Per una critica della pena...

 

Per una critica della pena privativa della libertà

di Serafino Privitera

 

Prescindo dal mio discorso sul perché della punizione e della necessità di punire coloro che commettono reato, dal dovere dello Stato di salvaguardare l’incolumità dei propri cittadini, dal fatto che da che mondo è mondo i crimini sono stati sempre puniti, poiché in caso contrario la vita in società non sarebbe possibile. Su questo terreno vale il principio "fiat iustitia, pereat mundus".

Tralascio tutto ciò. Il mio discorso vuole affrontare il concetto dell’insignificanza della pena privativa della libertà da un punto di vista esistenziale, inteso in senso di rapporto dell’essere umano con se stesso. Dove conduce questo discorso e verso quali lidi tenderebbe quest’analisi non mi preme, anche se dovesse condurmi verso l’abolizione assoluta della pena. Voglio mettere tra parentesi questo tipo di critica e approfondire su un piano esistenziale il vissuto quotidiano della persona privata momentaneamente della libertà.

Si tratta di avviare un discorso costruttivo verso la ricerca di nuove forme punitive che abbiano meno influssi negativi sulla dimensione esistenziale della persona condannata. Il carcere come "ultima ratio", pensato solo per i casi che suscitano estremo allarme sociale, come pericolo e minaccia per la collettività. Per tutti gli altri la ricerca di pene alternative alla detenzione che limitano i disagi e la deresponsabilizzazione della persona condannata con conseguenze sul piano sociale ed esistenziale.

L’argomento isola dalla concezione che ha del tempo, dello spazio e della libertà il mistico che vive il tempo atemporalmente, cioè al di fuori della dimensione che vive il comune mortale per il quale il tempo e la libertà sono tali in senso stretto, quasi corpuscolari. È chiaro un conto se in prigione si ritrova un Dostoevskij o un Gramsci i quali utilizzavano il tempo immergendosi in studi attraverso i quali riuscivano a superare interiormente la condizione di carcerato, a sospendere il carcerario, un altro se in prigione ci va a finire un condannato qualunque. Una sorta d’ozio forzato che può essere creativo o può sprofondare colui che lo subisce nelle più recondite e spregiudicate amoralità. L’ozio inteso in senso pascaliano o dostoevskijano. Per Pascal solo nell’ozio l’essere umano sperimenta e si avvicina a Dio, è la condizione per accedere ad una vita contemplativa e ascendere alla divinità. Per Dostoevskij l’ozio in prigione sprofonda l’uomo nel vizio e nei piaceri e sentimenti proibiti, lo declassa. Da qui l’introduzione all’origine dei penitenziari della categoria del lavoro in carcere, della cultura come formazione professionale e della religione intesa in senso di recupero morale.

Due concezioni, due visioni della vita completamente diverse a seconda del soggetto coinvolto e del rapporto e del valore che ognuno ha e dà alla libertà, al tempo, allo spazio.

Occorre distinguere tra il tempo (spazio e libertà) mistico - vivere atemporalmente nel tempo - cioè un tempo che non è tale per colui che supera il tempo e il tempo reale esistenziale del condannato privato momentaneamente della libertà1. È di questo tempo che voglio occuparmi. Il primo, il tempo del mistico, solo accennarlo. Beato chi lo fa proprio. Come anche non occuparmi del tempo secondo l’escatologia cristiana. Il cristianesimo come speranza e attesa di riscatto e superamento del tempo.

Nell’esecuzione della pena privativa della libertà, in ogni caso, sia che si viva la vita o il tempo si viene privati di qualcosa che appartiene al singolo individuo. In entrambi i casi, vita e tempo, la privazione della libertà come pena è un assurdo2.

Se le condizioni perché l’individuo possa realizzarsi sono l’essere libero e quindi non essere privato della libertà, in caso contrario si diviene dipendenti, allora la pena privativa della libertà è la più estrema delle pene e la più insignificante come pena.

