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La mediazione sociale come prevenzione al degenerare dei conflitti e risposta alla domanda di sicurezza di Paolo Salvatore Nicosia
www.dignitas.it, novembre 2003
Introduzione
"La mediazione sociale può essere una risposta al sentimento di insicurezza che si sta diffondendo tra le persone e che trova le sue ragioni nell’insistenza di episodi di criminalità diffusa e nel disordine sociale e fisico che interessa molte città e quartieri, costituendo al tempo stesso una forma di prevenzio-ne per gli episodi di criminalità che derivano da una conflittualità mal gestita, nella famiglia, nella scuola, nella società. In questo ci conforta l’esperienza di altri Paesi (e, ultimamente, anche dell’Italia) che, di fronte alla crescita della conflittualità territoriale, già da tempo hanno ricercato altri modi di soluzione, che vanno oltre l’attività giurisdizionale o meramente punitiva - repressiva. Si va dalle esperienze di gestione costruttiva del conflitto nella scuola e nei luoghi di lavoro, alla mediazione familiare (a prescindere dalla separazione dei coniugi, anche per ristabilire l’armonia domestica), alla pratica di mediazione sociale che sempre più comuni e realtà locali stanno adottando per ristabilire relazioni compromesse tra vicini, condomini e consociati, fino alle esperienze di mediazione penale, una volta che il reato è commesso, magari perché il conflitto che è stato alla base dell’evento criminoso non è stato espresso, capito, risolto.
Il conflitto e la mediazione sociale
Il conflitto è una vicenda umana che può dar luogo ad esperienze laceranti e di solitudine. Le questioni che pone toccano la vicenda sociale nella sua interezza: non sono questioni di qualcuno, legate allo status culturale, economico, ambientale, ma sono questioni di ciascuno, espressive di disagio, d’inquietudine, di sofferenza. Se è più che evidente che sono inapplicabili soluzioni di tipo sanitario o assistenziale, accade anche che sfuggono alla giustizia le possibilità di occuparsi del conflitto nella sua interezza, a partire, cioè, dai soggetti confliggenti. In genere, la giustizia allontana le parti dal fatto conflittuale che le riguarda o riduce la soddisfazione del conflitto all’auspicio di una punizione. Altro è incontrare i confliggenti, prendendoli in carico entrambi per restituire loro la responsabilità in ordine allo scontro che li oppone, cioè, per offrire ad essi un’opportunità di gestione accompagnata del loro litigio. Questa pratica di regolazione del conflitto che chiama il terzo ad una posizione di neutralità, rappresenta un nuovo modo di regolazione sociale: il paradigma non è più la lite, la contesa, ma l’accoglienza dei contendenti tesa a favorire il tentativo di riprendere il dialogo interrotto o a crearne uno nuovo. Lo sviluppo d’esperienze di mediazione in vari ambiti: familiare, scolastico, lavorativo ci sta mostrando una nuova via per rispondere al bisogno diffuso di sicurezza. Per un verso muove energie comunitarie di base, capaci di dare qualità sociale al territorio anche nelle condizioni di suo maggior degrado e marginalità. Per un altro individua nel rapporto aggressore-vittima uno spazio di relazione riparativa del quale la vittima ha bisogno e che non è attualmente correlato al perseguimento della certezza della pena: non solo, infatti, le azioni che feriscono il senso di civiltà non trovano nel meccanismo sanzionatorio la garanzia della riparazione (o, quanto meno, non nell’immediato), ma spesso tali atti incivili non stanno dentro le categorie penali. Eppure, anche in questo caso può esserci offesa e può derivare un bisogno di riconoscimento e di riparazione che la società può incontrare, creando luoghi sociali che trattino questo vissuto di vittimizzazione e questo senso di perdita di appartenenza al proprio territorio. I dati ci dicono, poi, che la statistica della delittuosità (reati denunciati) diverge dalla statistica della criminalità (reati per i quali è avviata l’azione penale) e che rimane rispetto ai dati ufficiali un numero oscuro di reati che non vengono denunciati, per i quali, qualsivoglia siano le ragioni, esistono tuttavia vittime o persone che percepiscono se stesse come tali e che vivono sofferenze reali. Anche queste vicende personali hanno bisogno di alleanze, di accoglienza che, attualmente, come è evidente, non trovano. la mediazione nei vari ambiti vuole cogliere l’opportunità nuova che è data da questi luoghi sociali di gestione del conflitto per promuoverli, nel contesto di politiche di contrasto all’insicurezza che non possono essere relegate all’ordine pubblico, alla repressione, ma passano, attraverso il governo del territorio e le opportunità date ai cittadini di viverlo.
