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La essenziale modificabilità del giudicato sulla pena Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Giurisprudenza Relatore: Prof. Fabrizio Corbi - Tesi di laurea di: Maurizio Milani
Il ruolo della magistratura di sorveglianza e del pubblico ministero La giurisdizione sul contenuto sanzionatorio del titolo
La fase esecutiva del procedimento penale è costituita da due momenti essenziali: uno meramente attuativo del comando contenuto nel provvedimento giurisdizionale e che rappresenta, in definitiva, l’oggetto dell’attività demandata al pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione come organo deputato, ai sensi dell’art. 655 c.p.p., a curare d’ufficio l’esecuzione dei provvedimenti; l’altro invece si sostanzia in una attività più propriamente di carattere decisorio-giurisdizionale, in relazione alla quale si parla di "giurisdizione esecutiva". Ed è nell’ambito di quest’ultima che è dato individuare la giurisdizione sul titolo esecutivo, affidata al giudice dell’esecuzione competente ai sensi dell’art. 665 c.p.p., con il compito di verificare le condizioni di legittimità delle attività di attuazione del comando; e la giurisdizione sul contenuto sanzionatorio dello stesso comando, affidata alla magistratura di sorveglianza, con il compito di controllare nel tempo la rispondenza fra contenuto sanzionatorio del comando, appunto, e fine rieducativo assegnato allo stesso. Presupposto ineliminabile è che sia in atto, o comunque possa essere iniziata, l’esecuzione di una pena detentiva o di una sanzione sostitutiva (originaria o derivata da conversione di pena pecuniaria), oppure di una misura di sicurezza personale. Con la normativa del 1975, la figura della magistratura di sorveglianza assorbe le funzioni del vecchio giudice di sorveglianza - organo che, nel codice del 1930 e nel Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena del 1931, era incaricato di svolgere una funzione di mera vigilanza sull’esecuzione della pena detentiva e delle misure di sicurezza, tanto che la sua attività era seguita da un magistrato avente un incarico di maggior rilievo, generalmente quello di giudice istruttore penale - ed acquista finalmente un’autonoma ed adeguata collocazione nell’ambito dell’ordinamento giudiziario. L’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che nel tempo le ha conferito nuove ed ampie attribuzioni, ha contribuito ad individuare nella magistratura in questione l’autorità giudiziaria che presiede in modo pressoché totale all’esecuzione delle pene qualunque forma esse assumano, creando un giudice che ha come compito principale ed ineliminabile quello di valutare il progresso di risocializzazione del soggetto sottoposto alla sanzione penale nel suo variare durante il tempo di espiazione. Tuttavia l’oggetto di questa giurisdizione è andato nel tempo estendendosi e la normativa ad oggi vigente ci permette di individuare un’ampia sfera di competenze della magistratura di sorveglianza. Alla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, infatti, sono seguite una serie di modifiche ed integrazioni di significativa importanza. Anzitutto deve essere ricordata la L. 24 novembre 1981 n. 689 recante modifiche al sistema penale ed introduttiva, tra l’altro, delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi costituite dalla semidetenzione e dalla libertà controllata. Questa legge ha integrato i compiti assegnati alla magistratura di sorveglianza prevedendo all’art. 62 che le modalità di esecuzione di dette sanzioni sostitutive sono determinate dal magistrato di sorveglianza del luogo di residenza del condannato ai sensi della legge in questione nonché delle norme che disciplinano il procedimento di sorveglianza previste dalla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Al 1986 risale un altro importante testo: la L. 10 ottobre 1986 n. 663 recante modifiche all’ordinamento penitenziario e all’esecuzione delle misure privative della libertà in genere. L’entrata in vigore della suddetta legge portò anzitutto l’abrogazione dell’art. 204 c.p. vale a dire l’abrogazione del sistema delle presunzioni di pericolosità sociale, stabilendo, all’art. 31 c. 2 che "tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa". Inoltre la stessa L. 663/1986 inserisce nell’art. 69 della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario un quarto comma che prevede il "riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell’art. 208 del