La pena privativa della libertà non può essere una pena per il semplice fatto che non punisce ma priva di qualcosa senza la quale non si può realizzare le più recondite possibilità, blocca il potere di crescita dell’individuo escludendolo dalla società. Lo stesso discorso risocializzativo appare contraddittorio e privo di senso poiché impossibile recuperarsi alla libertà nella privazione della stessa. In prigione non si vive il presente, il presente è sospeso nell’attesa di viverlo. In prigione si vive nel passato che non è più, nel ricordo di quanto è stato e si spera in un futuro a venire. Quindi se il presente non è significa che esistenzialmente non si vive, poiché il presente da vivere non mi appartiene. L’unica dimensione che dovrebbe realizzarmi non è per me che un impedimento, un non potere. Allora sprofondo in un passato che non è più e mi proietto in un futuro che spero possa appartenermi. Intanto l’unico tempo che è il presente in cui vivo non lo gestisco io ma mi viene programmato da altri, dall’istituzione carceraria. In prigione si vive un presente contratto che appartiene all’istituzione, ai ritmi quotidiani del carcere. Il tempo viene impedito dall’essere vissuto poiché solo nella libertà il tempo presente acquista significato e creatività esistenziale per il singolo individuo3.

Se la vita è progettualità nel tempo e nello spazio mediante la libertà, l’uomo ancorato al passato si realizza nel presente e progetta il suo futuro. Il tempo appare come possibilità esistenziale, progettazione, tempo autentico o inautentico, ma sempre tempo che gli appartiene; tempo come anticipazione, nel tempo progetto la mia vita. "Esistere è cambiare; cambiare è maturare; maturare è creare se stessi all’infinito (Bergson)."

Privazione della libertà, non in senso assoluto, poiché non si può privare della totalità della libertà, solo con la morte è possibile. Piuttosto la limitazione della libertà, una libertà contratta, diminuita, più povera di prospettive creative, di possibilità, di essere, di divenire. Una limitazione dello spazio-tempo-libertà del recluso. Una sorta di contrazione che gli limita la capacità progettuale e creativa che potrebbe esplicare se fosse libero. Alle origini invece dei penitenziari, attraverso la privazione della libertà si voleva raggiungere un obiettivo seppure ideale, realistico da un punto di vista della nascita dell’istituzione carcere. Poiché il penitenziario nasce e si sviluppa con idee ben chiare che erano quelle di recuperare moralmente i condannati durante la privazione della libertà. Quindi il tempo, lo spazio e la libertà assumevano valenze ben più realistiche in quanto lette all’interno del contesto in cui nasce il penitenziario. La limitazione di queste tre categorie comportava il raggiungimento di uno scopo. Oggi non è più così poiché tempo, spazio e libertà non sono più inserite in un contesto dello scopo dell’istituzione. Anche per la numerosa presenza nelle istituzioni europee di condannati provenienti da ogni parte del mondo con i quali e per i quali determinate categorie come tempo, spazio e libertà assumono connotazioni diverse a dipendenza della provenienza geografica, dei valori a cui essi credono. Oggi più che in passato è impossibile poter fare a meno di una cultura multiculturale e multietnica che metta in grado gli esperti di riprendere il discorso intorno ai concetti di tempo, spazio e libertà allargati alle civiltà del mondo, ad un codice penale che diventi sempre più internazionale.

Ma se il tempo, lo spazio, la libertà sono tutti sinonimi di vita, come è possibile il discorso del recupero, della risocializzazione all’interno di una struttura che priva appunto delle condizioni indispensabili e fondamentali per realizzarsi? Da qui anche i motivi che qualunque carcere anche il più moderno che offre i più avanzati comfort è e rimane "carcere", da qui l’aspirazione di qualunque carcerato a riconquistare la libertà, a riappropriarsi del "suo" tempo, del "suo" spazio.