Le esperienze internazionali di mediazione sociale
In ambito internazionale, è nota l’esperienza del Community Board degli Stati Uniti che interviene nei conflitti sociali prima che questi acquisiscano maggiore gravità e assumano la configurazione di reati. In Canada, Gran Bretagna, Olanda, Austria e Norvegia sono state realizzate diverse esperienze che hanno una diversa connotazione in riferimento al contesto nazionale e alla specificità del quadro normativo. In Francia, la mediazione è una procedura alternativa che può risolversi con la rinuncia a esercitare l’azione penale, il codice di procedura penale francese prevede che il procuratore della Repubblica possa attivare la mediazione dopo un accordo preliminare con le parti, con gli obiettivi di assicurare la riparazione del danno alla vittima, di porre fine al conflitto e di contribuire al reinserimento dell’autore del reato. In Austria, il cui ordinamento giuridico pure prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, il procuratore della Repubblica, dopo aver verificato l’ammissione di responsabilità da parte del minore e il consenso da parte della vittima, decide se può essere effettuata la mediazione. L’attività di mediazione, qualora si concluda con esito positivo, comporta l’archiviazione del caso. Oltre alle esperienze attuate in diversi Stati, la cultura della mediazione è stata accolta e sostenuta nella legislazione internazionale e comunitaria quale strumento di risoluzione dei conflitti che consente una risposta di giustizia riparativa, favorendo una responsabilizzazione dell’autore del reato, e fornendo una risposta alle esigenze di rafforzare il patto sociale non che di ridurre la conflittualità, aumentando il senso di sicurezza del cittadino e confermando l’adesione a valori comuni. Il passaggio dall’ottica punitiva e riabilitativa a quella riparativa fa riferimento ad una nuova concezione della sanzione penale che, pur mantenendo intatti gli aspetti di rinvio alla responsabilità personale, rimanda chiaramente, anche utilizzando tutte le risorse presenti sul territorio, ad una serie di proposte e di opportunità che il soggetto, autore del reato, può cogliere per il proprio cambiamento, e ad una migliore considerazione degli interessi della vittima del reato, persona singola o società nel suo complesso.
Le esperienze italiane, teoriche e pratiche
Anche in Italia si sta muovendo qualcosa, sia in ambito di elaborazione teorica, sia in applicazioni pratiche degne di tutta la nostra considerazione. Farò qualche accenno alle esperienze da me direttamente conosciute. Intanto c’è da rilevare positivamente l’attenzione che alcune università italiane stanno dando alla mediazione, all’interno di nuovo corsi di laurea come quelli della classe "cooperazione, sviluppo e pace". L’Università degli Studi di Pisa, in particolare, ha attivato il corso di laurea (triennale e specialistica dall’anno accademico 2004-2005) in "Scienze per la Pace", all’interno della quale ho l’onore e il piacere di insegnare.
Mediazione e conciliazione
La regione Toscana, utilizzando fondi europei per la formazione, ha lanciato un bando per Moduli professionalizzanti all’interno di nuovi coi di laurea, vinto dal Corso di laurea per il quale insegno con un progetto intitolato alla mediazione e conciliazione di conflitti sociali. In pratica si tratta di seguire un percorso di studi interno al corso di laurea, della durata di un anno, che oltre a determinate materie coerenti al titolo e agli obiettivi del progetto, veda gli studenti impegnati in tirocini presso realtà che già offrono o vogliono sviluppare servizi di mediazione alla loro utenza. Sono così nati alcuni servizi di mediazione sociale in comuni dell’hinterland pisano, come anche servizi di mediazione scolastica o ambientale o interculturale. Caratteristica comune di queste esperienze, che si richiamano anche a tentativi di mediazione sociale che si stanno tentando in altre parti d’Italia (e sui quali potremo soffermarci in un prossimo articolo), sono la gratuità per l’utenza e la professionalità degli operatori, preparati attraverso specifici percorsi formativi teorici e pratici, e che sono coinvolti in prima persona anche nella strutturazione degli stessi servizi, in sinergia con l’ente ospitante che si fa carico delle spese di gestione e di promozione del servizio. A tali servizi le parti confliggenti si possono rivolgere contestualmente, o, se una sola parte attiva il servizio, gli operatori contattano l’altra cercando di costituire un ponte tra le due, condizione fondamentale per procedere. Comunque, di norma, nessuno può essere costretto a tentare una mediazione, tanto meno ad accettarne conclusioni, che comunque sono di pertinenza delle parti e non del terzo.
Cos’è la mediazione sociale
Ma vediamo di approfondire cosa intendiamo per mediazione, in particolare per la mediazione sociale, che può rispondere ai conflitti di seconda generazione, per adottare un’espressione di Adolfo Ceretti, quelli cioè di vicinato, di quartiere, familiari, interculturali, di ambiente e sul posto di lavoro, laddove si possono vivere una serie di incomprensioni, di offese, di violenze, più o meno palesi, che necessitano di una riparazione, possibilmente non vendicativa da parte della vittima, anche se legittimata da una legge dello Stato, ma che vada nel senso di una giustizia riparativa e che porti a una evoluzione del colpevole, ridonando, al contempo, fiducia e soddisfazione alla vittima.