codice penale, nonché alla applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza" da parte del magistrato di sorveglianza. Lo stesso magistrato provvede inoltre, con decreto motivato, alla eventuale revoca della dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza di cui agli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 del codice penale. La legge in questione ha poi introdotto le misure c.d. ab initio, ovvero la possibilità di concedere alcune misure alternative indipendentemente dall’avvenuto esperimento della osservazione scientifica della personalità e del correlativo trattamento. Infine deve essere citata la recente L. 27 maggio 1998 n. 165, la c.d. "Legge Simeone" la quale, oltre a rendere più accessibili, dal punto di vista dei requisiti, le misure alternative dell’affidamento in prova ai servizi sociali, della detenzione domiciliare e della semilibertà, ha inoltre rivisitato quasi integralmente il testo del previgente art. 656 del codice di procedura. Il disposto dell’art. 656 c. 5 c.p.p., così come modificato dalla legge sopra citata, prevede che se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non è superiore a tre anni ovvero a quattro anni per reati connessi allo stato di tossicodipendenza o alcoldipendenza, il pubblico ministero ne sospende d’ufficio l’esecuzione (sempreché non si tratti di condannati per i delitti di cui all’art. 4bis ord. penit.; che non si tratti di persona che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovi in stato di custodia cautelare in carcere al momento in cui la sentenza diviene definitiva). La sospensione, inoltre, non può essere disposta più di una volta per la stessa condanna. In via residuale deve essere ricordata anche la competenza, sempre del magistrato di sorveglianza, circa la rateizzazione delle pene pecuniarie ai sensi dell’art. 660 c.p.p. e 136 c.p. nonché la conversione delle stesse nella sanzione sostitutiva della libertà controllata per insolvibilità del condannato ai sensi dell’art. 102 della L. 689/1981. Altrettanto può dirsi in punto di concessione della riabilitazione ex artt. 178 e ss. c.p. in quanto le "prove effettive e costanti di buona condotta", come presupposti richiesti dalla legge, possono essere senz’altro collegati al fine rieducativo della pena. È ancora alla giurisdizione sul contenuto sanzionatorio, ed in particolare al tribunale di sorveglianza, che spetta la decisione circa il rinvio obbligatorio e facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p. così come la decisione circa il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per infermità psichica sopravvenuta del condannato ai sensi dell’art. 148 stesso codice spetta al magistrato di sorveglianza. Infine il magistrato di sorveglianza è competente a decidere sulla domanda di remissione del debito ai sensi dell’art. 56 ord. penit.. Il vario panorama di competenze giurisdizionali appena delineato, oggetto più specifico dei paragrafi successivi, consente di chiarire e identificare con più precisione l’oggetto della giurisdizione sul contenuto sanzionatorio del titolo. Così come a proposito della giurisdizione cognitiva si suole parlare di un giudizio sul fatto-reato e sulla responsabilità dell’imputato, altrettanto a proposito della giurisdizione sul contenuto sanzionatorio del titolo si suole parlare di un giudizio sull’uomo, sull’autore del fatto-reato. Tuttavia, considerando la varietà di competenze della magistratura di sorveglianza, si deve ritenere che il giudizio sull’autore in senso tecnico è un giudizio formulabile solo quando si tratta di applicare, sospendere, revocare una misura alternativa a seguito della valutazione di un periodo di osservazione e di trattamento. Altrettanto può dirsi per l’applicazione, esecuzione e revoca delle misure di sicurezza. Più spesso, invece, e alla luce specialmente dei più recenti sviluppi legislativi, la stessa giurisdizione sul contenuto sanzionatorio dovrà invece formulare dei giudizi privi di ogni indagine personologica in ambito di trattamento "intramurale" (come in tema di misure ab initio nelle ipotesi di applicazione dell’art. 656 c.5 c.p.p., ma anche in tema di conversione di pene pecuniarie e loro rateizzazione). Altrettanto si può dire in tema di rivio facoltativo e obbligatorio dell’esecuzione e di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, in quanto in questi casi il giudice deve far riferimento ad uno stato di fatto che prescinde da ogni valutazione della personalità del soggetto.