Tempo-spazio-libertà ho affermato sono sinonimi di vita. Nello spazio creo, lo spazio come dimensione dove lo sguardo si perde, l’estetica dello spazio come dimensione stimolante che mi apre orizzonti sempre più ricchi di progettualità. Con lo spazio e nello spazio vivo il mio tempo, quel tempo che è mio che gestisco io nella libertà. Spazio carcerario come mancanza di libertà di movimento in senso fisico e sviluppo del senso spaziale del mondo in generale. L’essere umano non può rinunciare al tempo e alla libertà. Potrà rinunciare allo spazio come infinito se non lo vive, ma giammai al tempo e alla libertà, poiché condizioni indispensabili per realizzare il proprio essere. Solo nella libertà vivo pienamente il tempo che sia un tempo "povero" o esistenziale. L’uomo realizza sé stesso nella libertà e nel tempo che gli appartiene, privatone ritorna come schiavo alla mercé di chiunque.

Lo spazio meditativo o abitativo può essere angusto, non lo spazio che io vivo e nel quale vivo, poiché in questo caso limito la mia visione del mondo e di quella creativa. Lo spazio come campo sterminato davanti a me, orizzonti senza fine.

Il tempo a sua volta oggi si è dilatato enormemente; esso ha assunto una valenza fondamentale per l’essere umano. Il tempo oggi ha assunto un’importanza tale da far dire che tutte le pene privative della libertà andrebbero abbassate notevolmente. Pensiamo alle vastissime possibilità e opportunità di lavoro avanzate e moderne che offre la società libera, a quanto si può realizzare quando si è liberi di gestire il proprio tempo, il proprio spazio, la propria libertà. E poi si paragoni tutto ciò alla povertà di vita all’interno del carcere, alla mancanza di strutture moderne da offrire alla comunità carceraria, alla vita ristretta e contratta che vi si vive. Pensiamo alla libertà in funzione di cosa non possiamo fare senza di essa. Parlare della libertà forse la si comprende se se ne parla in negativo, cioè tutto ciò che non potremmo fare se ne venissimo privati. Basta per tutte affermare che l’uomo realizza la sua esistenza nella libertà e grazie alla libertà. Dante arriva al punto di esaltarla e a sacrificare per lei la vita: "...libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta". Oppure pensiamo a Kant4 il quale realizzava l’uomo morale nella libertà più totale e che arrivava all’assurdo, seppur per lui realistico, di affermare che "l’uomo d’onore preferirebbe la morte - alla privazione della libertà - mentre l’uomo volgare sceglierebbe i lavori forzati, perché così si comporta la natura dello spirito umano"5. Ma pensiamo anche agli antichi, in particolare i germanici, per i quali la libertà esprimeva un valore troppo importante. Per loro era inaccettabile che si privasse un essere umano della libertà, poiché significava renderlo schiavo. Nessuno poteva rendere schiavo un uomo libero.

Perdere la libertà significa perdere tutto. Qualunque discorso intorno al carcere è pura vanità, chiacchiera, status quo. Il carcere serve per quelli che sono fuori, perché non commettano reato, a quelli che già si trovano dentro non serve a niente se non a perpetuare un sistema fine a sé stesso e per lo stato a giustificarlo come unico garante della sua stessa sopravvivenza, come necessità, come male minore.

Lo stato deve potersi difendere dai possibili trasgressori delle regole civili che ogni società si dà secondo le proprie credenze e valori. È stato così nei secoli e continuerà ad esserlo. Uno stato che non ha valori da salvaguardare, uno stato che non crede in qualcosa per la quale vive e si perpetua sotto qualunque forma si presenti non sarebbe uno stato, una comunità, ma delle individualità che vagano come meteoriti nell’universo.

Ogni società ha conosciuto e si è dato un determinato sistema punitivo, di difesa, sistema che veniva utilizzato indirettamente a mo’ di prevenzione generale, anche verso la maggioranza della popolazione e verso i potenziali criminali i quali non commettevano e non commettono reato per paura di essere puniti, per paura del carcere.

