione alla società tutta.

È inutile, penoso, invocare prigioni e manette - come accade in questi giorni - contro i camorristi che si scannano a vicenda, senza tenere conto non solo del contesto sociale in cui questi uomini vivono, ma anche di come essi, le loro famiglie, i loro amici, siano stati segnati, anzi marchiati a fuoco dal contatto, diretto o indiretto, col mondo del carcere.

E pretendere di conservare la prigione, imbellettarla con ridicole riforme di facciata (quando e se ci sono), è utopia allo stato puro, imbroglio ai danni della credulità della gente. Non è mettendo i cessi al posto dei buglioli che si trasforma il carcere. Ci vuole ben altro! È anzi necessario, urgente, cominciare a porsi il problema del superamento dell’istituzione penitenziaria, del suo essere un inutile, pericoloso residuato bellico, che con la sua stessa esistenza è fabbrica di criminalità e di follia.

L’utopia consiste nel conservare aspetti di una realtà la cui essenza, il cui nucleo centrale è l’evolversi, il mutare e non l’essere o lo stare. Questo è il dramma del riformismo senza riforme. Illudersi, sognare di preservare con qualche ritocco alle rughe ciò che il tempo, gli eventi, il fluire della storia ha ormai definitivamente superato. Il "Gattopardo" sapeva che perché nulla cambi, tutto deve cambiare. Viva la faccia! Siamo in presenza di una lucida intelligenza reazionaria, non di un balbettio burocratico incapace di vedere al di là del proprio naso.

Nessuno pensa che si possa vivere in un paradiso qui in terra. Ma parlare di una abolizione-dissoluzione della pena della reclusione non è un’utopia fine a se stessa, un sogno a occhi aperti.

Così come parlare, razionalmente, della trasformazione del mondo in cui viviamo, non è affatto deviare il discorso dalla realtà di cui siamo parte; anzi, è l’unica strada che possa consentirci di continuare a vivere, o convivere, tra noi e per noi. È un’esigenza, l’unico realismo possibile.

E altrettanto vale per le carceri. Parlare di abolirle, non è utopia. Ma, al contrario, iniziare a discutere (e lavorare) di una questione che oggi è molto vicina alla realtà.

Infatti, ai giorni nostri esiste la possibilità concreta del superamento della reclusione. Abbiamo cioè gli strumenti, i mezzi e le tecnologie scientifiche per cancellare dal nostro orizzonte culturale, politico e civile il carcere. È tempo, infatti, che si getti l’intero sistema penitenziario nella pattumiera della storia.

 

 

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