Il magistrato di sorveglianza: struttura e competenze
L’espressione "magistratura di sorveglianza" è sostanzialmente recente e legata solo al vigente codice in quanto la L. 354/1975 parlava di "giudici di sorveglianza". Con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, infatti, si è provveduto a costituire gli "uffici di sorveglianza". L’art. 68 della predetta legge dispone che detti uffici sono costituiti nelle sedi di cui alla tabella "A" allegata alla legge stessa e hanno giurisdizione nelle circoscrizioni dei tribunali in essa indicati. Agli uffici suddetti sono assegnati magistrati di cassazione, di appello e di tribunale. Infine, a testimonianza della profonda diversità di funzioni e di ruolo attribuiti a questi giudici, è stabilito che i magistrati in questione, contrariamente a quanto avveniva nel sistema previgente, non devono essere adibiti ad altre funzioni giudiziarie. In questo senso il legislatore, ribadendo principi già presenti nelle precedenti legislazioni, ha voluto sancire espressamente il c.d. principio della "esclusività" delle funzioni di sorveglianza. Gli uffici di sorveglianza sono costituiti così dai vari magistrati di sorveglianza che li compongono, ad ognuno dei quali viene attribuita giurisdizione sulle singole circoscrizioni rientranti nella giurisdizione complessiva dello stesso ufficio di sorveglianza: il magistrato di sorveglianza è in definitiva un giudice monocratico che opera nell’ambito di una struttura territoriale complessa. Per quanto riguarda la competenza per territorio l’art. 677 c.p.p. stabilisce al primo comma che in ipotesi di interessato detenuto o internato, la competenza è individuata sulla base del criterio del locus detentionis o custodiae, posto in rapporto con il momento della richiesta, proposta o dell’inizio del procedimento di sorveglianza: il giudice competente a conoscere è quello avente giurisdizione sull’istituto in cui l’interessato si trova al momento della richiesta, proposta o dell’inizio d’ufficio del procedimento di sorveglianza. Se l’interessato è in stato di libertà, l’art. 677 c. 2 prevede due ulteriori criteri: il luogo in cui l’interessato ha la propria residenza anagrafica o il proprio domicilio; in via residuale, il luogo in cui fu pronunciata la sentenza di condanna, di proscioglimento o di non luogo a procedere; e se più sono state le sentenze emesse, il luogo in cui è stata emessa quella divenuta irrevocabile per ultima. Tuttavia lo stesso art. 677 prevede, al seconda comma, un inciso ("se la legge non dispone diversamente") che impone di integrare quel dettato normativo con altri criteri inerenti comunque sempre all’ipotesi di soggetti in libertà. I casi a cui la norma suddetta implicitamente rimanda sono quelli relativi alle misure c.d. ab initio. Prima delle modifiche apportate dalla L. 165/1998, era l’art. 47 c. 3 ord. penit. a costituire la norma generale di riferimento e stabilendo che, in questi casi, l’organo competente era il "tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’organo del pubblico ministero investito dell’esecuzione"; che l’istanza, se l’interessato è in stato di libertà, deve essere presentata al pubblico ministero competente per l’esecuzione, mentre, se l’interessato è già stato privato della libertà, la stessa è indirizzata al tribunale di sorveglianza competente territorialmente. A seguito dell’entrata in vigore della c.d. "Legge Simeone" appena citata, la norma di carattere generale, per quanto riguarda le misure c.d. ab initio, è rappresentata dalla nuova formulazione dell’art. 656 c.p.p., e l’art. 47 c. 4 ord. penit. stabilisce che l’organo competente a ricevere l’istanza, da parte dell’interessato già privato della libertà personale, è il magistrato di sorveglianza in relazione al luogo dell’esecuzione, e non più il tribunale. Per quanto riguarda infine la misura prevista dall’art. 90 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, il primo comma prevede che l’organo