Ecco allora il carcere, oggi penitenziario, ieri pene corporali, ecco allora l’apparato punitivo dello stato moderno per eccellenza non per redimere, poiché impossibile, o perché si vuole dare questa parvenza, ma per contenere momentaneamente persone che hanno commesso reato, come apparato che vorrebbe apparire umano, richiamandosi alla tradizione religioso-cristiana cattolica o protestante, calvinista o presbiterana.

Non possiamo fare a meno del carcere, nonostante tutta la nostra buona volontà, eliminarlo, farlo scomparire, significherebbe per lo stato e per la società sottoscrivere la propria condanna a morte.

Ma allora cosa fare nel frattempo, illusioni a parte. Per il momento si può credere solo ad un trattamento umano e dignitoso durante l’esecuzione della pena, il resto sono vuote chiacchiere in un sistema punitivo privo di sbocchi. L’incidenza e l’influsso del diritto penale canonico, un pensiero che credeva nell’espiazione e nel recupero morale dell’uomo attraverso la reclusione ha portato nei secoli a giustificare la pena privativa della libertà e a continuare a mantenerla sino a quando non escogiteremo altre forme punitive accettabili dalla sensibilità collettiva. Non per nulla Nietzsche poteva affermare: "Eliminiamo dal mondo il concetto del peccato - e spediamogli subito appresso il concetto della pena!"6.

Per dire come la pena è strettamente legata al concetto di peccato inteso in senso cristiano. La stessa concezione della pena che oggi definiamo con tanti nomi diversi, ma che fondamentalmente diciamo sempre la stessa cosa, non è nient’altro che la forma punitiva che direttamente o indirettamente è di derivazione cristiana: la pena della carcerazione, detentiva, penitenziaria, privativa della libertà, ecc., ecc. Una forma punitiva che già la chiesa applicava ai monaci disubbidienti sin dall’Alto Medioevo. Sicuramente interessante questa forma punitiva poiché il principio era quello di recuperare moralmente l’individuo che in caso contrario sarebbe andato alla dannazione eterna, recuperare all’uomo l’anima che a causa della sua vita sconsiderata, peccaminosa era andata perduta, aveva smarrito la retta via. È chiaro che questa forma punitiva moderna della privazione della libertà ha perduto parte del principio acquisito al momento della sua nascita. Si è introdotta la categoria del lavoro, con profondo rammarico delle autorità ecclesiastiche. Per questi l’uomo doveva redimersi nel silenzio, nella penitenza della cella, nella contemplazione di dio, poiché il lavoro distoglieva il peccatore dal reato commesso.

Una concezione, quella della chiesa, pascaliana di sentire la punizione: redimersi nell’anima, nella preghiera e nella meditazione di dio. Nobile sicuramente il principio ma scarso di efficacia. Diverso è il discorso per colui che sceglie liberamente la vita monacale; questi è consapevole della scelta che fa e dedica la propria vita a dio. Diversamente colui che è obbligato alla vita di clausura, a rivedere tutto il proprio passato e a redimersi. Oggi si cerca di giustificare una forma punitiva di cui si è voluto dare ad intendere che è stata spogliata da tutte le forme religiose, quanto nella realtà è zeppa di simbologie religiose sin dal nome stesso dell’istituzione dove i detenutiti scontano le loro pene.