Regole condivise e comuni consentono, inoltre, alle parti di porre in essere valutazioni di adeguatezza teorica e pratica sugli accordi raggiunti e di negoziarne di nuovi; dal canto suo, il mediatore potrà svolgere la sua funzione di catalizzatore delle risorse e facilitatore dell’impresa dialettica, secondo quel principio di equità, ben noto a chi svolge tale ruolo, che consente un esito di vincita di tutte le parti coinvolte. Questo tipo di mediazione tende quindi all’efficienza ai fini della capacità gestionale dei conflitti socioculturali, ma è anche pedagogicamente efficace su tutti i soggetti coinvolti, consentendo benefici, riduzione dei costi e, soprattutto, di investire sulle lunghe scadenze. Non si tratta di una pratica che nel nome dell’uguaglianza e del rispetto astratto delle differenze offre, di fatto, servizi di assistenza, che finiscono con l’impedire ogni sforzo teso all’autentica, per quanto sofferta, comprensione delle rispettive identità e alla concreta possibilità di gestione dei conflitti. Se così fosse, la mediazione sociale tenderebbe ad impedire il manifestarsi esplicito del conflitto, costituendosi come un vero e proprio cuscinetto o ammortizzatore sociale, anche se poi molti conflitti sopiti e latenti, alla fine, esplodono e assumono una connotazione distruttiva.
Come opera il mediatore sociale
Il mediatore sociale tende, piuttosto, alla valorizzazione della coesistenza e del riconoscimento delle differenze assolute nel nome di un confronto che non ammette compromessi, nascondimenti, deleghe, bensì una costante legittimazione della volontà degli individui e dei gruppi di venire fuori dall’anonimato ed esigere il riconoscimento e il rispetto reciproco. Terzo fra le parti, il mediatore è imparziale, schivo da pregiudizi negativi o positivi; pur riconoscendosi egli stesso figlio della sua cultura di appartenenza, aiuta le parti a ordinare e rendere comprensibile la complessità propria di una società cosiddetta policentrica. Il mediatore sociale aiuta le soggettività, singole e collettive, a cercare in profondità le radici della diversità che sono dentro le identità tanto individuali quanto di gruppo. Egli, quindi, sollecita a definire le identità, non a renderle aleatorie, confuse; un mediatore sa bene che le identità definiscono le differenze e che l’apprendimento avviene per differenza non per sovrapposizione né, tanto meno, per omologazione. Il mediatore, equamente, consente e stimola tutte le parti ad assumere e sviluppare la titolarità della propria soggettività e dell’espressione di essa, favorendo la gestione del conflitto, che è possibile soltanto attraverso l’accettazione della sfida del cambiamento e, quindi, dell’apprendimento alla convivenza delle reciproche differenze. Il mediatore sociale gestisce il conflitto per far emergere le risorse positive latenti; non lo teme perché sa che è fisiologico, che appartiene alla spinta evolutiva dei sistemi, ed è fondamentale per affrontare le trasformazioni, che rappresentano invece la vera coerenza del sistema a cui appartengono. E questo è esattamente il vero problema: fare scoprire la coerenza come istanza metodologica evolutiva di ogni sistema vivente umano e non come principio di volta in volta morale, comportamentale, contenutistico: un’evoluzione che comporta inevitabilmente la scoperta dell’interdipendenza. In questo senso, l’attività del mediatore sociale è proprio quella di far emergere l’autonomia dei soggetti dall’interno della scoperta della loro interdipendenza, in ciò favorendo la possibilità della scelta.
Conclusione
La mediazione sociale, quindi, partendo proprio dalla definizione delle rispettive posizioni, consente a soggetti e a gruppi di individuare, diventandone consapevoli, le molteplici interdipendenze che li vincolano, portandoli anche a prendere atto dei conflitti latenti o palesi; nello stesso tempo accresce il grado di autonomia, facendo scoprire in ciò la possibilità di definire la scelta, cioè il cambiamento e l’evoluzione delle regole comuni di convivenza pacifica. Il che sarà sempre più importante anche, e in special modo, nelle società sempre più meticce nelle quali vivremo. Perché le differenze culturali, se vissute ostilmente o in modo apertamente conflittuale sono sicuramente traumatiche e destabilizzanti, mentre possono essere oggetto di positivi interventi di mediazione sociale interculturale con un’importante ricaduta in termini di collante per collettività, appunto meticce, valorizzando al massimo le differenze di ciascuno, in una sinergia che sia arricchimento per tutti, tanto da poter elogiare il meticciato, come dice Massimo Pavarini in questo stesso numero della rivista.
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