competente è il tribunale di sorveglianza del luogo in cui l’interessato risiede. Per quanto concerne invece la competenza per materia, i vari interventi del magistrato di sorveglianza possono essere suddivisi nell’ambito dell’esercizio di tre funzioni tipo: una funzione di garanzia, una funzione di vigilanza ed una di controllo. Le competenze di carattere prettamente giurisdizionale sono riassumibili nella c.d. funzione di garanzia della magistratura di sorveglianza con la cui presenza si è inteso realizzare l’obiettivo della legalità all’interno del sistema penitenziario. Questa funzione ha lo scopo di provvedere che, nella materia in esame, a ricoprire specifici ruoli che incidono sul bene della libertà personale non sia l’amministrazione penitenziaria, bensì un organo giudicante. Alcuni di questi interventi sono stati già citati nel paragrafo precedente ma vengono qui nuovamente citati per esigenze di completezza. Anzitutto a norma dell’art. 678 c.p.p. nonché dell’art. 69 ord. penit., il magistrato di sorveglianza sovrintende totalmente alle vicende relative alle misure di sicurezza (applicazione, esecuzione, trasformazione in melius o in pejus, unificazione o revoca delle stesse; riesame della pericolosità ai sensi dell’art. 208 c.p.; provvede altresì in tema delinquenza abituale, professionale o per tendenza) e provvede ai sensi dell’art. 148 c.p. in materia di infermità psichica sopravvenuta al condannato. Dispone in tema di conversione di pene pecuniarie ex art. 136 c.p., e loro rateizzazione ex art. 133ter. Determina le modalità di esecuzione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata e lavoro sostitutivo (art. 53 L. 24 novembre 1981 n. 689). Emette provvedimenti di sospensione o prosecuzione provvisoria dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare, della semilibertà in caso di sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà personale (art. 51bis ord. penit.). Sempre in relazione alle stesse misure alternative, il magistrato di sorveglianza dispone circa la sospensione cautelativa delle stesse misure in vista dell’eventuale provvedimento di revoca del tribunale di sorveglianza (art. 51ter ord. penit.). Dispone l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47ter c. 1quater ord. penit. Decide sulla non computabilità del periodo di permesso o licenza nella durata delle misure restrittive in caso di mancato rientro o altri gravi comportamenti (art. 53bis ord. penit.). Anticipa il tribunale di sorveglianza circa il differimento dell’esecuzione o la liberazione del detenuto quando fondatamente ritiene che il tribunale disponga il rinvio (art. 684 c.p.p.). Infine procede all’audizione o all’assunzione di dichiarazioni di imputati, detenuti ed internati nei vari casi previsti dalla legge (artt. 666 c.4, 127, 489 cc.2 e 3 c.p.p.; art. 101 disp. att. c.p.p.; art. 5 L. 257/1989). In virtù ancora della L. 165/1998, il magistrato di sorveglianza, se l’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali è proposta dopo l’inizio dell’esecuzione della pena, può sospendere l’esecuzione di quest’ultima fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, sempre che l’istanza sia sufficientemente motivata, che la detenzione determini un grave pregiudizio e che non vi sia pericolo di fuga (art. 47 c. 4 ord. penit.). Altrettanto deve dirsi per la detenzione domiciliare (art. 47ter c. 1quater ord. penit.) e per la semilibertà (art. 50 c. 6 ord. penit.), il legislatore rinviando, in questi casi, al disposto di cui all’art. 47 c. 4 ord. penit. relativo all’affidamento in prova. Alla funzione di garanzia vanno poi ad aggiungersi le funzioni di vigilanza e controllo sull’organizzazione dell’amministrazione penitenziaria con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo, ai sensi dell’art. 69 ord. penit., ma anche tutti i provvedimenti circa gli strumenti di sostegno e premiali (licenze, permessi, lavoro all’esterno, ecc.). Inoltre vigila per assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità alla legge. La funzione di vigilanza in sé può essere divisa in una vigilanza oggettiva che riguarda l’attività amministrativa in concreto, ed in una vigilanza soggettiva che viene esplicata nei confronti dei condannati, internati ed imputati. L’operatività del magistrato di sorveglianza, sotto quest’ultimo profilo, può essere attivata mediante reclami che gli stessi interessati possono indirizzare a varie autorità tra cui il magistrato stesso. Tuttavia lo stesso magistrato "può" attivarsi autonomamente attraverso visite, colloqui con gli interessati nonché con gli operatori penitenziari o visionando atti e documenti propri dell’istituto penitenziario. V’è da dire che nell’ambito dell’esercizio di queste ultime due funzioni è il ruolo della amministrazione penitenziaria quello più incisivo: per esempio la legge penitenziaria all’art. 46 reg. esec. stabilisce che l’ammissione al lavoro esterno sia di iniziativa della direzione dell’istituto penitenziario, pur precisando che la sua esecutività dipende dalla approvazione del magistrato di sorveglianza.
Il tribunale di sorveglianza: struttura e competenze
A fianco degli uffici di sorveglianza, la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario prevedeva originariamente all’art. 70 una struttura giudiziaria del tutto nuova: la sezione di sorveglianza, in cui venne individuata una struttura con compiti esclusivamente giurisdizionali ed operante presso l’ufficio di sorveglianza avente sede nel capoluogo del distretto nonché portatrice di una mera autonomia funzionale. Solo con la L. 10 ottobre 1986 n. 663, che determinò la sostituzione integrale dell’art. 70, venne istituito l’attuale tribunale di sorveglianza. Questo organo giudiziario è costituito in ciascun distretto di corte d’appello ed in ciascuna circoscrizione territoriale di sezione distaccata di corte d’appello ed è composto da tutti i magistrati in servizio nel distretto o nella circoscrizione distaccata, nonché da esperti in psicologia, pedagogia, psichiatria, servizio sociale, criminologia clinica o docenti di scienze criminalistiche. uando si riunisce, il tribunale di sorveglianza è un organo collegiale composto da un magistrato di cassazione o, nelle sedi distaccate, da un magistrato di corte d’appello, in qualità di presidente, da un magistrato di sorveglianza e da due fra gli esperti appena citati. Sempre secondo l’art. 70 c. 6 uno dei magistrati componenti, vale a dire il presidente o l’altro magistrato, deve obbligatoriamente essere il magistrato sotto la cui competenza è posto il condannato o l’interessato di cui si tratta. A differenza del magistrato di sorveglianza, al tribunale di sorveglianza sono riservati compiti di natura strettamente decisionale. I provvedimenti pronunciabili si dividono in due categorie: pronunzie in primo grado e pronunzie in sede di gravame (appello o reclamo). Il tribunale di sorveglianza decide in primo grado anzitutto in materia di concessione, ammissione, revoca, dichiarazione di cessazione delle misure alternative alla detenzione (liberazione condizionale, affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà, liberazione anticipata). È competente in tema di rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p.. Dispone la conversione delle sanzioni sostitutive in pene detentive, per violazione delle prescrizioni inerenti la semidetenzione, la libertà controllata o il lavoro sostitutivo (artt. 66 e 108 L. 24 novembre 1981 n. 689). Concede e revoca la riabilitazione ai sensi dell’art. 683 c.p.p.. Concede e revoca la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nell’ipotesi di cui all’art. 90 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309. Infine, a seguito delle ultime modifiche apportate dalla L. 165/1998, il tribunale di sorveglianza è competente a decidere sull’istanza ex art. 656 c.p.p. volta ad ottenere una delle misure alternative ivi elencate. Per quanto concerne queste