Bisogna dire che la pena risente delle contraddizioni presenti nella società, vacilla tra passato e presente incapace di creare qualcosa di nuovo. Siamo prigionieri del passato, della memoria storica che volente o nolente continua ad influenzare anche la concezione della punizione. Ma se proprio non se ne può fare a meno allora sforziamoci di continuare a oscillare, ma diciamo liberamente e fermamente convinti che la pena privativa della libertà, la pena carceraria ha fallito il suo scopo, che non è una pena poiché rende colui che la subisce un minorato mentale, un adulto che con gli anni ritorna bambino non in grado più di pianificare la propria esistenza. Finiamola con l’idea di risocializzare persone che di risocializzazione non ne vogliono sapere o che non ne hanno bisogno. Atteniamoci piuttosto all’idea di trattare queste persone umanamente, un trattamento umano e basta. Forse qui si può recuperare qualcosa dell’idea kantiana di punizione, là dove lui affermava che l’individuo va trattato come cosa in sé mai come oggetto da permeare e manipolare a nostro piacimento secondo una concezione della vita morale, etica imposta da chicchessia. Qui vale il principio che l’individuo su sé stesso è sovrano (John Stuart Mill, On Liberty) anche quando decide di commettere reato. La pena privativa della libertà può ancora continuare ad esistere sia perché ancora non siamo stati in grado di escogitare un altro sistema punitivo che combini meno disastri di quello attuale e se è pensata unicamente per quei casi che rappresentano un forte allarme sociale.

La società è ben lontana dal risolvere i problemi criminali col carcere, con la pena detentiva, con la privazione della libertà. Il carcere può tutt’al più contenere persone che hanno commesso reati gravi, ma non illudiamoci che esso riesca o riuscirà a trasformare l’individuo reo di malefatte in un essere buono che persegue gli ideali, seppur relativi, della società.

Poiché dopo che una persona ha passato alcuni anni in carcere difficilmente sarà recuperata alla società; nel frattempo ha perduto le cognizioni del tempo e dello spazio, non è più in grado di gestire la propria esistenza, programmarla, pianificarla. In carcere tutto questo era pensato da altri. Il condannato, seppur si dica che la sua partecipazione è anche importante sul futuro della sua esecuzione della pena, nella realtà gli vengono presentati condizioni e decisioni che non provengono da lui stesso ma da altri, è qualcosa che viene comunque dal di fuori. Egli fondamentalmente rimane imbrigliato al sistema, un sistema paternalistico che pensa per lui, che vive per lui, che si sacrifica per lui, che è pagato per lui. Egli non deve pensare a niente se non a "vivere", se vivere può considerarsi lo stare chiuso 24 ore su 24; dipendere esclusivamente dagli altri, dove il dover chiedere e l’essere autorizzato diventa la regola prìncipe.

La pena della privazione della libertà nel privare della libertà priva l’uomo della sua essenza, da quell’essenza fondamentale e inconfondibile che lo distingue dalle altre specie animali, la libertà, la capacità di pensare poiché non è vero che nell’ozio si pensa di più e si riesca a meditare e vivere l’infinito; per poter fare ciò bisogna essere educato e essere cresciuto, fatto esperienza e fatta propria una maniera di vivere e pensare che si conquistano nella libertà e quando si è liberi di decidere.

No, la privazione della libertà non è una pena umana, ma disumana; lo era forse all’inizio, nel principio, nel pensiero di coloro che l’avevano escogitata con l’obiettivo del recupero morale, anche questo discutibilissimo. Ma in seguito, l’avvento dello stato laico, la secolarizzazione della pena privativa della libertà e l’allontanamento dalla concezione religiosa originaria hanno significato l’inizio di una razionalità e calcolo laico della pena e quindi la fine della pena della carcerazione e l’avvio, forse, la ricerca di nuove forme punitive dello stato che in ogni caso mantengono e continueranno a mantenere e ad essere impregnati, a nostra insaputa e nonostante tutta la nostra buona volontà, di simbologia religiosa, perché l’origine è quella.

Non abbiamo ancora inventato uno stato totalmente laico. O meglio uno stato dove regna solo l’uomo, le sue leggi spogliate da ogni forma e influssi religiosi, dove qualunque forma religiosa sia tollerata, purché non mini l’autorità dello stato. Pensiamo soltanto al problema della sessualità in carcere, come questa è strettamente legata alla cultura cristiana che ci è stata trasmessa nei secoli, a quanto è deleteria sullo stato psicofisico di colui che non può più vivere un sano equilibrio sessuale7. A come la vita del detenuto viene contratta in senso assoluto e che lo coinvolge nella totalità della sua persona. E quindi nuovamente l’importanza della libertà del tempo e dello spazio nell’esistenza dell’uomo carcerato o meno.