pronunzie, l’organo collegiale, oltre ad una più congrua analisi nel merito della questione, svolge anche una più appropriata indagine personologica del detenuto o dell’internato. In sede di gravame, il tribunale di sorveglianza decide sia in grado di appello avverso i provvedimenti appellabili emessi dal magistrato di sorveglianza, che in sede di reclamo. Nel primo caso rientrano per esempio tutti i provvedimenti relativi alle misure di sicurezza e alle dichiarazioni di delinquenza qualificata ma anche pronunzie concernenti le sole misure di sicurezza, diverse dalla confisca, emesse dal giudice ordinario con sentenza di condanna, proscioglimento o di non luogo a procedere (artt. 680 c. 2, 579 cc. 1 e 3 c.p.p.). Per le misure di sicurezza applicate provvisoriamente è invece competente, in sede di riesame, il tribunale della libertà (artt. 313 c. 3 e 309 c. 7 c.p.p.). Nel secondo caso rientrano invece i provvedimenti in materia di sorveglianza particolare, di permessi nonché di esclusione della computabilità del periodo di permesso o licenza nella durata delle misure restrittive in caso di mancato rientro o altri gravi comportamenti (art. 53bis ord. penit.).
Il pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione
I compiti demandati ed i poteri attribuiti al pubblico ministero nel processo penale sono stati da sempre al centro di un dibattito molto complesso. Storicamente e almeno fino all’entrata in vigore della Costituzione, il pubblico ministero è sempre stato fortemente dipendente dal potere esecutivo e la sua natura di organo puramente amministrativo non è mai stata posta in discussione. In questo senso può essere citato l’art. 129 R.D. 6 dicembre 1865 n. 2626, ovvero il primo testo di ordinamento giudiziario del Regno d’Italia, il quale, mutuando la normativa francese dell’epoca, stabiliva che " il pubblico ministero è il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, ed è posto sotto la direzione del Ministro della giustizia". Questa subordinazione veniva giustificata dal fatto che il governo, impegnato nella prevenzione e repressione dei reati, doveva poter dirigere l’organo che di fatto era incaricato di promuovere la suddetta repressione. Il rapporto gerarchico fra pubblico ministero e Ministro di grazia e giustizia viene per la prima volta posto in discussione con l’entrata in vigore della Costituzione: la disciplina del pubblico ministero viene infatti inserita nello stesso titolo concernente la magistratura ed in particolare nella sezione intitolata "Ordinamento giurisdizionale". Tuttavia la scelta dell’Assemblea costituente fu il risultato di un compromesso fra chi ancora voleva che l’esercizio dell’azione penale fosse definitivamente sottratto alle interferenze del potere politico e chi, invece, voleva ancora il pubblico ministero come rappresentante del potere esecutivo. A fianco infatti dell’art. 101 Cost. in cui si afferma che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, con l’art. 107 c. 4 Cost. l’Assemblea costituente stabilì che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite, nei suoi confronti, dalle norme sull’ordinamento giudiziario. In quest’ultima disposizione, infatti, molti videro una sorta di rimessione della disciplina del pubblico ministero alla discrezionalità del legislatore ordinario il quale sarebbe stato sì libero di assicurare a tale organo la stessa indipendenza dei magistrati giudicanti, ma libero anche di assoggettarlo a forme di ingerenza degli altri poteri istituzionali. Il diritto positivo si è, peraltro, sempre più andato consolidando nella nuova direzione inaugurata con la Costituzione e da allora la legislazione ha assicurato alla magistratura requirente la stessa indipendenza esterna garantita alla magistratura giudicante. Sul versante giurisprudenziale, la Corte costituzionale ha sempre rilevato che il pubblico ministero "è un magistrato appartenente all’ordine giudiziario, collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza da ogni altro potere" il quale "non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale alla osservanza della legge: persegue, come si usa dire, fini di giustizia", ovvero "è organo di giustizia preposto nell’interesse generale alla difesa dell’ordinamento, con il compito di procedere alla persecuzione dei reati". L’art. 655 c.p.p. indica il "pubblico ministero presso il giudice indicato nell’art. 665" come organo di esecuzione dei provvedimenti del giudice. Poiché competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento è, ai sensi dell’art. 665, il giudice che lo ha deliberato, la competenza esecutiva del pubblico ministero segue di pari passo quella del giudice dell’esecuzione. Ciò posto, si può affermare che le funzioni esecutive spettano a tutti i magistrati del pubblico ministero, fatta eccezione per il procuratore generale presso la corte di cassazione (salva l’ipotesi di cui all’art. 626 c.p.p.): la Corte, infatti, non è mai giudice dell’esecuzione dei propri provvedimenti e di conseguenza a tale magistrato del pubblico ministero è impedito di svolgere funzioni esecutive. L’art. 655 c.p.p. esordisce stabilendo che, salvo che sia disposto diversamente, l’organo della pubblica accusa "cura d’ufficio l’esecuzione dei provvedimenti". Quello di "curare" l’esecuzione di tali provvedimenti si configura come un potere - dovere per il pubblico ministero alla stregua dell’esercizio dell’azione penale: in entrambe le competenze sono infatti ravvisabili gli stessi requisiti della obbligatorietà, pubblicità, ufficialità e irretrattabilità. Il pubblico ministero è in particolare competente per ciò che attiene alla esecuzione di tutte le pene e misure di sicurezza (artt. 656, 658, 660, 661, 662, 664 c.p.p.), al computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo (art. 657 c.p.p.), all’esecuzione dei provvedimenti del giudice di sorveglianza (art. 659 c.p.p.) ed alla unificazione delle pene concorrenti (art. 663 c.p.p.). Da quanto appena sinteticamente esposto appare chiara la posizione di netta centralità che il pubblico ministero assume nell’introdurre la vicenda esecutiva: esso costituisce l’organo di impulso dell’attuazione delle sanzioni penali. La direttiva n. 79 della Legge Delega del 1974 enunciava espressamente i principi di giurisdizionalizzazione dei procedimenti concernenti la modificazione e la esecuzione della pena e l’applicazione delle misure di sicurezza, delineandosi così quello "standard minimo" che dovrebbe caratterizzare la fase esecutiva nell’ambito del panorama accusatorio: la terzietà del giudice, la parità fra pubblico ministero ed interessato e la garanzia del contraddittorio. La direttiva n. 96 dell’ultima Legge Delega del 1987, pur riproducendo in gran parte il contenuto della direttiva n. 79, trasforma il ben più pregnante riferimento alla "giurisdizionalizzazione dei procedimenti" in un generico richiamo alle "garanzie di giurisdizionalità" per i provvedimenti concernenti le pene. L’impianto codicistico delineato dalla legge delega del 1987, nonché lo stesso "nuovo" codice, pur sottoponendo i provvedimenti del pubblico ministero al controllo del giudice dell’esecuzione, in realtà attribuiscono all’organo della pubblica accusa un ruolo di schiacciante preminenza che mal si concilia con il carattere di parte processuale che lo stesso codice ha per esso ritagliato invece in fase cognitiva e, seppure parzialmente, in fase investigativa in ossequio al canone della ripartizione delle funzioni. Il conclamato ridimensionamento del pubblico ministero al rango di parte processuale sembrava far propendere per una scelta radicale che riconducesse tutte le attività esecutive, ivi comprese quelle di mero promuovimento, alla competenza del giudice: il legislatore delegato si è tuttavia mantenuto nel solco della disciplina tradizionale. La scelta del legislatore di non addivenire ad una completa giurisdizionalizzazione della fase esecutiva è forse ancora più chiara laddove si consideri che l’intervento del giudice è ancora sostanzialmente legato a caratteri di netta incidentalità, nonostante la ormai pacifica e piena dignità processuale della fase esecutiva. In definitiva, al pubblico ministero compete in executivis una forma di supremazia che mal si colloca nella tendenziale finalizzazione del sistema a garantire la partecipazione paritetica di accusa e difesa in ogni stato e grado del procedimento. I dubbi che si suole sollevare in proposito traggono origine anche da un’altra direttiva, la n. 104, che prevede l’adeguamento di tutti gli istituti processuali ai principi e criteri enunciati nella direttiva n. 96. Alla luce di questa direttiva infatti molte delle competenze del pubblico ministero troverebbero una più felice collocazione nella sfera del giudice. L’esempio più significativo può essere rappresentato dal disposto di cui all’art. 656 così come modificato dalla L. 27 maggio 1998 n. 165. L’art. 656 c. 5 prevede infatti l’obbligo per il pubblico ministero di sospendere d’ufficio l’esecuzione di tutte le condanne irrevocabili a pena detentiva non superiore a tre anni ovvero non superiore a quattro anni nei casi di cui agli artt. 90 e 94 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (T.U. stupefacenti), salvo le eccezioni previste dai commi 7 e 9. L’ordine di esecuzione ed il decreto di sospensione sono consegnati all’interessato con l’avviso che lo stesso, entro trenta giorni, può presentare istanza, "corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessaria", volta ad ottenere la concessione di una misura alternativa. La nuova formula legislativa, pur nelle sue innovazioni, non risolve la questione interpretativa che, già nel vigore della abrogata disciplina, vedeva contrapporsi, da un lato, i fautori di un intervento valutativo del pubblico ministero sulle domande affatto o non sufficientemente documentate; dall’altro, chi sosteneva che il pubblico ministero dovesse controllare solo formalmente circa la ricorrenza o meno del limite di pena indicato per la misura alternativa richiesta. Dai lavori preparatori alla redazione del testo legislativo emerge peraltro l’orientamento secondo il quale il pubblico ministero non ha potere di compiere valutazioni nel merito. In questo modo l’assoluta carenza di documentazione a sostegno dell’istanza potrà solo essere sanzionata con una pronuncia di inammissibilità da parte del tribunale di sorveglianza, cui il pubblico ministero dovrà in ogni caso trasmettere immediatamente gli atti. La stessa linea interpretativa dovrebbe poi seguirsi nel caso di cui all’art. 91 c. 4 D.P.R. 309/1990 che attribuisce al pubblico ministero, in relazione alle istanze di concessione delle misure ex artt. 90 e 94 stesso decreto, un autonomo potere di sospendere l’esecuzione nei confronti di condannati già detenuti. Si tratta di una materia che, indubitabilmente, si caratterizza per un certo contenuto decisorio da cui deriva per il pubblico ministero il potere, praticamente sconosciuto nel nuovo modello processuale, di decidere su di una materia relativa alla libertà personale. Tuttavia v’è anche chi ritiene corretta e coerente con il sistema l’attribuzione della competenza del pubblico ministero all’emanazione di tali provvedimenti riconducendo le "garanzie di giurisdizionalità" di cui alla legge delega non tanto ad una "pianta organica" processuale rigorosa che vede contrapporsi alla terzietà del giudice la perfetta parità delle parti, quanto alla possibilità di promuovere - avverso la decisione del pubblico ministero - l’intervento del giudice dell’esecuzione sui presupposti e sulle modalità della stessa. Dopo tutto, pur procedendo a richiesta del pubblico ministero, dell’interessato o del difensore (art. 666 c.p.p.), il giudice competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento è pur sempre il giudice che lo ha deliberato (art. 665 c.p.p.).
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