Tempo, spazio e libertà da riprogettare all’interno delle strutture carcerarie. Ridurre al minimo la povertà che crea l’istituzione carcere, ridurre forse il carcerario, cercare nuove vie che arricchiscano e rivalutino la progettualità umana anche all’interno del microcosmo penitenziario; avere il coraggio di proporre e reinventarsi il "penitenziario" nella sicurezza. Non limitare più del necessario l’uomo carcerato, poiché il limite segna un confine imposto che a sua volta blocca il processo di crescita dell’individuo con le conseguenze che in queste brevi considerazioni ho cercato di sollevare e chiarire marginalmente.

 

 

Lugano, 21 marzo 2006

Serafino Privitera

 

Repubblica e Cantone del Ticino

Sezione esecuzione delle pene e delle misure

Scuola di formazione e perfezionamento del personale

Serafino Privitera, Responsabile della formazione

Casella Postale 4062; CH-6904 Lugano

tel: +41 91 935 06 73; fax: +41 91 935 06 03

serafino.privitera@ti.ch

Note

 

[1] Chi è felice realizza il fine dell'esistenza e il tempo non ci sarà più (Dostoevskij, citato da L. Wittgenstein, in Quaderni 1914-1916). Solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è felice. Per vivere felice devo essere in armonia con il mondo. E questo vuol dire essere felice (L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916). Questo semplicemente per affermare che nel caso tipico è possibile realizzare e vivere l'infinito anche all' interno di una cella. Anzi come abbiamo visto è l'unica via per accedere ad una vita esistenzialmente genuina, nell'eternità del tempo vissuto sperimentare l'assoluto. È chiaro che se questo discorso è possibile farlo per qualche singolo condannato diversamente è in generale. In generale o nella maggior parte dei casi chi commette reato e viene condannato a scontare una pena carceraria si trova in una situazione di un vissuto quotidiano immediato.

[2] Nessuno ti renderà gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso; andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità: scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste...La vita si divide in tre tempi: passato, presente, futuro. Di essi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro (Seneca, De brevitate vitae).

Il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me...Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa...È vero che ora per me il passato ha una grande importanza, come unica cosa certa nella mia vita, a differenza del presente e dell'avvenire che sono fuori della mia volontà e non mi appartengono...Quello che da me non era stato preventivato era l'altro carcere, che si è aggiunto al primo ed è costituito dall'essere tagliato fuori non solo dalla vita sociale, ma anche dalla vita famigliare ecc. ecc. (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere).

[3] Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so. Risulta dunque chiaro che futuro e passato non esistono, e che impropriamente si dice: "Tre sono i tempi: il passato, il presente e il futuro". Più esatto sarebbe dire: "Tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro". Queste ultime tre forme esistono nell'anima, né vedo possibilità altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l'intuizione diretta, il presente del futuro è l'attesa...non si sostenga che hanno un'esistenza il futuro e il passato (Sant' Agostino, Le Confessioni). Quindi per Sant' Agostino appare evidente che solo il presente del presente, l' intuizione, ha valore. Poiché oltre al presente l' uomo non possiede nulla. Nelle condizioni del vissuto del carcerato la privazione della libertà appare come pena nella sua più profonda drammaticità, poiché è come se si privasse del vivere un essere umano, gli si sospendesse di vivere per un determinato periodo di tempo.

[4]  Alighieri Dante, Purgatorio, I, 71-72.

[5] Immanuel Kant, Del diritto di punizione e di grazia, in La metafisica dei costumi.

[6] Friedrich Nietzsche, Aurora, aforisma 202.

[7] È noto che la fantasia sessuale viene moderata, anzi quasi repressa, dalla regolarità dei rapporti sessuali, e che al contrario diventa sfrenata e dissoluta per la continenza e il disordine dei rapporti (Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, I, n. 141).

 

 

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